Testimonianze - Il mito di Cinecitta
Il mito di Cinecittà
Cinecittà non era ancora stata inaugurata, il 28 aprile 1937, che già questo nome, felicemente impostosi sugli altri in ballottaggio (Città del Cinema, Cinelandia), era passato a indicare più che un luogo fisico o un complesso di stabilimenti l'ideale capitale o addirittura il cuore del cinema italiano. Nel nostro panorama storico Cinecittà è lungi dall'essere l'unico stabilimento adibito alla produzione di film, ma è quello che nell'immaginario collettivo ha riassunto l'intera mappa (romana e no) della settima arte. Perciò nell'uso giornalistico e nel parlare comune si mettono spesso in relazione con Cinecittà artisti e personalità che magari vi hanno operato saltuariamente. Fiorito da solo, il mito ha avuto in Federico Fellini il suo celebrante più accreditato. Nel libro Fare un film (1980) il regista racconta la sua prima andata a Cinecittà quando "lassù, a più di mille metri, su una poltrona Frau saldamente avvitata alla piattaforma della gru, con i gambali di cuoio scintillanti, un foulard al collo di seta indiana, un elmo in testa e tre megafoni, quattro microfoni e una ventina di fischietti appesi al collo c'era un uomo: era lui, era il regista, era Blasetti" (p. 44). Più volte ripreso con variazioni (a volte Fellini asseriva di essere andato a Cinecittà per bidonare il divo Osvaldo Valenti proponendogli l'acquisto di un brillante falso), il racconto verrà poi sceneggiato nel film Intervista (1987) che è un vero e proprio omaggio alla città del cinema dal passato al presente. Fellini è venuto sempre accentuando un rapporto viscerale con gli stabilimenti di via Tuscolana, dove nel corso di oltre trent'anni si è impegnato in puntigliose e affascinanti ricostruzioni. Per nominarne solo alcune: il marciapiede di via Veneto con le macchine in transito davanti ai tavolini del Café de Paris per La dolce vita (1960); il panorama fantarcheologico di Fellini Satyricon (1969), per il quale film il regista si sistemò in un appartamento dentro Cinecittà facendo casa e bottega; il raccordo anulare di Roma (1972); un intero quartiere di Rimini e il profilo della motonave Rex per Amarcord (1973); la Venezia settecentesca per Il Casanova di Federico Fellini (1976); il transatlantico di E la nave va (1983); il megastudio televisivo di Ginger e Fred (1986). Si arriva così al triste novembre 1993 quando nel Teatro 5 fu allestita la camera ardente del maestro, con due carabinieri in alta tenuta che montavano la guardia al feretro e l'immenso telone con il cielo azzurro come sfondo, meta dell'affettuoso pellegrinaggio di una folla calcolata in oltre ventimila persone.
Tuttavia Fellini, pur essendone l'indiscusso genius loci, non è certo il primo né il solo fondatore della leggenda di Cinecittà. Alla sua crescita hanno contribuito Alessandro Blasetti, con le imponenti scenografie dei suoi film, e tanti altri registi internazionali: da René Clair a Jean Renoir, da Mervyn LeRoy a King Vidor, da William Wyler a Joseph L. Mankiewicz. Dopo la chiusura fra guerra e dopoguerra, quando fu ridotta a un campo profughi, negli anni Cinquanta Cinecittà diventa il sontuoso palcoscenico della Hollywood sul Tevere con relativa passerella dei grandi divi hollywoodiani. Si comincia con la produzione americana di Quo vadis? (1951) per continuare con la Mosca di Guerra e pace (1955), il Circo Massimo per la corsa delle bighe di Ben Hur (1959), le ciclopiche costruzioni di Cleopatra (1963). Sulla svolta del 20° sec., Dino De Laurentiis vi ha simulato la navigazione dei sottomarini di U-571 (2000); Ettore Scola vi ha fatto ricostruire un'intera strada della Roma 1938, inclusa la linea del tram, per Concorrenza sleale (2001). Tali iniziative hanno rinverdito gli splendori della città del cinema dopo anni dominati dai timori che Cinecittà finisse per ospitare solo show televisivi o venisse inghiottita dalla speculazione edilizia. Nel corso di quel periodo oscuro Marcello Mastroianni amava raccontare un suo angoscioso sogno ricorrente in cui, arrivato ai cancelli di Cinecittà, vi doveva penetrare carponi perché tutto lo stabilimento si era misteriosamente rimpicciolito ed era occupato dai lillipuziani. Un sogno alla Gulliver di non difficile interpretazione. Nei viali della città del cinema si situano eventi rimasti memorabili. Qui è ambientata la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 in una pagina memorialistica di Elsa de' Giorgi, nel romanzo I coetanei (1955), che merita un'ampia citazione: "A Cinecittà c'era un gran fermento, quel giorno. Tutti i teatri erano in attività: si giravano contemporaneamente sette film [...] Un ritmo intensissimo, mai visto [...] Insomma, si lavorava a Cinecittà [...] e nessuno si aspettava ciò che avvenne. Ero al trucco quando cominciai a sentire che ci sarebbe stato il discorso di Mussolini a piazza Venezia, e che gli operai dovevano andarci [...] Per i viali di Cinecittà c'era animazione: macchine e camion carichi di materiale transitavano da un teatro all'altro: in fondo al numero 6 si stava edificando un'enorme costruzione esterna per un film di Blasetti [La corona di ferro]. Mi imbattei proprio in lui, indaffaratissimo, chiuso nel suo maglione e nei suoi eterni stivali [...] e mi raggiunse per domandarmi se andavo ad ascoltare il discorso del duce [...] Insieme ci confondemmo alla folla fitta e bisbigliante che si era formata proprio davanti al ristorante di seconda. "Seconda" sottintendeva categoria, ed era cioè il ristorante dove mangiavano le maestranze e i tecnici [...] Mi guardai intorno per vedere chi c'era: quasi tutti gli attori truccati con le vesti di scena; circondato da armigeri Osvaldo [Valenti], nel suo costume nero da Cesare Borgia [per La maschera di Cesare Borgia, il film che anche Elsa stava interpretando nel ruolo di Dianora], Assia [Noris, protagonista di Una romantica avventura] fra i pizzi del suo personaggio romantico, Maria [Denis] coi ricci e i nastri di Dorina in Addio giovinezza!, Alida [Valli] nell'abito procace di Manon, la piccola bella testa eretta, e moltissimi attori, illustri o meno, circondati da comparse nei costumi più svariati: perfino indiani, danzatrici, odalische seminude sotto i calzoni di velo. Tutti parlavano spensierati, come fossero stati lì per una pausa normale del loro effimero e duro lavoro. A un tratto vidi spegnersi il sorriso che Camerini stava facendomi da lontano, e mi trovai immersa in un improvviso silenzio: la radio aveva cominciato a trasmettere la voce di Mussolini. Dapprima nessuno capì. Quella voce parlò brevemente ed era così secca e perentoria che nessuno, quando tacque, poté credere che avesse finito di parlare [...] Nessuno parlò, nessuno si mosse per alcuni eterni minuti [...] Sulla faccia di Camerini, laggiù, investita dal sole, traspariva una desolazione stupita. Blasetti aveva gli occhi sbarrati come un ragazzo maltrattato. Valenti si mordeva il labbro superiore e il viso era duro, cattivo [...]". Nella mitografia di Cinecittà, accanto agli eventi storici come quello evocato dalla de' Giorgi, c'è posto per un'infinità di vignette d'epoca di sapore aneddotico. Qui sul set di Il feroce Saladino (1937), il primo film girato nello stabilimento, il giovane Alberto Sordi tentò di conquistare la giovanissima Alida Valli avvolto nella pelle di un leone imbalsamato. Qui il diciassettenne allievo del Centro Sperimentale Agostino De Laurentiis (non ancora Dino) osò fermare il produttore Peppino Amato per chiedergli lavoro e il suo ardire fu premiato con un piccolo ruolo in Batticuore (1939). Qui la sedicenne Sofia Scicolone, non ancora Sophia Loren, si mise in fila accanto alla madre Romilda per fare la comparsa in Quo vadis?, fu notata e diventò presto una delle figuranti più richieste.
Non di rado il cinema italiano ha rispecchiato la città del cinema ambientandovi taluni episodi di film. Uno dei più significativi è Bellissima (1951) di Luchino Visconti, su soggetto di Cesare Zavattini, dove una madre frustrata, Anna Magnani, vorrebbe riscattarsi attraverso la figlioletta spingendola a partecipare al concorso per 'La più bella bambina di Roma'. Il premio è una parte da protagonista in un film di Blasetti, che impersona spiritosamente sé stesso accompagnato dal tema musicale di Dulcamara in L'elisir d'amore. Visconti racconta servitù e grandezze del cinema, ritagliandone alcune tipologie caratteristiche: vedi il fatuo factotum impiccione interpretato da Walter Chiari, vedi (presa dalla vita) la saggia Liliana Mancini che, dopo aver interpretato il personaggio di Iris in Sotto il sole di Roma (1948) di Renato Castellani, si è adattata a guadagnarsi il pane nel reparto montaggio, consapevole che "Ne so' venuti fuori tanti de disgraziati co' 'sta illusione del cinema!". Una Cinecittà grigia e disadorna è la cornice della vicenda di La signora senza camelie (1953) di Michelangelo Antonioni, ritratto amaro di una diva all'italiana incarnata da Lucia Bosè. Al famoso 'tranvetto' che in 34 minuti portava dalla Stazione Termini a Cinecittà è dedicato Il viale della speranza (1953) di Dino Risi, storia delle ambizioni e degli amori di tre giovani aspiranti attrici, così presentato in un ritaglio giornalistico dell'epoca: "Il viale della speranza è quello che conduce a Cinecittà: assieme ai passeggeri, i tram bianco-azzurri dei Castelli depositano ogni mattina dinanzi al magico Tempio dell'Illusione tutto un invisibile carico di speranze, di incertezze, di delusioni, di sogni, di amarezze, di stanchezza. Sono artisti vecchi e nuovi, aspiranti che bussano alla Mecca del cinema con trepido timore e spavalda baldanza, vinti ai quali non arride più la speranza, comparse che continuano a sperare nella parte che le metterà in vista: un mondo vivo, alle prese col problema del pane quotidiano forse più che con quello della gloria sognata...". Tornando a Intervista, nel film di Fellini il percorso del 'tranvetto' diventa la poetica fantacronaca di un viaggio immaginario che vede sfilare al di là dei finestrini paesaggi incongrui con la celebrazione della Festa dell'uva, la cascata delle Marmore, gli indiani annidati fra le rocce e un fiume dove fanno il bagno gli elefanti.Più vicina alla realtà, nel film Una vita difficile (1961) di Dino Risi, l'incursione a Cinecittà di un disperatissimo Alberto Sordi che nel tentativo di vendere il suo romanzo al cinema abborda nell'ordine Silvana Mangano, Vittorio Gassman e l'inevitabile Blasetti, che naturalmente sta girando e si libera dell'importuno con l'abituale autorevolezza.