Testimonianze - Francois Truffaut
François Truffaut
Un bambino corre. La cinepresa allarga il campo e si vede che sta correndo lungo l'argine di un canale. Il cielo è grigio, incombente e freddo. Stacco. Lo stesso bambino corre adesso sulla spiaggia. Il mare non si vede ancora, è alle spalle della macchina da presa. La sabbia è bagnata, non c'è sole. Quando il bambino, quasi un ragazzo, arriva sulla battigia si ferma, e l'immagine si apre a comprendere, finalmente, anche il mare, un mare invernale, livido come il cielo. Né il bambino, né noi l'avevamo mai visto. Il bambino, che si chiama Antoine, entra nell'acqua con le scarpe, come volesse sentire quel mare che incontra per la prima volta. Poi torna indietro e guarda nella camera con aria smarrita.
Per tutta la durata di questa sequenza, non c'è mai un sorriso sul volto di Antoine. Primo piano sul suo viso e fermo immagine. Compare in sovrimpressione la parola FINE.
Per me, invece, questa sequenza è stata l'inizio di un'avventura che si chiama François Truffaut. Il film da cui è tratta la scena è Les 400 coups (1959), il primo lungometraggio di Truffaut. Devo averlo visto in qualche cineclub, molti anni dopo la sua uscita, perché nel 1959 avevo solo quattro anni. Non credo neppure, come peraltro capita spesso con il cinema, e anche con i libri, di aver capito subito perché mi piaceva; non solo per l'insufficienza dei miei strumenti critici di allora, ma anche e soprattutto per la convinzione che ciò che nasce dalla visione di un film è prima di tutto un'emozione, a volte della mente, altre del cuore, è la capacità di portare lo spettatore dentro qualcosa e di non farglielo più dimenticare.
Qui era successo tutto con la leggerezza, come se si trattasse di una commedia, di un gioco e di qualche risata; invece quello sguardo, quel modo tragicamente inadatto di affrontare la vita, era penetrato in profondità, restava come impresso nella retina della mia memoria (e in quella di molti altri, se proprio quel primo piano finale sarebbe diventato anni più tardi la chiusura della sigla per la Mostra del cinema di Venezia).
"Bisognava evidentemente impedire a Jean-Pierre Léaud di sorridere […]. Non si sorride quando si è soli".
Così François Truffaut spiegò, anni dopo, quello sguardo che tanto mi aveva colpito. E già in questa risposta c'è molto di quanto è necessario a spiegare il fascino per me del cinema di Truffaut: un senso morale, il gusto necessario della verità.
Non so quale sia stata l'infanzia di Truffaut o quella di Jean-Pierre Léaud, il ragazzo che interpretava Antoine, né mi interessa saperlo, perché ciò che è certo, per me, è che quello sguardo non è stato inventato, ma trovato e poi trasformato in cinema.
Detto in altri termini, e formulato attraverso una domanda: di chi è quello sguardo? Di Antoine Doinel, nome completo del protagonista del film? Di Jean-Pierre Léaud? Di Truffaut, non solo regista del film, ma anche origine culturale e probabilmente biografica di quel personaggio e di quella storia? Io credo di tutti loro tre, in un intreccio inestricabile, fra persone e personaggi, fra cinema e vita. Ed è questo che mi ha sempre colpito nei film di Truffaut, la capacità di usare insieme i canoni della realtà, della naturalezza, e quelli dell'arte, della finzione cinematografica. Come se fosse possibile, ed è stato possibile per lui, tenere insieme, in una stessa idea di cinema, i suoi due più grandi amori: Jean Renoir e Alfred Hitchcock. Cioè la franchezza e la massima semplicità di Renoir e la stilizzazione estrema delle immagini, l'irrealtà voluta di tanto cinema di Hitchcock.
Per questo ho amato più il filone 'realistico' di Truffaut che quello, certo altrettanto importante, basato su fonti letterarie (da Jules et Jim, in avanti). Perché nel primo mi appare più evidente ciò che è l'essenza dell'opera d'arte, vale a dire la capacità di restituzione di una qualche verità del reale, della vita delle persone per quanto essa concretamente rappresenta, e insieme il rendere esplicito il linguaggio che si usa, il vero e proprio artificio, attraverso cui questa restituzione avviene: in questo caso la finzione cinematografica.
Come nella splendida scena dello spettacolo di burattini, sempre in Les 400 coups, in cui la verità delle facce dei bambini che vi assistono è tale proprio per la loro passione nel guardare le marionette credendoci, pur sapendo tutti che quello che vedono è finto.
La restituzione della vita attraverso la finzione cinematografica è esplicita anche in Antoine Doinel, personaggio a più facce, alcune collocate fuori e altre dentro il mondo reale. E questo mi ha legato a lui con una forza sconosciuta, come se avessi potuto incontrarlo per strada e insieme ne sentissi il valore paradigmatico, proprio di ogni grande personaggio di finzione. In altri termini ho amato Truffaut-Doinel-Léaud come se fossero una sorta di mia divinità: una, trina e indivisibile.
Eppure c'era la possibilità di abbandonare Antoine Doinel là dove l'aveva lasciato il finale de Les 400 coups. In fondo sarebbe stato sufficiente a fare di quel film il capolavoro che è, a dare alla vicenda di Antoine la dimensione classica di un'educazione (fallita?) alla vita. Quanti alter ego sono stati abbandonati a quel punto, morti o semplicemente sconfitti, mentre i loro autori continuavano a vivere? Ma non è stato così. Però, se quella narrata nel suo primo film era stata forse anche l'infanzia di Truffaut, ora Antoine non poteva non affrancarsi da lui, che intanto era diventato un regista cinematografico: la vita di Doinel diventava un'altra possibilità, una delle tante strade che non si prendono nell'unicità di un'esistenza, ma che si sarebbero potute percorrere. Il rischio da cui ci siamo salvati, o, più probabilmente, il rischio che continuiamo sempre a correre.
Il cinema diventa allora una sorta di universo parallelo, che appunto riflette il reale, modificandolo a partire dalle sue diverse potenzialità, o per usare le parole di Truffaut, un luogo in cui si privilegia "il riflesso della vita alla vita stessa". In pieno Sessantotto esce Baisers volés, terzo episodio della saga Doinel (nel 1962, infatti Truffaut aveva girato Antoine et Colette, episodio del film a più mani L'amour à vingt ans) e negazione di un'idea politicamente impegnata del cinema, così come la canzone di Charles Trenet Que reste-t-il de nos amours?, un verso della quale dà il titolo al film, era uscita nel 1943 in piena guerra e parlava soltanto di un amore finito.
Ma non essere politicamente impegnati non significa sottrarsi al senso morale, come già accennavo, del fare cinema; al contrario, può voler dire misurarsi fino in fondo con il senso del vivere. Sempre con le parole di Truffaut: "Ogni atteggiamento creativo diventa un atteggiamento morale". Jean-Pierre Léaud/Antoine Doinel non è più un ragazzo difficile, le cui azioni spesso producevano effetti opposti alla sua volontà, ma la cui umanità vinceva su quella di tutti gli adulti, ottusi e distanti. Ora anche lui è cresciuto, e la sua educazione alla vita diventa educazione al cinismo, preparazione a un'integrazione con gli altri che coincide spesso con la rinuncia a essere sé stessi, a lottare per mantenere in vita la propria identità individuale. La delicatezza, la fragilità che ci facevano comunque parteggiare per Antoine, lasciano il posto a qualcosa che comincia a sembrare mediocrità, quella che era intolleranza verso un principio stupido di autorità assomiglia ormai all'irresponsabilità. Il mondo, con le sue inevitabili convenzioni, schiaccia la ricchezza degli individui, e questo concetto emerge tanto più con forza, quanto meno viene enunciato e quanto più viene semplicemente mostrato.
Nella stanza d'albergo dove vive, Antoine viene raggiunto da Fabienne Tabard, la bella moglie di un uomo che ha chiesto di essere pedinato per capire perché gli altri lo detestano. Antoine, che è l'improbabile investigatore privato incaricato di seguirlo, si è invece innamorato di lei. Disperato le ha scritto una lettera d'addio e ha abbandonato il suo incarico.
Dunque Fabienne entra nella stanza. È bellissima: ad Antoine non sembra neppure vera e glielo dice. Allora lei gli risponde che quella che è davanti a lui non è una visione, ma una donna, certo eccezionale, come le ha scritto lui, ma eccezionale perché unica, come lo è Antoine, come sono entrambi e tutti gli uomini e le donne: unici e irripetibili.
Lei gli si concederà per una sola notte d'amore e non si rivedranno mai più.
Potrebbe imparare, Antoine, da questo incontro. Ma non ci riuscirà. Lui, anzi, farà del raggiungimento di una normale mediocrità l'obiettivo della sua vita. Del distacco, dell'egoismo, del cinismo, una ragione di esistenza. Non diventerà per questo cattivo, ma freddo e senza qualità.
Dove è finito allora il suo sguardo, quello sguardo perduto e disperato che chiedeva vita e senso al mondo? Quello sguardo si è perso per sempre?
A cercarlo, nascosto dietro il cristallo della sua freddezza, lo si può ancora trovare, quando la vita riappare per il mistero meraviglioso che è.
Così, quando seduto su una panchina insieme alla ragazza che lo sposerà, Christine, viene avvicinato da un uomo che ha pedinato la ragazza per molta parte del film, noi, a differenza di quanto ci aspettavamo, non scopriremo chi sia quell'individuo, ma le sue parole rimarranno scolpite dentro lo sguardo attonito di Antoine, l'unico che forse potrebbe capirle se ricordasse sé stesso.
Perché l'uomo parla apparentemente a Christine, invitandola a rompere i "vincoli provvisori che la legano a persone provvisorie" e a scegliere lui, esattamente per il motivo opposto: "io sono definitivo". Ma non è la ragazza, che lo prende solo per un pazzo, la vera destinataria delle sue parole; chi deve ascoltarlo, così come avrebbe dovuto ascoltare Fabienne, è proprio Antoine.
Ma Antoine non conosce altro modo di adattarsi alla vita che non sia quello della costruzione della propria mediocrità. Uno stato apparentemente provvisorio che rimanda indefinitamente il momento delle scelte.
La storia di Antoine Doinel conoscerà ancora due puntate: Domicile conjugal (1970) e L'amour en fuite (1979). Quest'ultimo una sorta di dumasiano Vent'anni dopo alla Truffaut (il primo film del ciclo era infatti come abbiamo visto del 1959) che lascia in bocca il sapore agrodolce di qualcosa che è stato definitivamente chiuso, come se in una vita banale e qualsiasi non ci fosse spazio per raccontare al presente, niente di significativo ancora da dire, solo una storia a cui mettere un punto, dopo che non è restato altro spazio che quello per ricordare. Tanto che il film, pieno di flashback, è incentrato sul fatto che Doinel ha scritto un romanzo sulla sua vita passata.
Ma più che con questo film, la saga di Antoine Doinel si era conclusa sei anni prima con La nuit américaine (1973).
Ci sarà un motivo per il quale quando un autore decide di fare un film sul fare film, quel progetto, quasi sempre, si trasforma nel film della sua vita, quello che si potrebbe scegliere per rappresentarlo meglio, e anche, a volte, nel segno di una vera difficoltà creativa (penso soprattutto a 8 1/2 di Fellini, ma non solo). Nel caso di Truffaut, La nuit américaine è davvero uno dei vertici del suo cinema, qualcosa che ci fa entrare, senza pudore e difese, nel mondo del regista, che dà effetto alle sue parole, alla sua idea del cinema e della vita.
"Dunque, sono deciso a continuare lo stesso cinema che consiste sia nel raccontare una storia, sia nel fare finta di raccontare una storia, è la stessa cosa". Queste parole, pronunciate da Truffaut nel 1967, sembrano la premessa indispensabile per capire La nuit américaine. Lo so: in questo film Antoine Doinel non c'è. Ma c'è Jean-Pierre Léaud che interpreta la parte di Alphonse (stesso nome del figlio di Doinel) e c'è Truffaut nella parte di sé stesso (o quasi), cioè del regista. E il personaggio di Alphonse assomiglia molto a quello di Antoine, se non altro per l'immaturità che mostra, per l'indeterminatezza dei suoi obiettivi, per la ricerca ossessiva del consenso e dell'amore degli altri, e in particolare delle donne.
Dice nel film la sua ragazza prima di abbandonarlo: "Lui ha bisogno di una moglie, di un'amante, di una balia, di un'infermiera, di una sorellina" (praticamente le stesse parole usate in altri film dalle donne esasperate di Antoine), per concludere: "E poi se uno ha avuto un'infanzia difficile non deve mica farla pagare a tutti!".
Ma non è tanto in questi voluti rimandi ad altri personaggi, ad altre storie di Truffaut, quasi che i personaggi di tutti i suoi vecchi film si incontrassero, che consiste il legame più profondo fra La nuit américaine e il ciclo Doinel. Quanto nel senso del fare cinema, nel costruire questo mondo realistico (il set, le vite e i sentimenti di chi partecipa a vario titolo alle riprese) e insieme nel rimarcare continuamente la finzione cinematografica. Anche il regista del film nel film non fa cinema politico, si limita a raccontare la vita, nelle sue dimensioni di commedia e di tragedia, così come anche nel mondo intorno al set quello che sembra il gioco un po' grottesco dei sentimenti può, in ogni momento, trasformarsi in tragedia (la morte del protagonista).
Ma intanto si sviluppa, con la leggerezza di sempre, il gusto semplice del raccontare, dell'osservare la vita e riprodurla a modo proprio, sapendo che "i film sono più armoniosi della vita, non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti, i film vanno avanti come i treni nella notte" (ancora una battuta da La nuit américaine).
Ovvero, come dice il regista della finzione cinematografica, "tutto ben legato fino alla fine, non voglio stacchi".
Come i treni nella notte: l'immagine potrebbe nascere anche da una similitudine fisica, i finestrini illuminati come la dentellatura al margine della pellicola. Ma soprattutto è l'evocazione di un senso profondo di sogno, di quella vita diversa che potremmo scegliere salendo su quel treno che fugge dal nostro presente e scompare dentro un mondo diverso, solo immaginabile. Il cinema è la realtà che non c'è, ma che potrebbe continuamente esserci. François Truffaut è stato uno dei suoi grandi artisti-artigiani-artefici.