Testimonianze - Gary Cooper
Gary Cooper
Gli dei dell'Olimpo avevano tutti una loro precisa fisionomia che corrispondeva a un tratto umano e riconoscibile immediatamente, bastava la loro apparizione. E così Minerva era bella di una bellezza intellettuale, Venere di una bellezza sensuale, Giunone di una bellezza muliebre; e Apollo era il dio della fulgente giovinezza, Marte quello della matura virilità, Giove padre della saggezza, e così via. Quando gli dei si trasferirono a Hollywood e divennero divi, allo stesso modo nelle loro fisionomie si fissarono in forme universali ed esteticamente perfette tutti i tratti di noi miseri mortali. Anche gli dei minori erano assurti in questo olimpo hollywoodiano, e bastava una loro comparsa in un film per renderli riconoscibili e per sempre divinizzabili; e così l'inglesità ironica e di-staccata di Basil Rathbone, nel bene e nel male, oppure le occhiaie di interiore morbosa complicazione da sottosuolo dostoevskiano di Peter Lorre erano divine quanto il sorriso maliardo e le orecchie a sventola di Clark Gable o l'ambiguità perversa della seducente Marlene e il fascino iperboreo della più divina di tutte, la Garbo.
Dire che Gary Cooper, quando apparve, ci sembrò bello come un dio, è dire poco. Segretamente ogni ragazzo della mia età (parlo degli anni Trenta, gli anni della mia adolescenza) volle essere come lui, avere la stessa figura, lo stesso profilo, lo stesso sorriso di-sarmato e smagliante, la stessa attaccatura di capelli con il pizzetto sulla fronte e l'onda alta e fluente che dolcemente da lì partiva. Ma che tipo di bellezza era la sua? Non era quella degli attori che lo avevano preceduto, quella del Valentino, basetta lunga e narice fremente, non quella di Ramón Novarro, suo erede immortalato dal Ben Hur ritto sulla biga in gara con Messalla, né quella teatrale di John Barrymore in posa con il celebre profilo. E non era paragonabile neppure a quella degli attori a lui contemporanei, al macho Clark Gable gran seduttore, o all'elegante Cary Grant più a suo agio in un salotto che in uno scenario western. La bellezza patinata e tirata a lucido di Robert Taylor e Tyrone Power non poteva competere con la sua naturalezza: perché quella di Gary Cooper era una bellezza allo stesso tempo virile e ingenua, era la bellezza del puro di cuore, del sognatore ancora adolescente e come un adolescente timido con le donne, era la bellezza dell'uomo integro, dell'uomo d'onore, capace di sfidare senza arretrare qualsiasi pericolo pur di non venir meno ai suoi principi. Ma mentre James Stewart (altro divo) la sua ingenuità di bravo ragazzo la recitava e si vedeva, Gary Cooper la rappresentava senza sforzo, gli bastava apparire. Perciò uno che se ne intendeva, Charles Laughton, l'indimenticabile capitano Bligh di La tragedia del Bounty, aveva ragione a dire: "Noi ce la mettiamo tutta, lui si limita a essere". Sì, lui si limitava a essere, non recitava, ma annunciava senza saperlo l'uomo nuovo che era nell'aria e che in quegli anni lo scrittore più amato dai giovani, Ernest Hemingway, aveva reso protagonista dei suoi magistrali racconti. Questo eroe hemingwaiano era tenero di sentimenti, impavido di fronte al nemico, reduce da infinite esperienze di guerra, di caccia, di vita e di morte, ma sempre innocente, coraggioso, incorruttibile, pronto a combattere per la giusta causa.
E quando Gary Cooper e Hemingway si incontrarono nel film Per chi suona la campana (1943), vedemmo il bel Gary non solo nella parte dell'eroe di un'avventura cinematografica ma anche in quella che corrispondeva al nostro più intimo convincimento politico. Gary era dei nostri, si sacrificava per la nobile causa antifascista, e per di più aveva al suo fianco la bella Ingrid Bergman, dormiva con lei nel sacco a pelo, le carezzava la zazzeretta corta e la chiamava coniglietto… bah, diciamo la verità, chi avrebbe potuto resistergli? A Hemingway il film non piacque, troppo sentimentale, e certo aveva ragione. Ma a noi piacque moltissimo, più per quel sacco a pelo e per il coniglietto che ci dormiva dentro che per il suo messaggio politico. Tra gli adolescenti del mio tempo ognuno 'avrebbe voluto essere un altro' perché la vita era meschina e il cinema ci faceva sognare, e ognuno si sceglieva il suo modello: Gary Cooper era il preferito, alto, bello e tutto d'un pezzo. E poi quante avventure esotiche gli capitavano! Lo trovavi in India e in Cina, in Marocco e in Afghanistan, nell'Ottocento e nel Novecento e il mondo si allargava con lui, l'immaginazione volava. E come stava bene nei panni di ogni avventuriero da lui impersonato, in quelli sfolgoranti della divisa militare (I lancieri del Bengala), in quelli del cowboy (lo sceriffo di Mezzogiorno di fuoco), in quelli del pirata, del legionario della Legione straniera (Marocco), in quelli del gentiluomo e in quelli dell'uomo comune (È arrivata la felicità), in quelli dell'umile ed eroico soldato, di quel Sergente York che diventò il simbolo del valore americano e fece di Cooper l'idolo del momento. E poi le donne. Tutte le più desiderate e divine giravano intorno a lui, Marlene Dietrich, Joan Crawford, Claudette Colbert, Loretta Young, Carole Lombard, Madeleine Carrol, Barbara Stanwyck, Ingrid Bergman, Grace Kelly, Audrey Hepburn, e tante altre, tutte bellissime, e da noi giovani allora sospirate. Tra queste c'era Patricia Neal con cui Gary Cooper girò La fonte meravigliosa (1949) e di cui si innamorò fino al punto di chiedere dopo quindici anni di matrimonio il divorzio, senza tuttavia riuscire a ottenerlo. Questo amore con Patricia Neal sconvolse l'esistenza dell'ormai maturo Gary Cooper, che era candido non solo nei film ma anche nella vita, nonostante i suoi 47 anni.In Gary Cooper personaggio c'era molto del protagonista hemingwaiano, si è detto; ma c'era in lui anche un altro aspetto che lo avvicinava a uno scrittore anch'esso molto amato dai giovani della mia generazione, parlo di Francis Scott Fitzgerald autore dell'indimenticabile Il grande Gatsby. Come Gatsby anche Gary Cooper nei suoi film era il giovane di umile origine che si innamora della ricca ragazza snob e comunque inavvicinabile, e viene tenuto prima a distanza da lei e dal suo ambiente, e poi riesce ugualmente a vincere l'una e l'altro perché anche in amore la sua lealtà, il suo valore, il suo coraggio e la sua fermezza lo aiutano a prevalere. Questo succede in tanti suoi film della fine degli anni Venti e dell'inizio degli anni Trenta. Proprio mentre li girava, uno dopo l'altro, i medici consigliarono a Cooper di prendersi un periodo di riposo, e Gary se ne andò a Venezia. Lì incontrò un'altra ereditiera (era un destino il suo!), la contessa Dorothy di Frasso (nata Taylor e sposata con un nobile italiano). La contessa era una delle donne più in vista nella società cosmopolita di quegli anni e, invaghitasi del bel Gary, la prima cosa che fece fu di portarlo da un famoso sarto italiano che gli confezionò una dozzina di vestiti di ottimo taglio, poi lo introdusse nel bel mondo cui apparteneva, fece con lui un safari in Africa, e quando Gary tornò in America era trasformato. Adesso le sue giacche non erano meno belle di quelle di Cary Grant, che la Paramount stava lanciando in competizione con Cooper; ma lui non aveva nulla da temere, né per la recitazione né per il suo personaggio: quello di Grant era simpatico, ma era mondano, ammiccava spesso, insomma era un po' frivolo, da commedia. Quello di Cooper era ben altro, anche nel modo di vestire: Gary Cooper aveva la giusta sobrietà, il tocco magistrale del particolare, e l'aplomb necessario per entrare nel mondo frequentato dalla sua futura moglie, Rocky Belfe, che brillava nell'alta società hollywoodiana e che presto mise in ombra Dorothy. Ma anche nei film Gary Cooper ci apparve lontano da una certa pacchianeria degli attori hollywoodiani, con le giacche tagliate con l'accetta, spalle imbottite e vita stretta, come quelle di James Cagney, quelle di Robert Mitchum, Clark Gable, di James Stewart. Queste cose contavano ai nostri occhi di europei, e la distinzione di Cooper ci piaceva, lo faceva apparire un po' meno americano e un po' più internazionale.
Ernst Lubitsch che lo aveva diretto in Partita a quattro (1933) disse che Cooper era l'attore più fotogenico da lui conosciuto, ed era "come cera malleabile di fronte alla cinepresa"; si innamorarono di lui, e di questa sua duttilità che trovava sempre la misura giusta per ogni personaggio davanti alla macchina da presa i più grandi registi dell'epoca, da Henry Hathaway a Rouben Mamoulian, da King Vidor a Cecil B. DeMille, da Josef von Sternberg a Frank Capra; e ancora lo vollero protagonista Howard Hawks, Sam Wood, Fred Zinnemann, William Wyler, Billy Wilder, Anthony Mann, Frank Borzage, Otto Preminger, Robert Aldrich. Ognuno di questi registi a modo suo si servì di Gary Cooper (e lui di loro) e trovò sempre quella 'cera modellabile' di cui parlava Lubitsch, ognuno seppe dare una dignità al gusto hollywoodiano dell'epoca e talvolta seppe trasformare trame più adatte al melodramma o al fumettone in veri e propri capolavori. E ricordo tra i tanti film che deliziarono la nostra giovinezza È arrivata la felicità di Capra e poi Mezzogiorno di fuoco di Zinnemann, che è per me la più grande interpretazione di un Cooper maturo, ormai padrone dei propri mezzi espressivi, capace anche di sfruttare al massimo perfino le rughe e la stanchezza di un viso una volta perfetto. In questo film sembra si diano appuntamento tutti i precedenti personaggi interpretati da Gary Cooper, ne è quasi la sintesi ideale. E chi potrà mai dimenticare la famosa camminata, il modo di incedere di Gary Cooper nella parte dello sceriffo Will Cane, solo e abbandonato da tutti, anche dalla cara moglie, quando va incontro ai suoi nemici che lo aspettano con le pistole puntate. Non c'era niente di più affascinante che vederlo avanzare con quel passo appena sbilanciato, con tutta la persona ritta, il cinturone della pistola un po' largo e di traverso, gli stivali quasi struscianti sul terreno polveroso, la vibrazione impercettibile del corpo che ritmicamente accompagnava il suo procedere. E se si pensa che con tanta virile grazia quella camminata era diretta verso una quasi sicura morte, quella grazia diventava commovente e ti teneva con l'animo sospeso tra timore e ammirazione, come l'eleganza del torero di fronte al toro. Solo un altro attore, mi è parso, ha saputo imprimere alla sua camminata la stessa seduzione e la stessa grazia, e questo è stato John Travolta in La febbre del sabato sera. Ma la sua è la grazia professionale del ballerino, quella di Gary Cooper invece era naturale, gli apparteneva, e quella miracolosa combinazione motoria era la conseguenza di una lussazione dell'anca avvenuta per un incidente quarant'anni prima. Ma insomma non accade tanto spesso che uno, soltanto camminando, scriva un pezzo leggendario di cinema, e che di un film ti resti impressa, quando hai dimenticato le altre sequenze, solo quella in cui Gary Cooper va incontro ai suoi nemici. Anche John Wayne, anche Henry Fonda avevano provato nei loro western a fare qualcosa di simile, ma non pare ci siano riusciti. A volte ‒ e qui non voglio esagerare ‒ quando ci penso, mi sembra che quel passo nascondesse qualcosa di metafisico, una metafora di come dovremmo affrontare ciò che ci può da un momento all'altro annientare.
Con quel passo Gary Cooper andò incontro alla morte. Il 13 maggio 1961 non un gruppo di banditi del West lo aspettava al varco, ma un male più insidioso e terribile, di cui lui fu consapevole, e che eroicamente, come un personaggio dei suoi film, affrontò.Quando un ragazzo di oggi domanda: "Chi era Gary Cooper?", Tullio Kezich risponde: "È l'America degli anni Trenta. È un pezzo della nostra vita che se n'è andato". Così potrei rispondere anch'io.
L'America degli anni Trenta era l'America della Grande Depressione. Gary Cooper, con i suoi film, volle sollevare gli animi e dare speranza, promettere che sarebbe arrivata la felicità. E ci riuscì. In Europa c'era Hitler, c'era Stalin, erano quelli 'i cattivi', i banditi da sconfiggere; e l'America di Gary Cooper, risollevatasi dalla Depressione, ci aiutò a sconfiggerli, a illuderci ancora una volta che sarebbe arrivata la felicità.