Testimonianze - Marilyn Monroe
Marilyn Monroe
Il 5 agosto 1962, all'alba della prima domenica del mese, nell'ufficio del coroner della contea di Los Angeles viene repertato il caso nr. 81128. Il corpo che ora è una pratica d'archivio giace in una cripta dell'obitorio di palazzo di giustizia ‒ la cripta 33, per la precisione ‒ ma questo cadavere coperto da un lenzuolo, un cartellino d'identificazione che penzola dall'alluce del piede destro, non appartiene a uno dei tanti junkies che sono morti questa notte. Anche se la salma in questione (come recita il gelido linguaggio burocratico della morgue) è quella di una persona che nell'ultima parte della sua vita è stata smarrita, confusa e confinata in una sorta di follia visionaria come un qualsiasi drogato all'ultimo stadio, incapace persino di ricordare il suo nome. I funzionari in servizio nelle prime ore del mattino attribuiscono al caso nr. 81128 le generalità di Marilyn Monroe, alias Norma Jeane Mortenson o Baker, chissà. Ex signora Dougherty, Slatzer (per tre giorni; fulmineo matrimonio celebrato a Tijuana, sul confine messicano), Di Maggio, Miller. Professione: attrice, ma un'attrice che non riesce più a recitare, pur essendo (almeno fino a ieri sera) la più grande star di Hollywood. Sennonché adesso, nella cripta 33, l'attrice più famosa e desiderata del mondo non c'è. Nell'obitorio ci sono due fotografi: Bud Gray dell'"Herald examiner" e Leigh Wiener, un free lance che collabora con "Life". Gray prende la sua foto mentre Wiener copre il rumore dello scatto accendendosi una sigaretta, ma tutto quello che riesce a inquadrare è un fagotto informe coperto da un lenzuolo. Wiener butta via la sigaretta, estrae una bottiglia di whisky dalla borsa, la passa a uno degli addetti. Come per incanto, lo sportello si apre. Dentro c'è una povera ragazza morta, fredda come il ripiano scorrevole di acciaio inossidabile che la ospita. Un corpo stanco. Non ha un filo di trucco. Unghie trascurate. Capelli in disordine, e così sfibrati da tinte e trattamenti che sembrano quelli di una persona scampata a un incendio. Ma è a qualcos'altro, a quanto pare, che non è sfuggita. Qualcosa di più subdolo, misterioso, altrettanto terribile. Stando a quello che si saprà dopo, quando era ancora miss Monroe, la ragazza che Gray e Wiener stanno fotografando nella morgue si trovava nella sua casa di Brentwood, Santa Monica. Le tre e mezza di notte. Caldo afoso. La luce ancora accesa in fondo al corridoio. Il dottor Greenson, il suo psichiatra, l'ha trovata lì, prona sul letto, la testa posata di taglio sul cuscino. Sdraiata, immobile. Gli occhi chiusi, le spalle scoperte. Stringeva la cornetta del telefono nella mano destra. Una boccetta vuota, il coperchio riavvitato. Ma non stava dormendo. Doveva succedere, prima o poi. Era morta, e ora si tramutava in uno scandalo da soffocare a caro prezzo. Doveva succedere, lo sapevano tutti a Hollywood e dintorni. Tutti sapevano che Marilyn era diventata petulante. Ossessiva. Imprevedibile, troppo pericolosa. Esplosiva e seducente come sempre, ma anche così instabile. Era esposta a ogni tipo di ricatto, miss Monroe. Era una donna molto compromettente. Un grosso rischio. Diceva di sentirsi brutta, disperata, inutile. Un relitto. Si era messa in testa di sposare Robert Kennedy, nientedimeno. Ma aveva avuto il più grande campione sportivo sulla piazza, Joe Di Maggio; il più grande drammaturgo della nazione, Arthur Miller; aveva preso in considerazione l'idea di un matrimonio con il principe Ranieri di Monaco: perché non poteva avere il ministro della giustizia, il fratello del presidente degli Stati Uniti d'America? Lei, la donna più bella e desiderabile del mondo. Perché? L'amore pretende troppo, distorce la realtà, semina il caos, a volte uccide, e forse è proprio per questo che lei è qui, adesso. Forse è per questo che, appena Gray e Wiener corrono via a sviluppare le macabre foto dello scoop, la bellezza svanita di miss Monroe scompare di nuovo sotto un telo di plastica, in una lunga stanza senza finestre, nei sotterranei del palazzo di giustizia. Tra poco il dottor Noguchi s'incaricherà di eseguire l'autopsia, come previsto dalla legge. Al termine quel corpo irriconoscibile, trasfigurato, ancora vivo nei ricordi e nell'immaginario di milioni di persone, verrà inondato d'acqua. Suicidio probabile, la conclusione, ma questa morte resterà un grosso punto interrogativo. La verità, come sempre, non si saprà mai, ma forse nemmeno la verità è importante. Forse è stata uccisa e forse no, probabilmente non voleva uccidersi, ma era già morta. La colpa originaria di miss Monroe era una fantasia adolescenziale: sosteneva di aver avuto un figlio e di averlo dato in adozione. Un peccato imperdonabile, Dio l'aveva punita per questo. In cambio del figlio perduto le aveva dato bikini e négligés, pillole di Dexamil e abiti tempestati di paillettes. L'esordio nel cinema a ventun anni; una delle dodici comparse di Scudda-hoo! Scudda-hay!, film su un allevamento di muli in cui pronuncia una sola battuta ("Salve!") e compare in campo lungo a bordo di una canoa. Le foto sexy, le riviste patinate, i calendari. Forse un film a luci rosse, Apple knockers and the Coke bottle. Per enfatizzare la camminata sexy, miss Monroe taglia via un mezzo centimetro dal tacco della scarpa sinistra. Sul set di Love happy fa uscire fumo dalle orecchie di Groucho Marx. Prima del trucco è una bambina con le gambe corte, il sedere grosso e lo sguardo opaco, un'ora dopo è un corpo fantastico, un viso che emana un alone di luce. Si trasforma. Fuoco mistico, bagliore bianco. È nata per essere pellicola, solo davanti all'obiettivo esiste, lì dove non esiste la persona. E il grigio uniforme della realtà quotidiana si dissolve. Lì dove Marilyn diventa un afrodisiaco di celluloide per il pubblico. E un castigo divino per i colleghi. Durante le riprese di Some like it hot porta Tony Curtis e Jack Lemmon sull'orlo dell'esasperazione con i suoi inqualificabili ritardi, con l'assoluta incapacità di rammentare anche le battute più elementari, di girare inquadrature semplicissime che a volte richiedono sessantacinque ciak di fila. Sembra proprio che miss Monroe ‒ ovvero Sugar Kane, deliziosa suonatrice di ukulele che adora i milionari e canta I wanna be loved by you ‒ stia recitando da cani. Fatto sta poi che a film finito, per ammissione dello stesso Billy Wilder, sullo schermo si vede solo lei. È una sorta di magia, un fenomeno fragile, radiante, così impalpabile che può essere colto solo dalla macchina da presa. Una scia luminosa, il mistero e il pericolo di una presenza aliena. Puro istinto, forse. Un'attrice inconsapevole, ma che piange lacrime vere, non glicerina. Forse perché la sua vita vera è fatta di notti abitate da fantasmi. Insonnia, pianti, telefonate che durano ore e giorni. Diamonds are a girl's best friend. Il terrore del set. La psicoanalisi. L'impulso irresistibile a spogliarsi in pubblico; una dea in pelliccia di visone. L'ansia di piacere a ogni costo, la paura inestirpabile di recitare. La carriera che va in pezzi; il suo ultimo film, Something's got to give, che viene annullato dalla 20th Century-Fox e dal produttore Henry Weinstein quando un esterrefatto George Cukor, guardando i giornalieri, al posto di Marilyn Monroe vede una donna distrutta, che recita in apparente stato ipnotico. "La cosa più grande e più difficile che esiste", scrive a Joe Di Maggio nel 1962, pochi mesi prima di morire, "è rendere felice una persona". A ogni modo, ora questo non conta. Ormai è tardi per iniziare una vita nuova, per imparare a esistere. "Morire è naturale come vivere, e chi ha paura di morire ha paura anche di vivere", le ha detto Clark Gable il 26 agosto 1960, sul set di The misfits, a bordo di una giardinetta. Meno di due mesi dopo l'uomo che Norma Jean, nei suoi sogni infantili, credeva suo padre, è stato fulminato da un attacco di cuore. Adesso è il tuo turno, miss Monroe. Adesso c'è l'ufficio del coroner, contea di Los Angeles, caso nr. 81128, cripta 33 dell'obitorio di palazzo di giustizia. I fotografi se ne sono andati, sei rimasta sola. Ma c'è ancora l'ultima scena; il canto del cigno, l'estremo addio. 7 agosto 1962. Whitey Snyder ‒ il fidato truccatore ‒ preparerà il corpo di miss Monroe per il funerale. Elogio funebre a cura di Lee Strasberg. Musica: Judy Garland, Over the rainbow. Trasporto al Corridor of Memories, Westwood Memorial Park, tra Wilshire e Westwood Boulevard, tra un salone di automobili e una banca. Nicchia nr. 24, circa un metro da terra. Cenere alla cenere. Su una corona anonima, un sonetto di E.B. Browning. "Come ti amo? Lascia che conti i modi. / Ti amo col respiro, i sorrisi, le lacrime, / Di tutta la mia vita ‒ e se Dio lo vorrà, / Ancor più ti amerò dopo la morte". Tre volte la settimana, fino al 1982, Joe Di Maggio farà collocare due rose rosse davanti al loculo. Poi, senza alcuna spiegazione, l'ordine verrà revocato. "No more roses". La modella, la cover-girl, la pin-up, la prima playmate del mese di "Playboy" ‒ la cosa più esplosiva che si sia mai vista in costume da bagno ‒ non può essere una ragazza qualunque, neanche da morta. Non può essere la ragazza della porta accanto. Forse lo era, ma non lo è mai stata. C'era qualcosa, in lei, ma cosa? Aveva questo dono, quest'aura indecifrabile, ed è stato proprio questo strano enigma, a fare di lei una star. La leggenda, il mito, forse aveva soltanto bisogno di aiuto, banalmente. Ma non era facile aiutarla. Nessuno ha mai capito chi fosse veramente, lei per prima. 1926-1962. In trentasei anni è stata mille donne diverse, tranne che sé stessa.