Testimonianze - Carl Theodor Dreyer
Carl Theodor Dreyer
Carl Theodor Dreyer nascose sempre gelosamente il segreto della sua nascita e della sua infanzia. Con una specie di ossessione, lui che adorava la spietatezza crudele della verità, mentì, diffuse falsi racconti, impedì ai figli di fare ricerche. Là in fondo, in quel punto oscuro dove era nato, stavano la vergogna, il dolore, la morte. Era un figlio illegittimo. La madre svedese, Joséphine Nilsson, figlia di un proprietario agricolo decaduto, lavorava come dispensiera in una fattoria della Svezia meridionale; e concepì un figlio dal padrone, Jens Christian Torp, un danese timido e melanconico. Egli non volle riconoscerlo. La madre scese a Copenaghen, dove il 3 febbraio 1889 partorì il futuro Carl Theodor Dreyer. Poi cercò di darlo in adozione: in due anni il bambino fu affidato a sette famiglie diverse: venne abbandonato in un orfanotrofio; finché nel 1891 fu adottato stabilmente dalla famiglia di un modesto tipografo di Copenaghen. Intanto, Joséphine Nilsson era tornata in Svezia. Riprese il suo lavoro nella grande cucina dei Torp: si innamorò di un ingegnere agronomo, che promise di sposarla. Rimase incinta, e venne di nuovo abbandonata. Questa volta decise di abortire. Aveva sentito dalle donne della fattoria che, ingoiando del fosforo, si poteva interrompere la gravidanza. Così il 14 gennaio 1890 prese una grossa scatola di fiammiferi, e ne ingoiò il fosforo. Sei giorni più tardi, morì avvelenata. Il volto era giallo: il mento gonfio, il sangue le usciva dalla bocca; il corpo venne squartato dall'autopsia.
In quegli stessi giorni, mentre la madre moriva in Svezia, il piccolo Carl Theodor Dreyer cominciava a Copenaghen la sua triste vita di figlio adottivo. Aveva due anni; e la scomparsa della madre, di cui aveva perso ogni traccia, il sinistro turbinio di padri e di madri fittizi, cocchieri, calzolai, artigiani, tipografi, lo segnò profondamente. Nella famiglia adottiva, rimase un estraneo, un mendicante senza diritti: non sappiamo se per la freddezza dei genitori adottivi, o per il suo desiderio inconscio di rimanere escluso. Diceva amaramente: "I miei genitori adottivi non perdevano mai l'occasione per farmi notare che avevo il dovere di rimborsare loro al più presto quello che avevano speso per me". A diciassette anni, lasciò la casa dei Dreyer, dove non rimise più piede. Con il passare del tempo, la sua estraneità alla famiglia divenne odio furibondo: l'immaginazione esagerò i torti e le tensioni; e quando molti anni dopo la madre adottiva morì, ne accolse la notizia con tale furore che i parenti rimasero sconvolti. Nel 1908, a diciannove anni, andò in Svezia, per avere notizie di Joséphine Nilsson. Conobbe la zia, che aveva sposato l'uomo che non aveva voluto sposare la madre: raggiunse la grande fattoria dove la madre era morta, il cimitero dov'era stata sepolta. Tutta la verità venne alla luce. Ne rimase acciecato. Non poteva che consacrare alla madre il culto che si dedica alle vittime e ai santi. Dopo di allora tenne sempre una fotografia di lei ‒ giovanissima, prima dell'amore, del concepimento, del peccato e dell'espiazione ‒ incorniciata sopra il tavolo di lavoro.Viveva a Copenaghen. Negli anni della giovinezza e della prima maturità, nulla sembra rivelare in lui le tracce di queste ferite. Pareva un giovane avventuroso e ardito, appassionato e instancabile, desideroso di affrontare tutti i nuovi mestieri che l'epoca gli offriva. Lavorò nel Servizio municipale del gas e dell'elettricità, nella Grande compagnia dei telegrafi e dei telefoni del Nord. Poi diventò giornalista, specializzandosi in temi aereonautici e automobilistici. Fece dei reportage sui primi voli in pallone e in aereo tra la Danimarca e la Svezia; e partecipò egli stesso alle gare di pallone. Diventò giornalista politico: "leggero, frivolo, insolente". Cominciò a lavorare per una compagnia cinematografica, leggendo soggetti, rielaborando e scrivendo sceneggiature, mentre nella stagione estiva si occupava di un teatro all'aperto. Chissà cosa sarebbe diventato: forse uno dei tanti inquieti e frenetici dilettanti che popolano l'epoca moderna, alla ricerca di un successo irraggiungibile. Ma nel 1918 la Nordisk Films Kompagni gli affidò la regia di un film: Præsidenten. Tranne il mediocre Pagine dal libro di Satana, non conosco i suoi primi film muti. Cosa è Prästänkan o Die Gezeichneten o Mikaël o Glomdalsbruden o Du skal ære din hustru, che mi assicurano bellissimo? Quest'uomo perseguitato dalle Furie aveva finalmente tra le mani una macchina da presa; e nulla più di una macchina da presa ‒ nemmeno la penna, l'inchiostro e il foglio di carta ‒ può portare alla luce i desideri e i furori nascosti che possiedono la nostra anima.Ho l'impressione che Carl Theodor Dreyer sia rimasto, finora, racchiuso in una formula. Non è possibile circoscriverlo: imporgli un contenuto, un tema, un genere, una forma. Qualsiasi cosa affermi in un film, nel film successivo la contraddice. Qualsiasi luce splenda, si rispecchia in una tenebra. Come tutti i grandi artisti, possiede una fantasia multiforme: ognuna delle sue opere rappresenta una novità assoluta, perché muta radicalmente il punto di vista, la concezione del mondo, lo stile. Nella sceneggiatura di Dies irae, c'è una frase memorabile. Mentre attraversa la campagna notturna, Absalon dice al sagrestano: "Guarda il cielo, le nuvole... sono come una strana scrittura". Il sagrestano risponde: "È il dito del Signore che scrive". E Absalon: "Ma chi sa decifrarla?". Dreyer non ha fatto che questo: cercare di decifrare la scrittura segreta di Dio. In questa ricerca ha impegnato il suo disperato romanticismo: l'infinito senso di colpa, l'esasperazione, l'amore dell'estremo, la vocazione tragica, la tensione, il coraggio intellettuale, il senso assoluto della forma. Alla fine, chinò il capo. Per quanto avesse cercato e provato e riprovato, la scrittura del Signore era rimasta indecifrabile.Nell'aprile del 1926, Dreyer si trasferì a Parigi, dove aveva firmato un contratto con la Société générale de films. La Société gli fece tre proposte: un film su Maria Antonietta o un film su Caterina de' Medici o un terzo su Giovanna d'Arco. Dreyer era incerto. Lasciò decidere al caso; e con le sue vie misteriose il caso gli impose di raccontare un'altra volta, in modo definitivo, La passione di Giovanna d'Arco. Le riprese durarono nove mesi, durante i quali Dreyer girò ottantacinquemila metri di pellicola. In quei nove mesi, e poi durante i mesi di montaggio (doppio montaggio, perché la prima copia venne distrutta da un incendio), il giocoso viaggiatore in pallone, l'emulo dei personaggi di Verne, lo sfacciato e insolente giornalista diventò un furibondo artista del Quattrocento italiano, Donatello o Piero della Francesca, asceta della perfezione. Rifiutò ogni trucco: gli attori che impersonavano i giudici vennero tonsurati, la Falconetti sacrificò i capelli nella scena della rasatura, e si fece torcere le caviglie in quella della tortura. Scavava trincee dappertutto, e disponeva la macchina da presa molto in basso, così da deformare e violentare la realtà. Ebbe un aiuto incomparabile in Renée Falconetti, l'attrice che impersonava Giovanna d'Arco e tutte le sere brillava nell'arte leggera dei teatri dei boulevards. Anni dopo, Dreyer raccontò che, per quanto egli controllasse il lavoro di lei, la Falconetti esprimeva, nei momenti di ispirazione, "sentimenti che le erano estranei, non sapeva di possedere", e che egli stesso non le aveva dettato. "Nei suoi momenti migliori, c'era qualcosa di indefinibile attorno a lei ‒ qualcosa che non era di questo mondo".
Come tutte le eroine di Dreyer, Giovanna è un'invasata: posseduta dalla sublime mania, di cui parla Platone. La sua fede è la semplice fede di una contadina del Quattrocento, che non ha mai letto un libro, assorbendo le preghiere e le convinzioni della madre e della famiglia. Ha la certezza, e la crudeltà sorridente, della propria vocazione. Niente può farla cedere, o solo per un istante; e, come accade nelle grandi epoche religiose, la sua semplicità è nutrita dalla più sottile e squisita sapienza teologica. Mentre viene interrogata, vilipesa, torturata, arsa sul rogo, la sua passione ripete istante per istante quella di Cristo: come lui, viene derisa, schiaffeggiata, incoronata, abbeverata di acqua-fiele. Mai Gesù era rinato con tale intensità e verità nell'arte moderna. Come Cristo sul Getsemani, Giovanna è assolutamente sola. Nessun Dio la soccorre, nemmeno per un momento: nessun Dio guarda i suoi occhi che guardano in alto; nessun spirito celeste scende dentro di lei, a consolarla e a mitigare la sua tortura. Niente redime la sua passione. La croce è dappertutto: fatta di giochi di luce e ombra, di fuscelli di paglia incrociati, di pezzi di legno del rogo. Ma come è fragile questa croce! Come è labile e senza forza! Tutti possono calpestarla, con piedi violenti e terreni.Non ho mai visto un volto così mobile e trasparente come quello di Giovanna: la luce vi trascorre veloce, in continua oscillazione e mutamento, portando i sentimenti fino alla più limpida espressione. Esprime tutte le passioni: non cela nulla: non è che continua rivelazione ‒ mentre i giudici e i prelati mentono o nascondono, e anche le altre figure dei tardi film di Dreyer saranno meno aperte alla luce. Ma, al tempo stesso, gli occhi di Giovanna guardano nell'anima, frugano nell'anima, fino a una profondità che ci sembra inattingibile. Così comprendiamo come mai questo volto così atmosferico e trasparente ci sembra, alla fine, fisso, immobile, puro, come una statua del Laurana.Su ogni cosa regna la concentrazione. Il processo e il rogo avvengono in una sola giornata: l'azione si svolge interamente dentro la cinta del palazzo di giustizia di Rouen. Poi, in Dies irae, in Ordet e in Gertrud (ma non in Due esseri), Dreyer accettò il tempo e lo spazio: rappresentò giorni, mesi, raffigurò case, vallate, fiumi, montagne. Non poteva far altro: il tempo e lo spazio sono una caduta, ed egli doveva raccontare cadute; ma con una parte di sé rimpianse sempre La passione di Giovanna d'Arco, dove il tempo e lo spazio venivano negati. Con meravigliosa incongruenza, lui che conosceva così bene il quindicesimo secolo (quanti libri e documenti aveva letto), derise la fedeltà storica: gli elmetti dei soldati inglesi sono simili a quelli della Prima guerra mondiale. Per essere fedele alla storia, violò la storia. Ne ottenne un risultato straordinario. Mentre ci aggiriamo in questo finto palazzo di giustizia, contemplando i volti dei prelati e dei giudici, abbiamo l'impressione che le sculture e i mostri delle cattedrali del Medioevo, di Rouen o di Reims o di Chartres, si stacchino dalle antiche pietre e siano qui, tra noi, attorno a Giovanna che deve salire sul rogo.Pochi oggetti della letteratura e dell'arte moderna sono tragici come gli oggetti di Dreyer. Tutte le cose ‒ anche una chiave, una penna, una catena, un pezzo di paglia ‒ possono farci piangere come un corpo torturato o un viso che si torce sul rogo. Nulla è più tremendo dei capelli tagliati e gettati al suolo di Giovanna, e della scopa che li spazza. Ognuna di queste cose aspira alla condizione del simbolo ‒ sebbene il loro senso non possa mai essere tradotto in parole. Dreyer sapeva che la realtà è orribile, come i visi dei giudici, che fanno smorfie, si grattano, si strappano le pellicine. La realtà è caos, terrore, lacerazione. Ma il suo compito di artista era quello di trasformarla: ogni cosa doveva diventare bellezza assoluta, primo piano abbagliante, perfezione che nulla poteva intaccare; e tendere all'immobilità e alla fissità delle eterne apparizioni.La sceneggiatura di Vampyr, composto quattro anni dopo, è un capolavoro letterario, che appartiene alla tradizione gotica del nostro secolo. Non è soltanto un appunto o uno schema per ciò che dovrà essere girato e montato: ma un'opera che basta a sé stessa, e bisogna leggere per comprendere il film. Questa volta, scrivendo, Dreyer vede: vede quel mondo di nebbia, di spettri e di doppi; con una intensità e una ricchezza di sensi indefiniti, che talvolta mancano nel film. Spesso, il film ci sembra troppo corposo: incapace di diventare nebbia, pura atmosfera inquietante. Davanti alla bellezza di queste pagine, ci chiediamo come mai Dreyer non abbia continuato a scrivere. Credo che la letteratura gli sembrasse una espressione troppo lontana e mediata. Mentre la macchina da presa gli permetteva di illuminare direttamente, con il gesto stregonesco dell'evocatore di spettri, il mondo tenebroso della sua anima.
Qualche anno dopo, Dreyer parlava di Vampyr ironicamente, come di una esplorazione giocosa che aveva compiuto nel terreno della letteratura gotica. "Oggi non prendo più sul serio Vampyr, tranne che come un esperimento stilistico interessante e istruttivo". Aveva preso appunti da decine di libri, annotando i temi ossessivi, come Mario Praz, proprio negli stessi anni, scriveva La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Leggendo la sceneggiatura, e poi vedendo il film, si ha l'impressione di una specie di immenso catalogo. La notte: l'ombra: lo straniero: il dormiveglia: il sogno che ingloba il giorno: le porte che si aprono lentamente: le maniglie che girano da sole: l'irruzione della morte: le persone senz'ombra, le ombre senza persona: la vertigine dei corridoi: l'evidenza onirica della realtà: le mani isolate nel buio: l'ipnosi: le azioni spiegate e immotivate: gli oggetti che grondano anima: i doppi delle persone e degli eventi: la coesistenza della morte e della vita; e quel mostruoso, estatico svenamento e dissanguamento della vita, che è il vampirismo... Non c'è nessun tema, nessuna immagine, nessuna ossessione della letteratura gotica, che non siano raccolte in questa breve storia notturna.Non si gioca impunemente col regno dell'ombra. Se Dreyer aveva cominciato per gioco, poi si lasciò travolgere da quei segni; e decise, forse senza saperlo, di esplorare l'ombra in tutti i suoi recessi, nascondigli e segreti. Dopo Henry James, nessuno aveva rappresentato ciò che è spettrale nell'universo con tanta intensità, angoscia e inquietudine. Ogni immagine si lascia dietro uno strascico di terrore. Dreyer comprese che la spettralità è il male: la peggiore forma che ne esista al mondo. Nel suo film, non ci sono veri colpevoli: né la vecchia-vampiro né il medico malvagio. Il male è una potenza diffusa, innominata, innominabile: una specie di oscura macchina automatica, che si annida nella nebbia e nei fantasmi, e contro la quale non esiste difesa possibile.
In apparenza, Vampyr ha una soluzione positiva. La notte finisce. La nebbia scompare. Il sole attraversa le nubi. I due amanti passano il fiume, e corrono nella luce arborea del mattino. Nella sceneggiatura, giungeva perfino l'angelo della luce, che "fuga le ombre della notte". Dobbiamo credere a questo improvviso lieto fine? O, invece, le ore del giorno trascorreranno velocemente e tornerà la notte, col suo terribile corredo ‒ le porte che si aprono, gli incubi, le ombre senza corpo, i corpi nelle casse da morto, i denti che suggono il sangue? Presto Dreyer comprese quanto il suo gioco con gli spettri gli era costato. Dopo la conclusione di Vampyr, venne internato in una casa di cura, dove rimase lunghi mesi. L'inconscio si era risvegliato e l'aveva posseduto. Tornò a Parigi. Attraversava per ore le strade della città, senza meta, con gli occhi selvaggi e storditi, tenendo per mano il figlio di otto anni, come se quella mano infantile potesse proteggerlo.
Passarono anni di silenzio. Tentò e abbandonò un film sulla Somalia. Tornò a Copenaghen: abitava al primo piano di una casa popolare, in un modestissimo appartamento di due camere e mezzo, dove trascorse il resto della vita. Fece dapprima il critico cinematografico; poi, per quattro anni, senza interruzioni, sedette sui banchi riservati al pubblico nel Tribunale di Copenaghen. Scriveva quasi un articolo al giorno sui casi giudiziari e i processi, raccontando storie e destini umani, come sessant'anni prima aveva fatto Dostoevskij. Non ho mai letto quegli articoli ‒ quasi mille ‒ : ma immagino che egli vedesse nei processi e nei tribunali una delle forme più perverse del male. Aveva amato il suo lavoro di regista "fino all'ossessione". Forse temette di dover abbandonare per sempre la gioiosa ansia delle riprese, la dolorosa fatica del montaggio, il commercio quotidiano con gli attori e i tecnici. Ma il suo amore non era finito. Nel 1943, dodici anni dopo Vampyr, girò il suo capolavoro: Dies irae. L'anno dopo un film bellissimo, che egli stesso contribuì a denigrare: Due esseri. Tutto quello che aveva pensato e sofferto negli anni della desolazione confluì in queste opere.Non conosco il testo da cui Dreyer trasse Dies irae: se un lettore di oggi vuole avere una prima idea del film può immaginare che un grande scrittore romantico, rivissuto nel ventesimo secolo, abbia fuso sullo schermo due capolavori gotici: La lettera scarlatta e Cime tempestose. Dies irae è un film tremendo. Non c'è altro che male: una terribile fiamma pervade il mondo; un male onnipotente, che non conosce limite nelle sue invenzioni. Che odio, che violenza tra gli uomini: tutta la violenza espressa in La passione di Giovanna d'Arco si scatena, moltiplicata, con una intensità allucinatoria. Ci sono le torture delle streghe: in queste torture, come dice Dreyer, c'è qualcosa di "febbrile, forzato, estatico", come se egli stesso piegasse e piagasse e torcesse le membra delle donne. Ci sono i roghi: rogo di Marthe, rogo prossimo di Anne; dove prorompe il sadismo di Dreyer, una furia distruttrice che prende la forma del fuoco. Ma ci sono anche le streghe. Perché Marthe, Anne e sua madre sono delle vere streghe, come l'innocenza illuministica di molti interpreti non ha compreso. Ricordiamo le streghe di Lucano, che come loro posseggono un potere ereditario. Marthe, Anne e sua madre chiamano i vivi, i quali vengono al loro appello: uccidono i vivi prossimi col desiderio, uccidono i vivi lontani chiamando dal grembo stesso della morte. "Che strano potere può avere un essere umano" dice Anne, la strega.Dies irae gronda di luce tenebrosa. Questa luce vive nell'immenso 'fiore del male', che è Anne, la moglie di Absalon, l'amante di suo figlio Martin. Il male, che in Vampyr era una forza anonima, spaventosa e spettrale, qui ci affascina e ci incanta senza fine. Quanta felicità irradia attorno a sé Anne, tutta avvolta e intenerita dalla dolcezza del suo eros demoniaco. Basta che rida e sorrida: che guardi coi suoi occhi dove una fiamma vibra e trema: che canti; o chiami e baci Martin o corra tenendolo per mano nella notte illuminata dalla luna. Lo riempie di sé: lo possiede, come l'amata del Cantico dei cantici possedeva l'amato, come Anna Karenina inebriava Vronskij. L'amore è dovunque, in tutte le cose create: nelle betulle che si rispecchiano nell'acqua e "si piegano di desiderio" verso il proprio riflesso, nelle spighe di grano, nella luce lunare, nei campi, nel bosco, nelle acque che luccicano di eros. La mitologia romantica dell'amore riaffiora per un'ultima volta, negli stessi anni in cui Musil la rappresentava nella parte conclusiva del suo romanzo.In questi film del 1943-44, Dreyer trova la forma ideale della sua arte. Porta il furore, la passione, la tensione, l'esasperazione ‒ fino al diapason: in quel momento tutto sta per lacerarsi e spezzarsi e distruggersi e venire distrutto. Questo furore viene compresso, concentrato e purificato nella perfezione classica della forma, come nel teatro da camera di Strindberg. Mai il bianco e il nero ebbero una tale purezza, un tale nitore e una tale forza di contrasto: bianco assoluto, nero assoluto; a volte abbiamo l'impressione che i colori si capovolgano e il bianco sia la luce accecante del male. In molte immagini c'è il ricordo di Vermeer, di Rembrandt, di Friedrich, del tardo Frans Hals: senza che ci sia mai la minima traccia di estetismo o un sospetto di pastiche, come nei film contemporanei di Ejzenštejn. Dreyer non fa del Rembrandt o del Vermeer: è Rembrandt o Vermeer, con un processo miracoloso di trasformazione.Passarono altri dieci anni. Nel 1954, Dreyer compose Ordet, La Parola, da un dramma di Kay Munk: il film che egli amò più di tutti i suoi, come se vi avesse detto le cose che aveva più care e alle quali non osava credere. Con il coraggio dei veri scrittori, rovesciò completamente la struttura di Dies irae. Dio, che era morto e scomparso in Vampyr e Dies irae, risorse gloriosamente, come in un trionfo medioevale. Quale improvviso, dolcissimo sgorgo di soavità e di speranza e di fede. Tutto è semplice e fluido, come in una parabola evangelica. Non ha senso chiedersi se Dreyer abbia creduto in Dio, nella fede e nei miracoli. Un artista non ha alcun obbligo di credere. Come Kafka, che sosteneva idee e immagini opposte in libri contemporanei, egli tentò una grandiosa ipotesi: gettò i suoi dadi sulla tavola d'azzardo dell'arte; suscitò la speranza che Dio esista e faccia miracoli ‒ perché se Dio esiste, è miracolo. Ma questa ipotesi valeva soltanto per Ordet, un momento irripetibile: poi tutto dovette essere ripreso, dolorosamente, da capo.Johannes è un falso Cristo, che imita e ripete fanaticamente le parole che, duemila anni fa, vennero dette nella Palestina. Crede di essere il "Cristo redivivo venuto a voi seguendo il comandamento di Colui che ha creato il cielo e la terra": come nel prologo del Vangelo di Giovanni, si sente escluso: "Io sono la luce del mondo, ma le tenebre non la comprendono. Sono venuto presso i miei, ma i miei non mi hanno ricevuto". Questo sinistro allievo di Kierkegaard è al tempo stesso un vero visionario e un vero profeta. Ha la fede, che tutti hanno perduto nei tempi moderni: vede la morte passare nella casa; e qualcuno ‒ non sappiamo se Dio o una donna ‒ gli dà il potere di compiere miracoli.Il personaggio centrale di Ordet è Inger, la cognata di Johannes, che aspetta un figlio, e morirà di parto. Ha una fede molto più pura di quella di Johannes, e possiede l'arte difficilissima della preghiera. "Prega e continua a pregare, anche se mai ciò ti è sembrato così inutile": pregare nella notte, nel silenzio, mentre non siamo ascoltati e nessuno ci risponde, come nessuno risponde a Giovanna d'Arco. Se hai fede, "vedrai che caldo ti sentirai... così, dentro... e come sarai felice... ed è bello sentirsi felici, non è vero?". Siccome ha fede, Inger crede nei miracoli. Tutta la realtà quotidiana, che noi abitualmente non riusciamo a vedere, è miracolo: preparare dei biscotti, macinare il caffè, fumare la pipa, leggere un libro, preparare l'anguilla marinata; il miele sovrano del cuore pervade gli oggetti e gli eventi della vita quotidiana. "Io credo che accadano tanti piccoli miracoli in segreto, attorno a noi. Nostro Signore ascolta le preghiere degli uomini, ma preferisce esaudirle in segreto, per evitare che se ne faccia troppo baccano".Inger è la dolcissima mediatrice, che fa suonare in armonia tutti i suoni dissonanti dell'universo. La sua morte è un sacrificio, come quella del Cristo. Riporta la conciliazione tra i religiosi nemici, ridà la fede al marito, fa sì che il giovane amante possa sposare l'amata, trasforma Johannes, il profeta fanatico, in un semplice essere umano, che come tutti gli esseri umani compie miracoli, e, attraverso le sue mani e la fede di una bambina, risuscita e salva sé stessa. Non c'è più limite al miracolo. Per un momento, grazie alla fede di una donna morta e risuscitata, sulla terra di Danimarca rinasce "il vecchio Dio, il Dio di Elia, eterno ed eguale".Composto nel 1964, Gertrud non conserva più tracce di questa fede commovente ed effimera. Non c'è più il miracolo, né la tenerezza devota della piccola vita quotidiana. Dio è scomparso per sempre, lasciando un vuoto nella realtà e nell'immaginazione di Dreyer. Resta una frivola ipotesi sulle labbra di Jansson: "Un essere supremo deve pure esistere, da qualche parte. Altrimenti troppe cose sarebbero inspiegabili". Tratto da un dramma di Söderberg, in molti aspetti Gertrud ricorda il teatro dei boulevards: i dialoghi spiritosi, gli abiti eleganti, gli interni perfetti, la cura scrupolosa con cui tutto è disposto. È una commedia in costume, legata al tempo, come nessun altro film di Dreyer: perché nelle altre opere il tempo era evocato, e subito ucciso in un'immagine immobile. La società mondana della belle époque, quella in cui aveva vissuto la sua adolescenza piena di odio, non piaceva affatto a Dreyer: così raffinata, scettica e disinvolta. Egli amava i tempi feroci dei furori religiosi, che facevano ardere la sua immaginazione. Sublime e ridicola, Gertrud è una grande amorosa ottocentesca, che chiede inutilmente alla vita l'amore assoluto, l'amore-fatalità, l'amore-dolore. "L'unica cosa che so è che l'amore ha posto i suoi artigli su di me", declama, e noi torniamo a vedere in lei "Venus toute entière à sa proie attachée". Gertrud è una nuova Madame Bovary: virile come lei; le parole che dice sull'amore, e quelle che scrivono i suoi amanti scrittori, o aspiranti scrittori, non sono meno sciocche delle fantasie romantiche della giovinezza di Emma. Malgrado queste parole e questi gesti che imitano la passione, il film è gelido: l'unico tra quelli di Dreyer. Non c'è mai la traccia o il tepore o l'umidità di Eros. Gertrud non ricorda in nulla una creatura teneramente indemoniata come Anne. Eros non le interessa: non lo capisce, non lo condivide. Conosce soltanto la passione intellettuale dell'amore, e la recita con la precisione di una attrice. Il tempo teatrale lentissimo, in cui avanza, la fascia come un sudario.
Così Gertrud finisce per rinchiudersi, con i suoi capelli bianchi e le rughe che sembrano stirate da una parrucchiera, nella "irrimediabile solitudine". Dreyer amava in lei la durezza dello spirito: la spietatezza: l'inflessibilità, l'intransigenza, con cui porta sino in fondo la sua recitazione solitaria. Sapeva di assomigliarle. Voleva ricordare a tutti noi la propria inflessibilità: che gli aveva permesso di rappresentare, durante una lunga vita che stava per abbandonarlo, i propri grandiosi furori.