Testimonianze - Lolita. Dal personaggio del romanzo alla sceneggiatura
Lolita. Dal personaggio del romanzo alla sceneggiatura
Sul finire del luglio 1959, il celebre scrittore Vladimir V. Nabokov ‒ esule russo, già dal 1940 stabilitosi negli Stati Uniti ‒ nel corso di un soggiorno in Arizona ricevette da Stanley Kubrick la proposta di ridurre per il grande schermo il suo chiacchieratissimo romanzo Lolita, pubblicato nel 1955 (trad. it. 1959, 1998⁶), con strepitoso successo di scandalo, presso l'Olympia Press di Parigi. Fu questo l'avvio di una complessa e tormentata avventura artistica che vide contrapporsi, in un balletto di alterni slanci e ripiegamenti creativi, esibite concessioni agli altrui desideri e segrete ritrattazioni, le esigenze contrastanti del regista e dell'autore/sceneggiatore. Una prima stesura dello screenplay di oltre quattrocento pagine, consegnata da Nabokov a Kubrick all'inizio dell'estate del 1960, venne rifiutata dal regista; la seconda stesura dello scritto, risultato di un lavoro di capillare revisione e drastica riduzione 'd'autore' protrattosi sino alla fine del mese di settembre dello stesso anno, parve invece godere dell'approvazione di Kubrick, che si mostrò intenzionato a servirsene per il proprio film. "Il compiacimento", ebbe a commentare Nabokov ripercorrendo le tappe salienti del suo lavoro intorno alla versione cinematografica di Lolita nella prefazione all'edizione a stampa della sua sceneggiatura, "è uno stato d'animo che è autentico solo se visto in retrospettiva: lo si deve infrangere prima di poterlo constatare" (Lolita: a screenplay, 1974; trad. it. 1997, p. 24). Soddisfatto del proprio lavoro, all'anteprima privata newyorkese di Lolita (1a proiezione: 13 giugno 1962) ‒ film girato senza che egli prendesse parte alle riprese ‒ Nabokov dovette constatare che, pur figurando il suo nome tra i titoli di testa della pellicola, la sua sceneggiatura era stata di fatto profondamente tradita, nella lettera e nello spirito, dal regista. Il copione definitivo di Lolita consegnato a Kubrick, arricchito di alcune sequenze della prima versione dello screenplay inizialmente cassate, fu pubblicato da Nabokov nel 1974.
La definizione più corretta della sceneggiatura nabokoviana di Lolita e del rapporto di tale copione con il suo antecedente narrativo è stata probabilmente fornita dallo stesso Nabokov che, nella già ricordata prefazione allo screenplay, parla della sua opera 'cinematografica' come di una "vivace variante di un vecchio romanzo" (p. 27). Mettendo a confronto il testo narrativo con la sceneggiatura, il più significativo mutamento che si può riscontrare nell'impianto diegetico di Lolita ‒ al di là degli ovvi, e tutto sommato poco significativi, interventi sulla gestione dell'intreccio, per lo più di sfoltimento ‒ è dato dal distacco oggettivante tra l'autore e la storia da lui proposta che contraddistingue la versione cinematografica del racconto a fronte di quella romanzesca. Essendo formalmente concepito come memoriale del protagonista, il romanzo Lolita si regge su un'impropria identificazione del caustico stile di Nabokov con il punto di vista sul mondo del personaggio di Humbert Humbert, il tormentato intellettuale europeo innamorato della ninfetta Lolita ‒ al secolo Dolores Haze ‒, ambiguo anti-eroe della vicenda: proprio perché il romanzo è presentato nella finzione letteraria come diario di Humbert, infatti, l'acre ironia, a tratti spinta al limite del ghigno grottesco, che innerva la lunga 'confessione' del personaggio, non può non apparire, agli occhi del lettore, non già come inconfondibile tratto della scrittura di Nabokov, ma come registro espositivo ‒ e quindi anche forma mentale ‒ del protagonista. Nella 'variante' cinematografica del romanzo, invece, niente di tutto questo: nonostante l'escamotage del memoriale non sia lasciato cadere, per la natura stessa del medium filmico, la passione di Humbert per Lolita viene 'filmata' da Nabokov nel suo oggettivo accadere: il protagonista e i suoi interlocutori vivono i loro strazi ‒ che a volte possono pure risultare ridicoli agli occhi dello spettatore ‒ a un livello primario, senza la frapposizione del filtro distorcente dell'understatement d'autore. Nella sceneggiatura dunque, la corrosività propria alla maniera affabulatoria di Nabokov non diventa, come nel romanzo, prerogativa dello 'sguardo' di Humbert, ma sedimenta nelle didascalie, unico spazio che l'autore si ritaglia scopertamente all'interno dell'opera per soddisfare la sua non taciuta vocazione cripto-hitchcockiana a permeare del suo volere e della sua arte la realizzazione della sua partitura cinematografica.
Nella misura in cui il personaggio di Humbert, distaccandosi completamente dall'autore, nella sceneggiatura mostra più chiaramente di possedere un fondo di toccante e innocente purezza ‒ sostrato di trepido candore confinato, invece, alquanto in ombra nel romanzo ‒, nel passaggio dalla versione narrativa a quella cinematografica l'intero assetto narrativo di Lolita viene sensibilmente ridisegnato da Nabokov. Se già il romanzo, a dispetto delle polemiche scatenatesi all'indomani del suo apparire, a una lettura libera da pregiudizi moralistici, lungi dal risolversi in uno scabroso referto di una torbida e colpevole passione di un vecchio 'malato' per una ragazzina, si rivela essere piuttosto la cronaca desolata e commovente di un amore impossibile, pietrificato in ossessione, la sceneggiatura, spente da Nabokov le note più pruriginose delle sue pagine narrative, offre al pubblico una versione se possibile ancora più 'casta' dell'ormai quasi leggendaria storia d'amore ‒ nell'accezione più pura di questa locuzione, scontata e sempre nuova a un tempo ‒ di Humbert e Lolita (indimenticabili in tal senso le sequenze del ritrovamento della fotografia di Annabel e della vestizione di Dolores per il ballo della scuola).
È proprio sulla base di questa sorta di 'purificazione' di un racconto già di per sé meno perverso di quanto non si sia soliti supporre, che la sceneggiatura di Lolita rende ancor più trasparente l'allegoria incastonata da Nabokov nel proprio racconto. Come sempre accade nei romanzi nabokoviani ‒ caleidoscopici palcoscenici linguistici, nella loro maniacale precisione verbale, degni delle più immaginifiche boîtes à illusions del 17° sec. ‒ anche in Lolita infatti quello della 'trama' è solo uno dei molteplici piani in cui può essere sfogliata la narrazione. Simbolo nel nostro immaginario culturale dei risvolti più foschi e patologici del desiderio ‒ con tanto di iniziale minuscola (lolita) il nomignolo di Dolores Haze è divenuto persino eccitante e peccaminoso nome comune regolarmente inscritto nei vocabolari a designare un'adolescente precoce capace di suscitare appetiti sessuali negli uomini adulti ‒, per esplicita ammissione dell'autore l'impossibile passione di Humbert per Lolita, in effetti, è però anche ‒ e forse soprattutto ‒ figura dell'appassionata ‒ e altrettanto impossibile ‒ storia d'amore di Nabokov con la lingua inglese, o per meglio dire con quel suo specifico sottoprodotto rappresentato dalla lingua americana.
Le implicazioni letterario-autobiografiche di quell'autentico mito di fine millennio che è Lolita (e ancor di più Lolita) si articolano a ben guardare a tre livelli. In primo luogo ‒ e in una prospettiva più generale ‒ attraverso la storia, per noi 'tabù', dell'uomo adulto innamorato di una bambina, Nabokov allude al rapporto morboso e appassionato che uno scrittore sempre e comunque intrattiene con la lingua: la devastante e disperata passione che lega Humbert, non per nulla professore di letteratura, a Lolita è cifra della sempre insoddisfatta passione di uno scrittore per la lingua di cui si avvale, oscuro e irresistibile oggetto del desiderio, pronto in ogni momento a concederglisi, ma mai realmente posseduto o possedibile, anche quando si tratti del suo idioma natale. In Lolita, però, la metafora dell'assoluta inafferrabilità del linguaggio si viene ulteriormente precisando come riflesso, tutto relativo e personale, del rapporto ambiguo intrattenuto da uno scrittore europeo con la lingua americana: tra le righe del memoriale di Humbert è allora possibile leggere la privata 'tragedia' del Nabokov narratore, ossia il fatto di aver dovuto abbandonare la propria lingua madre per servirsi, nel proprio lavoro di scrittore, di un idioma straniero. Attraverso questo secondo livello metaforico si accede a un nuovo punto di vista sul racconto. Narrando nella storia di Humbert la propria personale esperienza di scrittore, proveniente da una civiltà letteraria di secolari tradizioni alle prese con la volgare, ma al tempo stesso vitale, sciatta, ma al tempo stesso conturbante irruenza della giovanissima lingua americana, Nabokov finisce di fatto con l'illustrare con icastica precisione l'incontro/scontro tra due visioni del mondo: quella europea e quella statunitense.
Alla luce di queste considerazioni, il triangolo amoroso Humbert-Lolita-Charlotte, ancor più che nel romanzo, nella sceneggiatura di Lolita rivela dunque distintamente le sue molteplici valenze di significato: nel maturo e affascinante professore proveniente dal 'vecchio mondo', stregato dalla ninfetta degli States e concupito dalla di lei madre, Nabokov ritrae lo scrittore sempre sedotto dalla lingua che sempre gli si nega, intento a misurarsi con un nuovo idioma, che per certi aspetti lo attrae, ma che non gli appartiene, e che è al tempo stesso perseguitato da una fastidiosa imitazione del proprio linguaggio 'materno'. Specie nello screenplay Humbert svela poi la sua più riposta identità non già di pedofilo incallito, bensì di campione di una vecchia e culturalmente aristocratica Europa, spiazzata di fronte alla giovanile e immemore protervia di un'America non priva di fascino ‒ incarnata in Lolita ‒, America però che, come ci insegna il personaggio di Charlotte, non manca a sua volta di invaghirsi dei sottili incanti di un'Europa di sogno, vissuta e vagheggiata come lontana e maliosa epifania del glamour.
Opera per tanti aspetti magistrale, ricca, a detta dello stesso Nabokov, di invenzioni cinematografiche azzeccate e spiritose, il celebre film di Kubrick sconta inevitabilmente la naturale organicità del regista ‒ e del suo sguardo ‒ a quel mondo americano che, al contrario, nella Lolita nabokoviana è scrutato, stigmatizzato e venerato con gli occhi di uno straniero: non a caso, sempre nella prefazione allo screenplay di Lolita, Nabokov, in "un misto di irritazione, rammarico e restio godimento", assimila la pellicola di Kubrick a "certe traduzioni di Rimbaud e Pasternak fatte da un poeta americano" (1974; trad. it. 1997, p. 26). Un'ulteriore riprova dell'impossibilità di ridurre Lolita al suo mero plot, ci viene dalla nuova versione cinematografica del romanzo di Nabokov diretta da Adrian Lyne nel 1997 su sceneggiatura di Stephen Schiff e (non accreditato) David Mamet. Pur avvalendosi di interpreti di prestigio quali Jeremy Irons (Humbert) e Melanie Griffith (Charlotte) ‒ degni eredi dei James Mason e Shelley Winters kubrickiani (ma come non ricordare poi, a proposito del cast del film di Kubrick, il Clare Quilty di Peter Sellers) ‒, la pellicola di Lyne, risolvendo di fatto il racconto di Lolita nel suo semplice intreccio, pur rimanendo più fedele alla lettera del romanzo di quella di Kubrick, risulta, in effetti, priva del fascino misterioso sprigionato dalle pagine di Nabokov.
Se si sospende per un istante il giudizio sul problema ‒ probabilmente 'falso' ‒ dell'obbligo di fedeltà di un regista al proprio testo di partenza oppure su quello dei limiti della libertà dell'interprete, la scelta di uno scaltro conoscitore del linguaggio cinematografico come Kubrick di intervenire sulla sceneggiatura di Nabokov, semplificandone l'ordito strutturale e semantico, fa riflettere sul reale statuto 'estetico' di questo screenplay. Distillato della raffinata arte dell'autore, sempre in bilico tra letteratura al quadrato ed enigmistica, la sceneggiatura nabokoviana di Lolita, sofisticato intarsio ‒ come per altro il suo archetipo narrativo ‒ di commedia brillante americana anni Cinquanta (I atto), rêverie simbolista (II atto), e mélo neonaturalista (III atto), impreziosito da laccati pannelli di citazioni contraffatte e incorniciato da un'ininterrotta teoria di giochi di parole (anagrammi, doppi sensi, senhal…), per la molteplicità stessa dei suoi livelli di articolazione diegetica e per la forte letterarietà della sua scrittura, probabilmente a prescindere dalle intenzioni dello stesso Nabokov, a tratti pare in effetti renitente a piegarsi alla sua dichiarata destinazione cinematografica. Creatura sfuggente sempre pronta a trapassare in puro suono ("Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lolita: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.": recita l'incipit del romanzo) o a dissolversi in letteratura ("Penso agli uri e agli angeli, al segreto dei pigmenti duraturi, ai sonetti profetici, al rifugio dell'arte. Ed è questa l'unica immortalità che tu e io possiamo condividere, mia Lolita": suonano concordi gli epiloghi di romanzo e sceneggiatura), la Lolita di Nabokov, più ancora che nel cinema, sembrerebbe dunque trovare nel 'convenzionalissimo' teatro l'ambiente e il medium linguistico a lei più congeniali (la seducente ninfetta non nutre forse una ben poco segreta ‒ e strumentale ‒ passione per la scena?). A puntuale riscontro di questa ipotesi va precisato che, oltre ai film già ricordati, da Lolita sono stati tratti anche un musical, firmato Alan Jay Lerner su musiche di John Barry (Lolita, my love, 1971), un'opera lirica, composta da Rodion Schedrin (1994), una commedia di Edward Albee (1a rappresentazione: 19 marzo 1981), come pure un'edizione teatrale della sceneggiatura diretta da chi scrive (2001).Tralasciando i dubbi circa la più genuina natura dell'opera di Nabokov, un dato resta certo: i fiumi d'inchiostro versati da quasi cinquant'anni a questa parte sullo spinoso 'affaire Lolita' non sono arrivati a risolvere l'arcano dell'indiscutibile e magnetico potere d'incanto del personaggio nabokoviano. In barba a ogni tentativo di classificazione poetica e a ogni sforzo di definizione o di analisi critica, trascorrendo liberamente dal romanzo alla sceneggiatura, dallo schermo al palcoscenico di teatro per musica e di teatro per così dire 'parlato', insieme alla Monroe di The seven year itch (1955; Quando la moglie è in vacanza) di Billy Wilder o al James Dean di Rebel without a cause (1955; Gioventù bruciata) di Nicholas Ray, l'inquietante personaggio di Nabokov, magari fissato nel profilo ammiccante della pudibonda Sue Lyon intenta a succhiare un lecca lecca a forma di cuore, è ormai diventato una delle più classiche ed equivoche icone, disarmante nella sua ingenuità, intrigante nella sua oscura malia e soprattutto ineffabile e incomprensibile, nel suo inesauribile mistero, della nostra epoca.