Testimonianze - Marcello Mastroianni
Marcello Mastroianni
È impossibile scrivere di un grande attore separandolo dalle sue interpretazioni. L'attore è un corpo sensibile che si adatta ai diversi personaggi che interpreta, come uno scrittore è una mente che si oggettivizza nei personaggi che crea. Soltanto gli ingenui cercano di sbirciare dietro le quinte. Dietro può esserci tutto o niente, la delusione o un monumento, ma certo non quello che cerchiamo. Pensiamo ai pullman di turisti che andavano sotto la villa di Mastroianni e lo acclamavano quando si affacciava (cfr. F. Fellini, Block-notes di un regista, 1988), o pensiamo alle gite a Beverly Hills, o ai percorsi proustiani, che si concludevano con l'acquisto di biscottame. Ma queste ingenue comitive hanno avuto una metamorfosi contemporanea assai meno patetica: la televisione è diventata il pullman sul quale salgono tutti, pubblico ingenuo e critica, il cinema un gigantesco backstage, e la critica si è trasformata in pettegolezzo. Il cinema è un prodotto industriale come gli altri, con un imponente bilancio annuale (che negli Stati Uniti supera quello delle industrie automobilistiche) fatto di medie costanti, e non di eccezioni. I film si scrivono seguendo i contorni di un attore sicuro e famoso, le trame si fanno esili, i prodotti sempre più simili, come il design delle nostre automobili. Il pubblico va in sala per vedere l'attore di successo, per invidiarlo e per immaginarsi al suo posto. La storia non deve disturbare. Non vedono in scena il personaggio immerso nel suo destino, ma l'uomo che hanno visto passeggiare nel parco della sua villa sull'Appia, o fotografato mentre scendeva da un aereo privato, o mentre si sposava con la famosa fotomodella.Non si sogna più di essere il protagonista di un'avventura, si sogna di essere l'attore. Non ci si abbandona al film (non ci si abbandona a un libro) ma si entra in competizione narcisistica con il signore o la signora che lo interpreta. Per questo il cinema, diventando un insieme di prodotti medi, è diventato prevedibile e banale; per questo il ruolo dell'autore è destinato a un sempre più rapido declino. Proprio su questa odiata parola, 'autore', vorrei fermarmi un istante, proponendo un'estensione semantica solo apparentemente scontata: anche l'attore è un autore, non foss'altro che della sua carriera. Più profondamente si potrebbe dire che ogni vera interpretazione è un atto creativo e una prova d'autore, parallela e gerarchicamente in ombra, rispetto a quella del regista, ma non meno importante. Marcello Mastroianni è stato certamente questo tipo di attore-autore, e oggi non credo che ci sarebbe molto spazio per il suo talento. L'attore-autore, insieme all'autore tout court, cede il posto ai prodotti in serie e alle strategie di mercato. Mastroianni, in molti interventi, ha dimostrato di percepire con grande lucidità il cambiamento. Come sempre i suoi occhi buoni e il suo sorriso gentile non devono trarre in inganno. "Per noi" diceva in una conversazione con Federico Fellini, "Marilyn Monroe era immensa e irraggiungibile, e soprattutto era lassù, nel grande schermo. Oggi è in una piccola scatola sul pavimento, e si deve guardare giù". Un romano non si scandalizza per principio (e un ciociaro è un romano all'ennesima potenza), registra il cambiamento davanti ai suoi occhi e ride tra sé, del cambiamento e di chi si agita di fronte al cambiamento. Appunto con questo sorriso per nulla candido Mastroianni ha anche trovato il modo di parlare di sé, per l'ottimo motivo di autoritrarsi senza lasciare spazio a interpretazioni postume farneticanti. Sto parlando del film-intervista Marcello Mastroianni: mi ricordo, sì, io mi ricordo, girato nel 1997 dalla sua compagna Anna Maria Tatò, con una 'piccola' troupe eccezionale. Mastroianni è in Portogallo, dove sta girando un film (Viaggio all'inizio del mondo, di Manoel de Oliveira); nelle pause registra qualche frammento dei suoi ricordi. Nel corso delle riprese compirà settantadue anni. Sarà il suo ultimo compleanno, morirà solo tre mesi dopo. Non è quindi arbitrario attribuire a questo film il significato di un testamento volontario. "Sono contento che il mio compleanno coincida con questo film" confessa alla cinepresa, "senza voler apparire né orso né snob ammetto che certe manifestazioni, anche di simpatia, di amicizia, di entusiasmo ‒ insomma mi affaticano un po', mi annoiano un po'. A volte sono come i cani: preferisco andare a mettermi sotto un mobile, mi sento più protetto".
In un altro momento del film lo vediamo seduto all'aperto, nel giardino di una bella casa, ed è completamente a suo agio. Sembra abbia voglia di riflettere sul mondo che lo circonda, quando ci dice: "Va bene, ammettiamolo pure che a volte può essere anche necessario tagliare dei boschi, ma perché distruggerli tutti? Muoiono miliardi di alberi, vengono distrutti i nidi degli uccelli, i rifugi degli animali; scompaiono per sempre paesaggi meravigliosi: e tutto questo perché? Bisogna essere dei barbari insensati per bruciare tanta bellezza, distruggere ciò che noi non siamo capaci di creare. L'uomo possiede ragione e forza creativa per accrescere quanto gli è stato dato; però, fino ad oggi, non ha fatto che distruggere. I boschi sono sempre più piccoli, i fiumi inaridiscono, la selvaggina scompare; e la terra, giorno dopo giorno, diventa sempre più povera e brulla".
Siamo in un momento tra i più belli del film. Lo spettatore pensa: ecco Mastroianni che parla di un problema ambientale, e dice frasi sensate e insieme insensate, semplici e quasi banali ma nello stesso tempo vere e proprie bombe logiche. Come quando si chiede: "Tutto questo, perché?". Se lo chiede con l'aria più modesta del mondo, ma è una domanda che soltanto un poeta sa farsi con questa impressionante semplicità. E infatti le sue dimesse riflessioni sono parole tratte dal monologo del dottor Astrov nel primo atto di Zio Vanja, di A.P. Čechov. Non so quanto sia stato voluto ma è il momento più intenso del film, quando Mastroianni, che pure non nasconde segreti e non vuole dimostrarsi troppo schivo o ingeneroso di sé, getta la maschera e dice il suo pensiero più profondo. Ma sembra aggiungere: se l'attore getta la maschera non può rinunciare a indossarne un'altra. La sua verità è tutta nella maschera. E più esattamente (da buon lettore di Čechov) nelle sfumature dell'anima che questa maschera è in grado di proporre. Sono pochissimi i critici letterari di professione che hanno colto l'essenza di Čechov con profondità paragonabile a questa. Mastroianni accenna all'ironia, che appunto è la sfumatura più importante, paragonabile all'arte del drappeggio in un pittore dei secoli passati. Non ho avuto la fortuna di assistere a teatro a una prova čechoviana di Mastroianni, ma gli sono molto grato per questo dono incastonato nel suo film-intervista. Io che considero inguardabile Čechov a teatro ho visto dopo tanto tempo una vera, grande interpretazione čechoviana. (Non voglio, sia chiaro, gettare la croce sul teatro italiano: Čechov è stato tradito da tutti sin dall'inizio, quando era ancora in vita, e il successo che continua nei tanti teatri del mondo è un puro equivoco). "Forse amo Čechov" racconta ancora Mastroianni nel suo film-intervista, "in modo così speciale, perché i suoi personaggi, i suoi racconti, somigliano alla vita. […] Le loro meschinerie, le loro gelosie, il loro ridicolo: perché secondo me Čechov è l'autore della commedia alla russa. […] Invece in Europa Čechov è stato sempre rappresentato in chiave piuttosto drammatica. C'è il dramma, certo che c'è; ma è un dramma che rasenta il ridicolo, che fa anche ridere. E questa credo sia la grandezza di quest'autore sommesso. Shakespeare è grande, enorme, ma i mezzi toni di Čechov, almeno per me, sono più emozionanti". I mezzi toni, le sfumature, sono questi gli strumenti primari di ogni vero autore, e quindi di ogni attore-autore. La memoria della sua interpretazione čechoviana in Partitura incompiuta per pianola meccanica di Nikita S. Michalkov è rimasta nei teatri di mezzo mondo. Gli attori italiani più famosi che l'avevano preceduto erano spesso 'a una dimensione' (basti pensare ad Amedeo Nazzari, che Mastroianni peraltro ricorda molto affettuosamente), e la quasi totalità degli attori contemporanei lo è. Mastroianni lavorava sulle sfumature anche interpretando personaggi estremi e grotteschi. Portava la maschera principale perché doveva portarla, ma la realtà del personaggio veniva sempre espressa attraverso le esitazioni, le piccole contrazioni facciali e vocali, le sospensioni, il sorriso, gli attimi di smarrimento, i vuoti di memoria, il gesto della mano. Nei film con Fellini, per es., interpreta l'alterità e il mistero della bellezza, in tutte le sue sfumature. Ma l'immagine che ha lanciato Mastroianni nel mondo coincide con un suo disagio. La bellezza lo infastidiva. Ci teneva a denunciare pubblicamente le sue gambe, secondo lui troppo magre, sproporzionate addirittura rispetto al resto del corpo. La sua battaglia contro la bellezza è durata tutta la vita, e l'ha guidato in molte scelte. "Sono bello?", sembra dire la sua carriera, "ma se ho interpretato impotenti, omosessuali, fragili, nevrotici…". Non voleva essere quel che noi pubblico (e insieme al pubblico registi e produttori) volevamo ardentemente che fosse, forse per esserlo un po' anche noi. A lui fare il bel tassista dal sorriso buono non bastava. E neppure voleva sentirsi schiacciato in una dolce vita che non aveva vissuto, e che peraltro nel ritratto di Fellini tanto dolce non era sembrata davvero. A distanza di molti anni il ciclo eroico dei primi film di Fellini si rivede sotto una luce più cupa: intuizioni ai limiti della preveggenza si alternano a uno stato d'animo di abbandono e rassegnazione che allora si poteva percepire solo in parte. Il mesto, grigio finale di La dolce vita li riassume tutti: ormai i piccoli sogni di provincia sono tramontati, lo scrittore fallito è diventato pubblicitario. Con i suoi amici marci e patetici si aggira all'alba attorno al cadavere insensato di un pesce che i pescatori hanno trascinato sulla spiaggia. L'italiano con cui si esprimono è orribile, falso e gelido. Neppure il viso incantevole di Valeria Ciangottini, dall'altra parte della fiumara, può distrarre un uomo così rassegnato alla morte. Il passato non tornerà, la dolcezza è finita. Mastroianni voleva interpretare la complessità dell'uomo contemporaneo e cosmopolita, voleva che chiunque potesse riconoscersi in lui, e soprattutto non essere guardato come un latin lover, espressione che detestava in tutti i suoi significati. La sua carriera è anche il frutto difficilmente interpretabile di questa battaglia. Forse è stato troppo severo con sé stesso, e forse anche con noi. Il giovane tassista, candido e innocente, di Peccato che sia una canaglia (girato da Alessandro Blasetti nel 1954), è rimasto come un sogno dentro di noi, come l'immagine stessa della bellezza maschile. Accanto a lui, in perfetta sintonia, le presenze meravigliose di Sophia Loren e Vittorio De Sica.
Come è noto Mastroianni non andava quasi mai al cinema, e pare non abbia visto che una piccola parte dei suoi film. Non voglio forzare in alcun modo questa sua scelta con mie interpretazioni arbitrarie. Ma se è vero che la carriera di un grande attore è nel suo insieme un'opera a sé stante, in un certo senso autonoma e parallela anche rispetto agli autori dei singoli film, l'opera di Mastroianni è difficile da definire. Molti film sono stupendi (e non solo quelli con Fellini) ma direi che almeno altrettanti non meritano la sua partecipazione. L'opera nel suo complesso appare eclettica e sperimentale. Mastroianni ha dichiarato in diverse occasioni che gli premeva soprattutto allontanarsi dall'immagine un po' ottusa del latin lover, ma questo spiega solo in parte le sue scelte, che in molti casi si potrebbero definire semplicemente sbagliate. Secondo me il suo non sentirsi più parte del pubblico (e a rigore di logica il suo non andare al cinema significava questo) corrisponde a un suo giudizio estetico preciso, a un atteggiamento mentale guidato dallo scetticismo. Al di là delle squallide orazioni funebri e dell'infinita e stucchevole serie di coccodrilli il cosiddetto mondo del cinema italiano si era già sbarazzato da anni di Mastroianni e dell'idea di cinema che lo aveva animato insieme a molti della sua generazione. Il cinema che stava prendendo il loro posto è quello che abbiamo davanti agli occhi ogni giorno: un cinema quasi sempre senza autori e senza attori, un pubblico di ragazzini viziati (e annoiati) dagli effetti speciali. Diversi progetti di Mastroianni maturo sono stati rifiutati dai produttori. Mastroianni parlava volentieri solo di un progetto mai realizzato: la vita di Tarzan da vecchio, che lo faceva sorridere ogni volta che ci ripensava. Ne parlava come di una guasconata, in fondo giustamente irrealizzata, ma non accennava ai veri progetti abbandonati che gli erano stati a cuore e che certamente ancora lo addoloravano. L'ironia, quella vera, che non è neppure parente della satira postfascista cara all'Italia media, è l'arma degli spiriti disperati e degli scettici. E con un filo di ironia Mastroianni stesso racconta in Marcello Mastroianni: mi ricordo, sì, io mi ricordo l'inizio della sua avventura di attore, e fa subito un nome: Vittorio De Sica. Il suo modo di intervenire criticamente è sempre in positivo: il cinema non si fa con i progetti irrealizzati, è inutile piangere o serbare rancore, si fa esclusivamente con i film. Mastroianni ragazzo si fa presentare a De Sica, è De Sica il suo primo punto di riferimento, ed è il nome chiave per riscrivere la nostra storia del cinema. Era lui, il vero maestro, era lui il nostro cinema. Parlando degli altri grandi registi che ha incontrato la sua voce non raggiunge mai lo stesso incondizionato entusiasmo. Probabilmente la grande familiarità che aveva con Fellini (in fondo avevano cominciato insieme, e non si può idolatrare un compagno di banco!) stemperava l'ammirazione in affettuoso cameratismo.
Cosa ci lascia Mastroianni? Ci lascia diversi capolavori, un viso che tutti avremmo voluto come amico. Ci lascia anche dei film meno riusciti, o addirittura incredibilmente sbagliati, scelti basandosi su motivazioni superficiali: un regista poteva interessarlo perché era molto giovane o molto vecchio, e se lo sceglieva vecchio (e l'ottantaduenne M. de Oliveira lo era) non lo faceva certo per infilarsi in extremis in una filmografia importante o che l'aveva in qualche modo impressionato. Di de Oliveira non aveva visto nessun film. Lo impressionava molto perché al mattino, prima di cominciare a girare, il vecchietto faceva una nuotata nella piscina fredda dell'albergo, e poi perché riu-sciva a dormire molto a lungo, nove, dieci ore, come un ragazzo. Il film, in fondo, aveva per Mastroianni un'importanza molto relativa; non amava i film, amava fare il cinema, il suo essere attore. Ma per fortuna i capolavori sono tanti, molti di più di quelli che restano nella memoria dello spettatore distratto. Insomma Mastroianni non è solo il miglior Fellini, è il viso del cinema italiano nella sua stagione più ricca: Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Pietro Germi, Luigi Comencini, Ettore Scola, Marco Ferreri, e preferisco omettere altri registi pur di non dimenticare alcuni sceneggiatori fondamentali: Cesare Zavattini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Age e Scarpelli, Suso Cecchi d'Amico. Tanti, davvero tanti, hanno con lui un immenso debito di riconoscenza.Se dovessi scegliere una delle sue facce forse sceglierei Una giornata particolare, di Ettore Scola, del 1977. Anche perché ha accanto Sophia Loren, con la quale ha realizzato alcuni dei momenti più alti della storia del cinema. Tutti e due belli, bellissimi, uniti dalla stessa bellezza e dal dono dell'ironia. Una storia di imbarazzi, di segnali quasi impercettibili, di gentilezze, mentre sullo sfondo il mondo dell'intolleranza lancia i suoi strilli in camicia nera. O forse, per motivi simili, sceglierei il Mastroianni baffuto di Matrimonio all'italiana (1964) di De Sica, nel momento in cui contempla un ritratto maschile con fez ed esclama: "Come si fa a vincere la guerra con gente vestita così?". Ma come potrei dimenticare il fotografo Tiberio di I soliti ignoti (1958) di Monicelli? Sì, alla fine, per ricordare Marcello Mastroianni proporrei un fotogramma di questo film geniale, che una generazione intera ha adottato come simbolo di un'epoca irripetibile.