Testimonianze - Federico Fellini
Federico Fellini
"Appena ti fabbrichi un pensiero, rìdici sopra": queste parole di Laozi, che Federico Fellini citava volentieri, e non soltanto a proposito di I clowns, contengono una delle possibili chiavi di lettura della sua opera. Rapportate alla sontuosa sostanza immaginaria e visiva di cui è fatto il suo cinema, sembrano infatti voler segnalare quell'istanza critica che puntualmente, all'interno di quel fenomeno estetico all'apparenza concluso in sé, emerge a corroderne il meccanismo di identificazione, a irriderne l'assolutezza, a vanificarne le certezze. Il dubbio si espande: l'immagine glorifica la bellezza dell'illusione e contemporaneamente ne svela la natura di illusione. Lo smascheramento non sminuisce tuttavia la bellezza, l'incanto, la vitalità della creazione. Ma neppure vitalità, incanto e bellezza si oppongono alla derisione, al giudizio.
Procedimento essenziale nella poetica di Fellini, questo smascheramento crea immagini tanto ricche, tanto sature da suscitare nello spettatore una sorta di resistenza al movimento stesso del film. Ma anche tale resistenza è parte di un progetto poetico. L'occhio si affanna nel percorrere una superficie intessuta di proposte molteplici, embricate; qualcosa continua a sfuggirgli; quasi che una serie di dipinti preziosi fossero stati posti in una macchina che li turba, li muove, ottenendone altri altrettanto preziosi, altrettanto sfuggenti. E tuttavia ciò che dà senso a quella superficie, a quelle immagini, ciò che le legittima nasce proprio dal movimento stesso che le travolge e quasi le cancella ‒ per quanto belle e preziose siano. A fronte di questo fenomeno la memoria di chi legge reagisce in modo insolito, è costretta a registrare e a decifrare con una rapidità inconsueta la serie delle figurazioni stupefacenti.
E in effetti, la poetica di Fellini, fin da Luci del varietà e da Lo sceicco bianco, appare legata allo stupore ‒ alla capacità di creare stupore, di folgorare dall'interno e con effetti voluti, ora drammatici ora comici, le attese narrative dello spettatore. La comicità di questi film degli inizi nasce dalla loro capacità di bruciare le convenzioni narrative della commedia cinematografica italiana. In Lo sceicco bianco, complice quel suo ritmo da balletto (l'autore della musica era già Nino Rota), il regista in realtà riduce personaggi e situazioni a mere astrazioni, a segni di uno spettacolo puro. I caratteri sono quasi assenti, sostituiti da una recitazione meccanica lievemente inquietante, sfasata: gli occhi stralunati dello sposo, l'enfasi derisoria dello Sceicco, la sognante fissità della sposina.
All'arte del comico appare da sempre associata la vocazione di Fellini. Prima di essere sceneggiatore e regista, fu per alcuni anni gagman, e collaborò al "Marc'Aurelio", quel giornale satirico tra i cui lettori era stato anche J. Joyce. Fellini vi pubblicò disegni umoristici e brevi racconti, che sono vere anticipazioni dei suoi film e nei quali manifesta l'ironia mordace, che era già la sua, verso i cliché dell'attualità. Nel primo film che diresse per intero, appunto Lo sceicco bianco, egli deride, schernisce, fa la parodia del fotoromanzo, che costituiva lo stereotipo più diffuso e invadente dell'Italia di allora.
Ma il cuore dell'invenzione è stato certamente quello che crea coesistenza e addirittura simultaneità tra illusione e disillusione attraverso un dispositivo stilistico che le produce entrambe: potrebbe essere definito 'congegno delle apparizioni'. Presenti in tutti i film di Fellini, ne sono il centro germinativo, ogni volta fonte di felicità, e nel contempo cifra di un inganno evidente. Inaspettatamente ci si trova all'interno di una felicità di genere nuovo, ottenuta attraverso la consapevolezza della sua vacuità. Felicità che mantiene la gioia della sorpresa all'interno della consapevolezza che corrode la perfezione. Effetto curioso che occorre analizzare.
Nel primo film, per es., l'apparizione rivelatrice non interviene nelle prime immagini, in apertura ‒ come invece accadrà in La dolce vita, dove l'elicottero con la statua del Cristo si alza incombente sul panorama di una Roma assolata e pigra, di fronte allo sguardo deliziato delle ragazze in bikini su una terrazza, e contemporaneamente agli occhi dello spettatore immerso nell'oscurità della sala di cinema: visione emblema dell'intero film ‒; in Lo sceicco bianco l'apparizione si presenta invece dopo un lungo inizio ironico, che racconta l'arrivo a Roma dalla provincia degli sposini in viaggio di nozze e la fuga della sposa con la troupe del fotoromanzo, fino a quello che sembrerebbe dover essere l'inizio della fine dell'avventura: la giovane donna entra nella pineta di Fregene alla ricerca di un treno o di un autobus che la riporti a Roma, all'albergo dove lo sposo l'attende ansioso, credendola vicina, nella stanza accanto, immersa nella vasca da bagno.
È lì che il romanzesco denunciato fino a quel momento come derisorio ‒ bovarismo banale della sposina che si firma 'Bambola appassionata', le lettere che scrive al suo eroe di carta ‒ lì quel romanzesco invade bruscamente lo schermo e sottomette anche lo spettatore, lo forza a identificarsi con la figura che in primo piano, di spalle, 'bambola' sempre più 'appassionata', immobilizzata dallo stupore, guarda, in un rapimento totale. In alto, tra le cime dei pini, tra veli bianchi al vento, una figura maschile fluttua, fiera, sull'altalena smisurata. La fiction suscita un esotismo felice, una sorpresa di essenza infantile. Ma subito dopo l'eroe sull'altalena si rivela rozza figura del qui: nel seduttore esotico si riconoscono il volto ilare, i lineamenti grossolani, gli occhi ammiccanti e furbastri del personaggio di Alberto Sordi. Ma ancora prima di identificare questo volto, lo spettatore è già stato allertato dalla posizione delle gambe corte, comicamente rialzate, tese, piedi all'insù, in una sorta di doppia erezione parodistica. Gambe che non evocano l'energia mobile dei cavalieri del deserto, ma un'affermazione sessuale elementare, rafforzata dalla voce che canta a gola spiegata ‒ all'opposto dei sogni delle lettrici di fotoromanzi (o proprio nel fondo di essi). Nel primo momento tuttavia l'eroina non vede ciò che ha dinnanzi, ma ciò che vuol vedere, e lo spettatore la segue.
Analogamente, in Intervista, che racconta la prima visita del giovanissimo Fellini a una Cinecittà appena inaugurata e già per lui mitica, il visitatore scorgerà due figure dominanti, in alto: un mahārāja da film orientale, che troneggia sul baldacchino di un elefante bardato a festa, e un regista imperioso che impartisce ordini dalla gru di ripresa. Anche qui l'identificazione tra personaggio e spettatore ‒ così come pure il subi-taneo disincanto di quest'ultimo ‒ si sposta dall'eroe da fiction al fabbricatore del film.
Con funzioni simili sembrano costruite molte altre 'grandi apparizioni' dell'opera felliniana: oltre all'elicottero con la statua di Cristo in La dolce vita, gli elefanti e gli indiani in Intervista, il rinoceronte in E la nave va; ma anche quelle che costellano La strada, aprendone di volta in volta lo spazio scuro e chiuso, attraverso gli occhi spalancati di Gelsomina: il Matto, il cavallo bianco ecc. Ogni volta l'apparizione comporta gioia, supplemento di energia, trionfale ingresso del favoloso.È dal circo, dal music hall che Fellini riprende la struttura episodica dei suoi film, in un crescendo dell'immaginario verso un'acmé, attraverso la successione delle apparizioni minori. È in effetti a partire da questi spettacoli che egli elabora la tecnica delle apparizioni, calibrandole in un meccanismo a incastro che le fa esplodere nel tessuto della narrazione. L'apparizione è legata, in Fellini, a una sensibilità che può dirsi di tipo poetico: flash, irruzione dell'istante che rompe la trama, in contrasto con la continuità della storia. Ma nell'interno di questa struttura, una 'piccola distanza' si manifesta, uno scarto ulteriore si produce. Nell'istante successivo, l'illusione si scopre per tale.
Molti film di Fellini prendono la forma di un block-notes del regista. I block-notes ‒ appunti presi durante il film o in vista del film ‒ descrivono i progetti, da realizzare, o anche da concepire come qualcosa che dovrà rimanere 'progetto'. Sono in qualche modo la frangia di dubbio intorno all'opera: possono rappresentare la fiction allo stato nascente, o al contrario un nodo di riflessione critica dal quale usciranno i colori dell'opera. I progetti di Fellini manifestano a pieno la dimensione interrogativa e metalinguistica del suo cinema. In E la nave va, dietro il grandissimo battello che occupa le sequenze iniziali si apre all'improvviso lo spazio del set: lo spettatore scopre che quel battello affascinante è un oggetto finto, costruito in studio. Tuttavia questa scoperta non provoca una caduta di adesione; non causa una deludente riduzione; al contrario la rivelazione del film che si sta facendo dietro al film che si guarda, provoca un brusco impennarsi del piacere di vedere. L'attività multiforme che si spiega sul set, la solidarietà viva della troupe al lavoro, ricorda l'allegria indomita delle compagnie di circo, la quale è legata per il regista a una forte emozione infantile.
Numerosi film di Fellini sono, in grado diverso, 'film sul film'. 8 ¹/₂ lo è per intero, e spinge la situazione fino all'estremo, fino a definirsi, nelle parole del suo autore, come "la storia di un regista che non sapeva più qual era il film che voleva fare".
Il 'filmetto' Intervista estende sistematicamente lo sguardo a tutto lo spazio della fabbricazione ‒ lo dice il titolo iniziale Cinecittà ‒, spazio nel quale l'intervista (intervista del giovane Fellini alla diva, intervista del regista del 1987 alla propria memoria) forma il nucleo originario del progetto, l'inizio del block-notes e del film. Il block-notes, in questo senso, viene a costituire il mezzo adatto a rompere l'impero della fiction, la fiducia nell'immaginario. Attraverso l'espediente di questa formula che potrebbe definirsi intervista 'al quadrato', il film diviene tutto ciò che lo costruisce, compresi gli ostacoli alla sua realizzazione; in altri termini, è il pre-film.
In un primo momento l'intervista si presenta come forma di un approccio stereotipato, come elemento per un documentario ironico su un'epoca interamente dominata dai media. Ma la distanza semplice (il film che guarda il suo farsi) a poco a poco si complica e si differenzia in una serie di strati: il regista suscita altre figure di registi, che sono i suoi doppi parodistici (il regista di spot televisivi, i due registi dell'epoca fascista). Il 'filmetto' contiene, en abyme, una serie di altri film: si passa dall'uno all'altro con disinvoltura, senza avvertire (i film pubblicitari, il film rosa, i film con gli indiani, il progetto di un film tratto da Amerika di F. Kafka, il film in bianco e nero che diventa film muto, La dolce vita). Lo spettatore, sconcertato, si trova improvvisamente implicato nella sua memoria di spettatore, preso nella 'notte sperimentale' del cinema: così il film 'in diretta', improvvisazione sul lavoro del cinema, si rivela capace di innescare un'emozione intensa. In effetti non si tratta soltanto, di fronte a quelle figure splendenti, del tema inevitabile della crudeltà, della fuga del tempo, dell'invecchiamento, ma anche, in maniera più sorprendente, delle nostre immagini mitiche, del loro incontro, della loro fragilità e della nostra, misteriosamente mischiate al di fuori di noi. Si tratta, nel viaggio del tranvetto, della nascita della fiction: percepiamo che il tranvetto non esiste ‒ si tratta soltanto di pezzi di tram issati su dei camion e predisposti per le riprese. Ma ciò che percepiamo è la forza della fiction. Fin dalla partenza caotica e trionfale, qui come altrove (come in Amarcord, con il Rex su un mare di plastica, come il mare di plastica di E la nave va) siamo pronti a credere: a credere nei viaggiatori, negli indiani, nelle cascate, negli elefanti, nella proiezione magica annunciata da un dubbio Mandrake da pubblicità. In equilibrio tra la casualità frammentaria di una serata televisiva in casa e il ricordo quasi leggendario di una vecchia lanterna magica nell'infanzia, assistiamo alla persistenza in noi della forza della fiction: assistiamo alla sostanza d'ombra che ci costituisce.
L'unità dell'opera felliniana, dal punto di vista tecnico, si costituisce intorno alla scoperta del 'falso' e all'elaborazione dell'artificio scenico. Proprio questa sorta di filosofia ‒ la filosofia di un ritmo ‒ in antitesi con il punto di vista del Neorealismo, porta a considerare i film di Fellini come opere in progress. Egli vede il film che sta girando come un tutto in movimento, nel quale anche quanto accade durante le riprese è in grado di invadere il film stesso, di spostarlo, di cambiarne il corso. Le difficoltà impreviste, gli ostacoli di ogni natura suggeriscono soluzioni che possono generare sviluppi di una poetica inattesa e le consentono di attingere a strati più appartati dell'immaginario, impensati, ignoti.
La consapevolezza della ricerca della rappresentazione dell'ignoto e del profondo emerge con grande chiarezza nella scelta dei progetti; la si coglie per es. in un testo pubblicato sui "Cahiers du cinéma", nel 1991, nel quale Fellini racconta un progetto mai realizzato, meno noto di quello del Viaggio di Mastorna, eppure pienamente rivelatore della sua volontà di esplorare gli spazi più misteriosi della psiche: "Avrei voluto fare un film su una trentina di bambini di due o tre anni dentro un palazzo di periferia. Le comunicazioni telepatiche tra di loro, le occhiate nei cortili e nelle scale, le storie d'amore totale e di dolore totale. Descrivere questi esseri depositari di immense ricchezze che col tempo scompaiono molto velocemente. Era un film sulla porosità della parete che nell'infanzia ci separa dall'inconscio, dall'irrazionale, dal sogno". E continua: "In seguito questa parete si rinforza, si indurisce, e non passa più niente".
Era proprio questo il dono che Fellini possedeva: la facoltà di attraversare a volontà la parete tra conscio e inconscio. Forse in virtù del lavoro che egli dispiegava incessantemente su di sé (anche come pratica analitica con lo psicoanalista junghiano E. Bernhard), per far emergere la propria creatività, in lui sembra restata attiva quella che definisce, a proposito dell'infanzia, "porosità dell'inconscio" e che gli adulti di solito sperimentano soltanto nel sogno.
Il sogno può essere detto la cifra della creazione per Fellini. Non che in lui fosse secondaria la percezione del reale, del mondo della veglia: era in effetti uomo della luce ‒ luce edenica e onirica, certo, ma anche luce del giorno. Nulla sembrava sfuggirgli del mondo della politica e dei cambiamenti sociali più sottili. L'attenzione al presente, all'attualità immediata (come in Prova d'orchestra) era una sua caratteristica sostanziale, anche se spesso da egli stesso ironicamente sottovalutata. Fu spesso capace di decifrare, prima di molti politici, la pericolosità di alcune tendenze emergenti nella società dello spettacolo, come testimoniò in Ginger e Fred.
Il senso del sogno nei film va ricondotto a questa prospettiva d'insieme. Ma pure andrà subito osservato che per Fellini il sogno non è soltanto ‒ e forse non soprattutto ‒ ciò che avviene nel sonno (al quale era attentissimo, come testimoniano i tre grandi quaderni nei quali ha registrato, raccontandoli e illustrandoli, i suoi sogni per diversi anni). Nei film, più che narrazioni concluse, i sogni sono nuclei originari, riserva di energia, alimenti per l'immaginazione creatrice.
Occorre infine, per interpretare e situare i diversi livelli della creazione in Fellini, evocare la sua straordinaria sensibilità agli stati-limite, una sensibilità chiaramente legata all'universo onirico, che egli aveva sviluppato fin dall'infanzia. Stati-limite, istanti privilegiati che rammentano da vicino quegli stati e istanti che Joyce aveva definito epifanie (lo stesso termine vale anche per M. Proust). È in effetti a partire dal contesto letterario di Proust e Joyce che si può riconoscere anche nel mondo di Fellini questa sorta di fenomeni, che vi rivestono un'importanza estrema. Egli li viveva come veri e propri fondamenti dell'esperienza, e si applicava a dare loro una piena visibilità. Avrebbe addirittura voluto renderne visibile la natura particolare in un film ad hoc, che non ha mai realizzato: "il film della mia vita", una sorta di "autobiografia continua" alla quale alludeva spesso.
Almeno tre sono gli scrittori ‒ Dante Alighieri, F. Kafka, G. Simenon ‒ che vanno ricordati a questo proposito in quanto gli sono stati compagni e ispiratori. Dalla Divina commedia ‒ riferimento costante nella sua opera ‒ gli era stato spesso chiesto insistentemente di trarre un film, almeno sull'Inferno. Egli rispondeva che in realtà questo film lo aveva girato molte volte: "In fin dei conti che cosa sono i miei film ‒ diceva ‒ se non delle discese all'inferno, con un barlume di paradiso"? Ma resta tra le sue carte un progetto intitolato L'Inferno, probabilmente l'ultimo, già redatto in forma di sceneggiatura.
Kafka lo scoprì molto presto e lo predilesse immediatamente; lo appassionava tutto: in particolare Amerika (di cui traspose diversi episodi in Intervista). Lo interessava la 'comicità della sessualità', e soprattutto amava la centralità in Kafka del sogno.
Il senso dell'ammirazione e dell'amicizia per Simenon (la loro affettuosa corrispondenza, iniziata nel 1960, quando Simenon, presidente della giuria del Festival di Cannes, fece in modo che si attribuisse la Palma d'oro a La dolce vita) durò fino alla morte dell'inventore di Maigret, nel 1981. La ragione profonda di questa amicizia, per quanto riguarda Fellini, si trova esplicitata in un sogno che risale al momento della preparazione travagliata di Il Casanova di Federico Fellini ‒ sogno che raccontò al suo amico ‒ e grazie al quale la terribile tensione che lo paralizzava allora si allontanò di colpo: "Il film mi sembrò meno detestabile, e mi misi a lavorare". Nella sua lettera all'amico, Fellini dava la seguente interpretazione: "Poiché nel mio sogno Simenon riusciva perfino a "dipingere" i suoi romanzi, perché non sarei riuscito a girare il film in una lingua a me estranea? E quella distanza che sentivo verso Casanova? Sì, è vero, era un personaggio che mi era estraneo, che sentivo lontano da me, ma allo stesso tempo era un personaggio che viveva profondamente in me, esattamente come Nettuno, dio degli abissi marini".
E sarà in effetti la vibrazione nettuniana a comunicare al film, al di là dei presupposti negativi, un'intensità e uno spessore accattivanti.
Egli enunciava un altro paradosso della sua creazione, un'utopia del cinema ‒ molto vicina alla volontà di rappresentare l'irrappresentabile ‒ che esprimeva quando pensava di portare quelle sensazioni, quelle misteriose epifanie nei film, ovvero di rendere visibile il luogo stesso dell'assenza dell'immagine. Ed è proprio in questo paradosso che si trova forse il segreto, il cuore germinativo di un'opera dalla tensione ineguagliabile verso un linguaggio cui allude l'apparizione, fulmineo, fragile, in bilico tra nascere e scomparire.