Testimonianze - Greta Garbo
Greta Garbo
A Greta Lovisa Gustafsson, giovane orfana e povera commessa di sedici anni nei magazzini PUB di Stoccolma, la vita offrì la prima opportunità sotto forma di cappelli. Li vendeva e volle il caso che fosse scelta per indossarli in funzione di un catalogo. Sembra pochissimo, eppure proprio i cappelli, a larga tesa, a cuffia, a pagoda, a cloche, a turbante, borsalino, esotici, minimalisti, di stoffe preziose, di velluto, di raso, di visone, furono la firma del suo divismo, il tocco necessario, variabile e perfetto della sua immagine: Greta liberava i fluenti castani capelli per baciare, abbracciare, darsi, sedurre, da stupendi e spesso irreali copricapi, sia che passasse nella hall del Grand hotel, sia che si trovasse in un equivoco locale nella giungla o davanti a un'improbabile statua di Śiva.
Dalla fatale piccola occasione offerta dalla realtà, la realtà si mosse e le venne incontro: il catalogo ebbe un insperato successo, arrivarono brevi filmetti pubblicitari sempre sui cappelli e di lì una parte di contorno in un mediocre film. La scelta è fatta. Abbandonati i grandi magazzini, Greta studia per entrare all'Accademia del Regio Teatro e di nuovo il caso propone la seconda svolta, quella essenziale: l'incontro con Mauritz Stiller, regista di fama in Svezia e in Europa, che fissò subito le leggi per realizzare in una giovane sconosciuta il volto del secolo. Il banale cognome Gustafsson diventa Garbo e nessuno verrà mai a sapere come è nato. Siamo nel 1923, la nuova attrice non ha ancora diciotto anni.
Per Stiller creare questa immagine rappresentò una scommessa faustiana. L'apparizione di Greta nel cinema dell'epoca, Stiller ne è certo, sarà sconvolgente e duratura. È un artista che scommette su un delirio di onnipotenza: trasformare la creta, la materia inerte, in una bellezza senza tempo e senza sesso, femminile e maschile insieme; come disse Roland Barthes, dare vita alla "idea platonica della bellezza". Non esaltò gli attributi del sesso e della femminilità, al contrario li diminuì, giocò sul corpo asciutto di Greta, sull'altezza spropositata per un'attrice dell'epoca, sulla mancanza di vera giovinezza a diciotto anni, per farla emergere da qualsiasi confronto. Dimostrò che alla perfezione dell'androgino, come gli antichi greci, i contemporanei si sarebbero inchinati senza capire le ragioni nascoste di una tale confusa attrazione. Uomo donna, vestale ed erotomane, seduttrice e padrona dei maschi sedotti, dannata per amore, sola, destinata a folli passioni senza quotidianità. Persino quando appare in Ninotchka con un rigido abito a giacca da funzionaria stalinista, uscito però dalle mani degli abili sarti di Hollywood, ci godiamo l'esibizione e attendiamo che la greve immagine e il maschile travestimento si capovolgano nell'essenza della seduzione femminile, complice l'improvvisa eleganza della moda e un ulteriore pazzesco cappellino. Proprio con Ninotchka del 1939, penultimo film, Greta ci lascia una indimenticabile immagine e dal 1941 esce dal palcoscenico e piomba per la prima volta nella vita. Ci rimane, ospite enigmatica, fino alla morte. Per sempre Garbo, verrebbe da dire, specialmente dai trentasei anni in avanti, fuori dalla scena, prigioniera di una malattia senza tempo, quella del proprio mistero ormai inutile.
La scommessa di Stiller rasentava il delirio se pensiamo alle fidanzatine d'America degli anni Venti, Lillian e Dorothy Gish o Mary Pickford, eppure dopo i primi film Stiller poteva essere già sicuro del risultato. Non contava per lui che fosse stato Georg Wilhelm Pabst in un capolavoro del 1925, La via senza gioia, a esaltare le doti di Greta, mentre egli stesso aveva conosciuto quasi un insuccesso l'anno precedente, dirigendola nel film La leggenda di Gösta Berling. Perché Stiller sapeva bene che ogni notte, per quanto durarono le riprese di Pabst, era stato lui il regista occulto e solo dopo aver studiato la parte, l'impostazione delle battute, seguito le sue raccomandazioni, Greta si presentava sul set la mattina dopo padrona di qualsiasi punto delle scene da girare, pronta a cavarne una modernissima interpretazione e presenza. Pare che Pabst si stupisse di tanta professionalità e avanzasse richieste per altri film, altri contratti. Greta, dice la leggenda, sarebbe stata pronta a lasciare il maestro come qualsiasi ingrata ma Stiller, accortosi dell'inganno in tempo utile, l'aveva costretta a rifiutare e chiedergli perdono. Già diva dunque anche nel privilegiare la carriera sui sentimenti, i buoni contratti sulla fedeltà, già oltre la giovane attrice devota che Stiller credeva di possedere.
Da quel momento Greta rimarrà fedele al maestro, tenteranno la fortuna oltre oceano, subiranno insieme l'indifferenza di Hollywood. Alti e bassi, povertà, fatica, umiliazioni: in pochi anni lei diventerà la diva che Stiller aveva sognato, lui si avvierà verso il declino fino a ritornare in Svezia e là morire. Ma la 'divina' era stata plasmata e in futuro avrebbe ubbidito alle regole imposte dal suo creatore: mai interviste, mai promiscuità sul set e fuori; ogni ora, ogni giorno segretezza, mistero e solitudine. Quando recita la Garbo nessuno è ammesso, nessuno deve osservarla, tutti coloro che vi lavorano, se entra lei, vengono allontanati a eccezione dell'operatore e del regista.
La fanciulla di diciotto anni, sconosciuta e apparentemente timida, aveva cominciato esattamente così ed era pronta a restare identica a sé stessa. È stupefacente, pensiamo oggi, che nasca e resista una 'immagine' nata contro qualsiasi tipo di bellezza femminile del tempo. I parametri estetici e sociologici vengono sconvolti ed è quasi pazzia supporre un successo.
Osserviamola muoversi in La via senza gioia. Il film risponde al disegno di un grande regista ma la fanciulla taglia fuori, per naturalezza sconcertante, le altre attrici presenti e in un girare degli occhi, in un reclinare appena accennato del volto immobile, ci convince subito di un'espressività che niente ha a che vedere con un'epoca di forte calco recitativo; un calco che viene ribaltato e, nel confronto, annienta le altre attrici del film. Lei dimostra che tutto quello che c'è da esprimere si può disegnare con impercettibili tratti, con una ferma espressione di occhi protagonisti, attraverso la loro naturale intensità, del viso e del corpo. La povertà dignitosa, la fame, la purezza sono stampate davanti a noi, e quando la mezzana convince la ragazza a provare una pelliccia, la tentazione del lusso si rivela e appare con uguale efficacia una femminilità provocatoria guidata dall'innocenza, un'ineccepibile eleganza, un portamento da grande dama o da grande modella. Siamo nel 1925 eppure l'immagine che ci consegna Pabst, inventata da Stiller, solo con brevi appannature, ci seguirà fino al 1941: per diciotto anni, ventotto film.
Il sublime, per definizione, non trova barriere nella realtà perché le supera d'un balzo e così supera il ridicolo o l'assurdo. Il sublime si sposa con il sogno e diventa mito. Ma la vita non ha niente a che fare con il sublime che è il regno del non-essere. Eppure se la vita, come abbiamo visto, non si incaricasse di fornire delle coincidenze, nessun miracolo potrebbe darsi. Inoltre non ci furono solo i cappelli, Stiller, Pabst, ci fu anche lei e la sua fredda determinazione, una scura, concentrata ossessività su ciò che voleva essere e rappresentare; uno scrupolo accanito che diventava gelida esigenza. Date queste premesse, cadere nel cerchio del suo fascino poteva essere mortale come lo fu per John Gilbert, attore ricchissimo e famoso, che dal set di La carne e il diavolo, diventò suo compagno per tre anni e fu distrutto dal desiderio ossessivo di sposarla e dall'avvento del sonoro, mentre Greta riusciva con accortezza a superare quella voragine che inghiottì fortune, personalità, capitali, e lasciò, tra gli attori, suicidi e alcolisti. Il declino e la rovina di John Gilbert è quasi un itinerario. Quando recita il primo film con Greta nel 1927, La carne e il diavolo, nei titoli campeggia in primo piano il suo nome e sotto, a distanza, il nome di Greta Garbo abbinato a quello di Lars Hanson. Dopo sei anni, nel 1933, Greta avrebbe dovuto spendere molte parole per imporlo come partner in La regina Cristina e solo il suo potere convinse la Metro Goldwin Mayer e il regista Rouben Mamoulian.
Prima dell'avvento del parlato, dal 1926 al 1930, dieci film avevano assicurato alla Garbo un successo crescente, avevano portato davanti al pubblico statunitense la sua rivoluzionaria figura fisica, la sua alta recitazione che tuttavia non si capiva bene di che cosa fosse fatta. Il suo carisma, insomma, l'aveva portata a superare qualsiasi incongruenza di trama e aveva permesso in seguito di modificare la tipologia femminile dello star system e ad attrici come Katharine Hepburn o Marlene Dietrich imporre negli anni Trenta un personale e singolare marchio fisico che non incarnava mode correnti. Negli anni Venti però niente di questo accadeva. La pastosa, luminosa, volgare e indimenticabile Marlene, la Lola Lola di L'angelo azzurro di Josef von Sternberg del 1930, non poteva varcare l'oceano se non dimenticando sé stessa, cosa che fece per ottenere poi ciò che è stata. Simbolo anch'essa, eppure non imprevedibile come il fenomeno Garbo e certo meno misterioso.
I pilastri interpretativi sui quali si appoggiava la personalità della Garbo erano pochi ed essenziali: la donna distruttiva, di fronte alla quale il maschio, come un insetto nella tela del ragno, non può che abbandonarsi; la donna che ama al di là di qualsiasi ostacolo, fino a passare attraverso abiezione, povertà, rinuncia fino alla morte; la solitudine senza speranza colmata da un amore improvviso ed eterno. Le sue donne lottano contro il destino che a volte le premia, a volte le redime, a volte le uccide. Sono donne che non ammettono passività, famiglia, devozione, solo scelte ciniche o passioni. Il personaggio della Garbo è trasgressivo persino nelle scene d'amore, quando riversa all'indietro i partner e si produce su di essi in un bacio fatale. Un cambio di ruoli che si ripete, nel bacio, quasi in ogni film, che vede un erotismo maschile annichilito, femminilizzato nella passività, senza memoria e coscienza. Ancora il mito: Circe, dunque, unita a un'ostinata Penelope capace di qualsiasi attesa, condannata alla felicità estrema dell'unione o alla morte.
Il feuilleton cinematografico da molti anni era il fulcro della produzione, le lacrime si sprecavano a secchi, le signore accorrevano. Adesso chi le guidava verso i singhiozzi richiedeva di accettare una nuova ambiguità, letto facile e sesso quasi immediato, immoralità e non solo incongruenze di trama, di tempo e di personaggi. La tentatrice (1926), La carne e il diavolo (1927), Anna Karenina (1927), il primo film tratto dal romanzo con lieto fine, La donna divina e La donna misteriosa (ambedue del 1928), Destino (1928) e potremmo continuare con Orchidea selvaggia del 1929, per segnalare uno dei tanti tratti esotici. Qui addirittura troviamo l'amore per un principe giavanese, la caccia grossa, come si può intuire, densa di drammi.
Donne misteriose, cortigiane, spie, equivoci, enigmi. Il peccato e un mondo nel quale perdersi e ritrovarsi con il bisogno di espiare. In quanto a contenuti avremmo solo l'imbarazzo della scelta nell'elencare gli sforzi degli sceneggiatori e dei registi per adeguarsi al caso Greta e cucirgli addosso il prodotto. Puntualmente, infatti, i critici parlavano di mediocre o pessimo polpettone eppure, tutte le volte, riconoscevano la straordinaria interpretazione della Garbo. In seguito i facitori dello star system non si rivelarono certo degli sprovveduti. Un film dopo l'altro, affinavano la tecnica di 'come' Greta si sarebbe presentata e 'come' doveva avvenire un'agnizione ripetitiva eppure imprevedibile per gli officianti.
Il teatro ha dato molto al cinema quando si è trattato di calibrare ingressi, pause, situazioni per attirare non più gli applausi ma l'identificazione immediata. Nel periodo del muto non ci fu una particolare cura del 'come' Greta entrava in scena, anche perché lo star system, come lo intendiamo oggi, doveva nascere: era lei che, presentandosi, agiva immediatamente e creava un rapporto privilegiato sempre in bilico tra il sublime e il ridicolo. Tutto veniva accettato dal pubblico e recitato dall'attrice nello stesso modo: spia russa, inglese aristocratica, cinica e ricca contessa, fanciulla pura e povera, prostituta a Parigi, prostituta a New York e così via. Le vecchie imposizioni di Stiller si erano rivelate preziose e sempre valide: muovere pochissimo il viso e specie la bocca se non per aprirla in un sorriso prensile, in una risata gorgogliante che scoprisse i denti bellissimi e il collo gettato all'indietro. Affidarsi solo agli occhi ma lavorando l'espressione dall'interno, in modo quasi impercettibile. In conclusione, astenersi sempre da una recitazione naturalistica. Così l'attrice Garbo senza mai proporsi come specifica interprete di un personaggio ma filtro invece di sentimenti eterni, sempre validi, diventò mito e dal 1930, appena si capì che la sua voce sarebbe stata vincente per il nuovo corso, ci pensò il sistema hollywoodiano a confermare il trionfo e non ci fu regista che non si preoccupò di 'come' Greta venisse presentata. Solo una volta, in Margherita Gauthier (1937), appare subito in un piano frontale, mentre stringe al cuore e avvicina al volto un mazzo di camelie, e più emblematico di così l'ingresso non poteva darsi. Di solito il pubblico doveva aspettare, ci volevano fatti o gente che parlasse di lei e infine, pronta la vittima maschio a rimanere sedotta, la divina, desiderata e sognata, entrava in scena.
Ogni regista scelse, con gli sceneggiatori, un ingresso diverso dalle quinte delle prime sequenze, che considerava il migliore accordo in maggiore dopo i preliminari. Robert Z. Leonard in La cortigiana (1931) la fece apparire dal nulla creando un passaggio di tempo attraverso ombre in chiaroscuro di una bambina, di una dodicenne, di un'adolescente e di una donna, sempre di profilo, fino ad arrivare a lei in carne e ossa, frontale. George Fitzmaurice in Mata Hari (1931) e Edmund Goulding in Grand hotel (1932) preferirono preparare l'evento lasciando che intorno accadessero cose in sua funzione o gli altri attori parlassero di lei che non si mostrava. Quasi un'attesa collettiva che accomunava pubblico, comprimari e comparse.
Il periodo fertile e felice dei film parlati comincia nel 1932 e va fino al 1937: appaiono le figure storiche o mitiche, che rispondono a simboli dell'immaginario collettivo. Mata Hari, la regina Cristina, Anna Karenina, Margherita Gauthier, Maria Walewska: sono loro che consolidano l'apoteosi della Garbo. La serie delle avventuriere, delle spie, delle ricche spietate o delle povere ingiustamente vilipese, avrebbe mostrato la corda presto se non ci fosse stato questo colpo d'ala che invece ci fu. Un'intuizione formidabile.
È difficile oggi scegliere i registi più bravi perché, in questo caso, il più bravo era il più attento e capace nell'alzare la figura della protagonista al di là della contingenza cinematografica. Un posto di riguardo spetta a Rouben Mamoulian per il suo La regina Cristina, ma come non ricordare che proprio in questo film entra sulla scena privata di Greta, e diventa quasi indispensabile, la sceneggiatrice Salka Viertel che ha scritto un racconto, insieme a Margaret E. Levine, dal quale sarà tratto il film. È più di un sospetto che sia lei a inventare e guidare il personaggio, mai sentito così nel profondo dall'attrice, che raggiunge nell'interpretazione il più nascosto inconscio femminile, il sogno di vincere il proprio sesso con la libertà e il potere del maschio ma vivere la passionalità e la sessualità di una donna. Ancora oggi La regina Cristina resta la dimostrazione di un archetipo. L'androgino, immaginato da Stiller, ha preso panni storici e infine si è rivelato completamente. Né prima né dopo un'attrice ha raggiunto una tale complessa rappresentazione di donna. Da questo momento in poi Salka è spesso presente nelle sceneggiature; tra le altre, di Anna Karenina (1935), di Maria Walewska (1937).
Uno per uno i ritratti animati della Garbo vengono costruiti e aggiunti alla fama. Il suo viso, un poco scomposto in modo preoccupante con smorfiette e bronci in Grand hotel, aveva riacquistato la sua prensile immobilità, la sua fermezza senza tempo. Per fortuna, perché in quel film la sua interpretazione di grande ballerina al declino, più che un pezzo di autoironia, come si volle far credere osannandola, mostrava una strana convergenza: la Garbo aveva appena ventisei anni e pareva una donna di trentacinque, davvero in declino. La sua interpretazione era stata sopra le righe, cosa mai successa, e sembravano baluginare qua e là i difetti mai avuti dell'espressionismo divistico del muto. Ma con i film storici e anche con Ninotchka tutto passò. Crollò invece Non tradirmi con me del 1941, ancora diretto da George Cukor, ancora con Salka Viertel alla sceneggiatura, ancora con uno sdoppiamento tra donna maschile e donna affascinante e sofisticata. Eppure quella sintesi immagata che aveva permesso l'interpretazione di La regina Cristina non funzionò e arrivò l'insuccesso. Il primo. Bastò perché Greta rinunciasse per sempre al cinema.
Si ritirò nel suo bell'appartamento a Manhattan, scelse il suo ultimo travestimento: cappello a larghe tese, grandi occhiali neri, scarpe da uomo, pantaloni comodi, lungo cappotto nero, e rimase per tutta la vita schiava di ciò che aveva rappresentato: un'immagine senza tempo; in realtà nascondendo definitivamente sé stessa. Oppure, supponiamo, recuperò e accettò la ragazza adolescente, costretta a lasciare la scuola, che aveva fatto interminabili code perché accettassero il padre all'ospedale. Quella ragazza senza cultura, insicura di sé non si era mai dimenticata, lei stessa pare dicesse, della morte straziante del padre amato, che forse le aveva tolto, per troppa dedizione, la possibilità di amare un altro uomo. O forse, nel rifiutarsi ai ritmi del tempo, a una maturità e a una vecchiaia come tutti gli esseri umani sono costretti a vivere, Greta rivelava che non si era mai amata come persona e questo era stato il vero segreto di tutto.