Testimonianze - James Dean
James Dean
Non sempre si nasce belli. Qualche volta lo si diventa. È successo a James Byron Dean, nato l'8 febbraio del 1931 a Marion, Indiana Midwest, che, nelle foto dei suoi sedici anni, ci appare con occhiali spessi e fisico tozzo, mentre tenta con il baseball, il football e la pallacanestro una difficile affermazione di sé. James Dean diventa bello e impossibile grazie al cinema. E soprattutto grazie a un film, Gioventù bruciata ‒ il titolo originale, mai così bello e azzeccato, è Rebel without a cause ‒, che lo consacrerà nel mondo intero. Via gli occhiali, sullo schermo lo sguardo miope diventa irresistibile e il fisico tirato e teso nello sforzo di definire espressivamente l'atteggiamento di uno a cui non importa niente di quello che gli succede intorno. Ed ecco che nasce un mito. Il mito della bellezza e della ribellione. La forza, l'arte, il genio, e quindi la bellezza di James Dean sono in quell'atteggiamento, definito in maniera esatta dallo sguardo obliquo che sapientemente esibiva in ogni occasione: esistere senza spiegazioni e soprattutto senza essere compreso, restare un mistero, il magnifico mistero che tutti noi vorremmo essere per gli altri.
James Dean morì il 30 settembre del 1955 alla guida della potente Porsche 55 Spyder acquistata per partecipare alla corsa automobilistica di Salinas. Aveva appena ultimato le riprese del suo terzo ‒ e ultimo ‒ film, Il gigante, diretto da George Stevens. "Quando corro è l'unico momento in cui mi sento me stesso", aveva detto Jimmy, come tutti lo chiamavano, poco prima di vincere la sua prima corsa automobilistica nella categoria dilettanti e classificarsi, il giorno successivo, terzo tra i professionisti, mentre era anche impegnato nelle riprese di Gioventù bruciata. Al centro di quest'ultimo film c'è la famosa sfida tra lui e il capo della banda dei teppisti in cui devono guidare un'automobile ad altissima velocità e catapultarsi fuori all'ultimo momento evitando di precipitare in un burrone. James Dean faceva dell'immedesimazione con i personaggi una religione, ma la sua capacità non era solo quella di assomigliare a chi interpretava ma di riuscire a confondersi con loro diventandone parte. E la velocità era anche uno dei caratteri che contraddistingueva chi voleva affermare la propria modernità: tutto era cominciato all'inizio del Novecento, con i futuristi che, dopo averne esaltato l'inebriante valore, avevano bruscamente rallentato la corsa per arenarsi nelle secche delle società autoritarie.Invece Jimmy andò fino in fondo. Voleva essere moderno, veloce e rivoluzionario. E questa è l'immagine che è riuscito a lasciare di sé.James Dean aveva cominciato la sua carriera con un grande film d'autore, La valle dell'Eden, tratto dal romanzo di J. Steinbeck e diretto dall'allora ribelle Elia Kazan, inventore, insieme a Lee Strasberg, del famoso 'metodo' di recitazione. È quindi uomo da Actors Studio e grande direttore di attori, che fino a quel momento aveva già diretto alcuni film importanti con un altro attore mito, Marlon Brando. Proprio con Brando aveva realizzato Un tram che si chiama desiderio (1951), Viva Zapata! (1952) e Fronte del porto (1954).
"Provammo a fare un po' di conversazione, ma non era proprio il suo forte; così restammo a fissarci negli occhi. Alla fine mi chiese se volevo fare un giro sulla sua moto, ma a me non piaceva correre, e lui comunque stava facendo scena: interpretava la parte del ragazzo di campagna che non ha paura del traffico della grande metropoli. Quando tornai in ufficio chiamai Paul e gli dissi che quel ragazzo era Carl Trask". Kazan racconta così il momento in cui decise che sarebbe stato Dean il protagonista del suo film battendo Marlon Brando che, insieme a Montgomery Clift, era l'attore che per quel ragazzo goffo e scorbutico rappresentava il punto di riferimento obbligato. Lo confessò lui stesso a Dennis Hopper, uno dei teppistelli di Gioventù bruciata. Gli disse che da una parte desiderava essere il rude Brando che dice "va' all'inferno!" e dall'altra il tormentato Clift mentre risponde "perdonami, ti prego".L'8 marzo 1954 Elia Kazan passò al numero 9 della 68th Street a Central Park, per prendere il giovane attore che aveva scelto come protagonista del suo film e si imbarcò con lui per Hollywood. James Dean aveva allora ventitré anni e nel giro di un anno sarebbe diventato una delle più grandi stelle del cinema americano.
Tra le tante doti di quel ragazzo spiccava quella dell'antipatia, nel suo caso esaltata anche dall'impertinenza di chi rischia tutto. Era capriccioso e provocatore, oltre che un perfezionista. Ancora Kazan racconta di lui: "La gente diceva che Jimmy era come Brando. Non è affatto vero, non gli assomigliava per niente. Era meno duttile di lui. Era soltanto una persona profondamente vulnerabile; e tutto quello che avrebbero voluto fare ragazze ragazzi e tutti quelli che lo conoscevano era abbracciarlo stretto e proteggerlo".Infatti, così era James Dean nei suoi film: fragile e vulnerabile. Ed è esattamente quello che vorremmo essere tutti noi: vulnerabili per poter essere abbracciati e protetti. Ma non ne siamo capaci, o non ne abbiamo il coraggio. Lui era lì a farlo al posto nostro, in continuazione e in maniera provocatoria, a volte quasi con arroganza, addirittura senza paura di urlarlo. Come fa in Gioventù bruciata quando grida al padre, "Devo sapere chi sono, devo sapere a chi somiglio!". Fin dalla sequenza d'apertura di La valle dell'Eden Jimmy è in continua tensione nevrotica, in preda a sé stesso e alla sua incoerenza, prigioniero dei suoi capricci. Per tutto il film recita la parte del ragazzino inafferrabile nei comportamenti e incontrollabile nelle decisioni, facendo appello ai sentimenti materni di ogni donna mentre il padre dice sconsolato "Non riesco proprio a capire questo ragazzo", il fratello Aron lo definisce un pazzo, e tutte le donne ne sono turbate e attratte. "Fa spavento, ti guarda come una specie di animale", dice Avra, la fidanzata di Aron che quando incrocia lo sguardo di quel cattivo ragazzo sa di essere stata irrimediabilmente soggiogata da lui. Jimmy si serve però del suo potere di seduzione soprattutto per conquistare l'affetto e la stima del padre, che è però l'unica persona che non può amarlo. La sfida, come succederà anche negli altri film, sta proprio nella ricerca di un rapporto che inevitabilmente porterà allo scontro. "Parlami, parlami": Jimmy supplica il padre con una frase che avrebbe potuto tranquillamente rivolgere al suo vero padre o alla madre, e che anticipa la scena di Gioventù bruciata in cui, in un ostello della gioventù, grida: "Devo sapere chi sono, devo sapere a chi assomiglio". Anche quell'espressione potrebbe appartenere al vero Dean che in un'intervista, parlando della morte della madre, dirà: "Avevo nove anni: cosa credeva potessi fare dopo? ... e da solo?". La presenza fisica di Jimmy in La valle dell'Eden è travolgente. Non sta fermo nemmeno un secondo. "Mi accorsi subito che aveva una grande presenza fisica", conferma Kazan: "era molto espressivo in tutti i suoi movimenti. C'era sempre una grande intensità, una grande tensione in ogni suo gesto". Nel film Dean corre, urla, fa a botte, cammina in bilico su una corda, scende al volo da un otto volante. Quando parla, lo fa in maniera nevrotica, non riesce a superare la famosa barriera della comunicazione con gli altri personaggi. "Io non ho niente da spiegare a nessuno!", grida a un certo punto. È il sigillo sia del suo personaggio sia della sua persona: è il mistero che, rivendicato e assunto protervamente, sbattuto in faccia allo spettatore e alla vita, diventa programma e trasforma sullo schermo in gigante uno che era nato piccolo e aggomitolato in sé stesso. Oltre a farci immediatamente stare dalla sua parte e con lui nella rivolta, dal punto di vista strettamente cinematografico ci immedesimiamo in lui. Immedesimarsi vuol dire che lo spettatore a un certo punto diventa finalmente protagonista del film, non lo subisce più e si sente parte del tutto, solidale con il personaggio che, da quel momento, vive non solo davanti ai suoi occhi ma anche nella sua mente e nel suo cuore. Per un attimo, in preda a una leggera euforia, gli sembra di aver capito tutto di sé e degli altri e di trovarsi in sintonia con l'universo intero. Poi, quando in sala le luci si riaccendono, tutto scompare e lo spettatore realizza che non riuscirà mai più a esprimere quello che ha dentro e continuerà ad affrontare la vita con le stesse incertezze, i dubbi e la stessa disperata incapacità che provava prima che cominciasse il film. Gli apparterrà per sempre però quel momento di felice illusione. Almeno questo è quello che succede a me quando in un film c'è un attore che ha il coraggio di affrontare a viso aperto l'esistenza, subirne le conseguenze e sopportare la frustrazione della sconfitta.James Dean questo coraggio lo possedeva perché era capace di mettere la propria vita a disposizione di quel momento effimero che è la recitazione. Per riuscirci aveva studiato duramente: in primo luogo era entrato all'Actors Studio (che poi aveva abbandonato) e quindi aveva fatto una difficile gavetta. Alla fine, se per forza dobbiamo proprio dare un senso alla sua morte, Jimmy è morto di tutto questo.Mentre negli Stati Uniti La valle dell'Eden diventava campione d'incassi, la Warner Bros. cominciò a preparare quello che considerava un b-movie di lusso (esisteva allora anche in Italia la doppia programmazione di una commediola al pomeriggio e un 'filmone' americano la sera), Gioventù bruciata, diretto da Nicholas Ray, altro celebre ribelle di Hollywood, che aveva già diretto, tra gli altri, un magnifico film, Johnny Guitar, nel 1954.Gioventù bruciata nacque in parte come psicodramma, in parte come film sociologico sull'incapacità dei genitori di capire i propri figli. Ispirato da alcuni fatti di cronaca nera che avevano coinvolto giovani benestanti, diventò non solo un film di successo ma anche un film-manifesto capace di rappresentare una generazione definendone l'attore protagonista come il simbolo.
James Dean è il personaggio del ragazzo borghese che ha tutto e non è contento di niente, che non nasconde la propria insoddisfazione e accetta lo scontro con tutti ‒ dai genitori, ai ragazzi della banda rivale, alla società nel suo insieme ‒ non in nome di un ideale, che non ha, ma semplicemente perché stanco di sfuggire alla ricerca della propria identità, un ragazzo che ha solo bisogno di sapere chi è per esistere, esserci e non dover abbandonare il nuovo territorio che la sua famiglia aveva deciso di occupare.
Negli Stati Uniti degli anni Cinquanta l'immagine vincente è quella della famiglia media di provincia, costantemente in prima linea per conquistare posizioni economiche migliori e un po' di felicità. Le villette monofamiliari allineate, con il prato verde perfetto e lo steccato che recinta la tanto agognata tranquillità, rappresentano sia un fortino sia la casetta delle fiabe. Ma quando la serenità è conquistata e tutto è tranquillo, come sempre accade nei film ‒ e quindi nella vita ‒ arriva qualcuno a mettere ogni cosa in discussione alla ricerca del colpo di scena. In questo caso, appunto, i figli non si riconoscono in quel mondo che non hanno costruito, ne godono i privilegi ma ne sono annoiati e vanno a caccia di continue occasioni di rivolta senza avere in realtà obiettivi o cause precise per cui battersi (come invece succederà alla generazione successiva), ma vogliono soltanto spezzare la monotonia cui si sentono condannati. Così, tutto diventa sbagliato: è una generazione a cui si chiede di non conquistare più niente ma solo di conservare e proteggere valori già dati. E allora, se Carl Trask, il personaggio di La valle dell'Eden, era un giovane che faceva dell'irrequietezza la sua bandiera, Jim peggiora adesso la situazione nel senso migliore del termine e sprofonda in una vera e propria psicosi. Non c'è niente da fare. Nessuno può fare niente per lui che apre il film dicendo: "Vi prego, tenetemi chiuso qui. Sento che sto per combinare qualcosa, sto per far del male a qualcuno", e finisce in un mondo irreale dove esistono solo lui, il suo amore Natalie Wood e il figlio adottivo, Sal Mineo. Tutto questo dopo aver gridato al padre, che cercava di calmarlo dicendogli che di lì a dieci anni avrebbe capito tutto, "Voglio una risposta ora! ".
Immediatamente dopo James Dean finisce in un altro film epico, Il gigante, un monumentale melodramma con Elizabeth Taylor e Rock Hudson, in cui si trova a intepretare nel finale la parte di un uomo all'apice del successo. Stevens, a differenza di Kazan e Ray, non era un ribelle ma un solido regista hollywoodiano nella tradizione dei grandi maestri come John Ford e Howard Hawks. Il gigante era il terzo episodio di una sua ideale trilogia sul sogno americano. Se il personaggio affidato a James Dean (Jett Rink), un uomo che conquista il successo e poi non riesce a conviverci, doveva essere l'esempio del tradimento di quel sogno, proprio la presenza di Dean in quel ruolo lo caratterizzava fin da subito come un perdente, un uomo che alla fine della vita si ritrova a fare il magnate del petrolio, in smoking e alcolizzato, tradendo le proprie origini umili ed esaltando una visione cinica della vita. Se Rock Hudson (Bick Benedict) è invece l'uomo onesto, che giudica il mondo dall'alto della propria morale e guarda lontano verso nuovi obiettivi senza accorgersi di chi ha vicino, James Dean ne è il contraltare, irriducibile e misterioso.
Il fatto che Rock Hudson avesse uno stile di recitazione ‒ e forse di vita ‒ molto diverso da James Dean è certo parte integrante dello svolgersi drammatico del film. D'altra parte, così come aveva fatto negli altri due film fino ad allora interpretati, Jimmy riesce a far scomparire la linea di demarcazione tra vita reale e vita del personaggio; e se nei primi due film vi aveva fatto irruzione con tutto sé stesso, qui è anche costretto dalla storia a riflettere su quello che probabilmente sarebbe diventato lui con gli anni.Il gigante è un film perfetto per chiudere una carriera spietatamente fulminea come quella di Dean che, giovanissimo e con soli tre film, riuscì a ottenere un successo enorme. Il successo che aveva sempre sognato. La realizzazione di quella che, almeno fino a quel momento, era stata la sua unica ragione di vita e di cui aveva tanto vaneggiato negli anni trascorsi in California e a New York facendo una gavetta disperata per concretizzarla: avere successo, diventare un mito ma sfuggire a ciò che succede alla maggior parte degli uomini, il triste destino di nascere ribelli e diventare reazionari.James Dean è morto perché correva troppo, perché fuggiva lontano da quell'importante film hollywoodiano che aveva appena finito. Era troppo consapevole di quel che stava succedendo: era incastrato nel sistema e non sarebbe riuscito a sopravvivergli liberamente imponendogli quel suo modo particolare di recitare, vivere e affermarsi. E allora prese a correre lontano da quel mondo. E anche da questo, probabilmente. Non per suicidarsi ma per lasciare che la vita lo uccidesse. Per poter restare eternamente giovane, bello, consegnandoci una parte di sé inespressa perché irrappresentabile nei gesti e nelle parole. Ma anche con la consapevolezza che quella parte poteva emergere da sola perché altri l'avrebbero fatta esistere carpendola come un segreto esclusivo. Ed è forse questo il segreto dei grandi attori.
François Truffaut, uomo sensibile e in continuo rapporto con l'educazione sentimentale della propria generazione, non si sottrarrà al fascino del romantico Jimmy. Dopo la sua morte scriverà, infatti, sui "Cahiers du cinéma": "In James Dean i giovani d'oggi rie-scono a riconoscersi per motivi semplici e comuni: il pudore dei propri sentimenti; il desiderio di una vita animata dalla fantasia; una purezza morale che non si rifà alle norme consacrate della moralità comune ma a più severe esigenze individuali". Ma si può anche leggere tra le lettere del regista francese ‒ mirabile presa in diretta della realtà e del suo tempo ‒ quella scritta all'amica Helen Scott: "Ho comperato un'automobile velocissima. Al volante ricordo irresistibilmente James Dean, anche se il paragone non piace molto a mia moglie".
A James Dean piaceva molto correre. Anche a noi tutti, semplicemente, piace correre.