Testimonianze - Marlon Brando
Marlon Brando
Il Novecento ha declinato una quantità di tipi umani molto diversi tra loro e tutti raffigurati con la massima nettezza di profilo nel cinema. Si può senz'altro dire che sia stato il cinema a fornire la più dettagliata e varia fisiognomica del secolo. Passeggiando lungo questa collezione, come si farebbe in una galleria di busti romani, notiamo come i ritratti virili siano tutti profondamente segnati dal male, dal suo influsso ossessivo come dalla sua altrettanto scandalosa assenza, e specialmente quelli provenienti dalla grande fabbrica di Hollywood: il male ignorato perché totalmente alieno (come il candore del volto da buon americano di Jimmy Stewart o la pura bellezza di Gary Cooper), il male come qualcosa che possiede l'uomo in ogni fibra e in lui si incarna senza residui (Edward G. Robinson), o infine il male come un nemico a cui si decide di resistere pur conoscendone il fascino, avendo frequentato, come ha scritto Pauline Kael, "entrambi i lati della legge" ma essendo abbastanza uomini per scegliere comunque di fare "la cosa giusta". È la posizione romantica di un Humphrey Bogart. Al male dunque ci si abbandona in un abbraccio diabolico, ci si oppone con un ghigno amaro di consapevolezza o semplicemente lo si abolisce come effetto indesiderato.L'arrivo sulla scena di Marlon Brando negli anni Cinquanta (qualcosa che dovette avere l'effetto di una vetrina sfondata da una motocicletta) scompaginò le categorie e l'assegnazione quasi automatica dei ruoli. Tutti i commentatori (ormai numerosi come gli esegeti della Bibbia) concordano nel descrivere il sentimento provocato dalle sue prime apparizioni: quello di trovarsi di fronte a un fenomeno di assoluta imprevedibilità. Una scala di emozioni apparentemente illimitata, come disse la sua maestra Stella Adler, messa al servizio di un fine abbastanza oscuro e che non poteva ridursi comunque alle esibizioni muscolari del brutale Stanley Kowalski, il ruolo che gli diede fama abbacinante e istantanea in Un tram che si chiama desiderio. Lo stesso Tennessee Williams che lo aveva creato pronosticò un'evoluzione o un lento distacco verso qualcosa di più classico: "dal polacco imbrillantinato passerai un giorno al tenebroso danese", intendendo dunque un percorso che dai bassifondi (della vita come della professione) conduceva all'altare di ruoli canonizzati. Ma la sua profezia risultò erronea e in questo scarto sta la differenza clamorosa tra Brando e, per esempio, un'altra grande icona di attore moderno: Laurence Olivier. E forse proprio una comparazione polare tra i due potrebbe tornarci utile: Europa e America, Shakespeare e Hollywood, l'aristocratica-servile dedizione al lavoro attoriale da un lato e le pigre sparate di disinteresse verso il mestiere dall'altro ("a parità di guadagno, se uno studio mi chiedesse di spazzare il pavimento invece che di girare un film, preferirei spazzare il pavimento").E però si comprende bene l'errore di prospettiva di Williams. Non rappresentava infatti Amleto il personaggio ideale in cui far fluire le risorse dell'attore che 'può fare tutto'?Qualità amletiche, dunque. Reazioni isteriche e adoranti nel pubblico. Sconcerto. Una minaccia sociale. Una bellezza maschile pericolosa. Ambiguità. Anche irritazione. E una sottile vena buffonesca che negli anni difficili doveva emergere e diventare una sorta di sigillo personale. Nessuno capì bene fin dove potesse spingersi il ragazzo superdotato e cosa in verità significassero le fantasiose etichette che gli vennero attribuite dalla stampa, tipo 'un lord Byron di Brooklyn', 'un Tom Sawyer creato da Dostoevskij', 'una Greta Garbo-uomo', tutte definizioni che brancolavano nel buio cercando di afferrare l'essenza di quella contraddizione, che poi, a ben pensarci, riassume in sé la più alta qualità del recitare: una totale assenza di controllo dominata da una perfetta capacità di controllo. Vera o inventata che sia, forse la più calzante descrizione del brivido provocato da Brando in scena e sullo schermo la diede un anonimo spettatore: "l'unico altro posto dove ho visto un tale cambiamento d'identità è il manicomio". La differenza stava nel fatto che quel giovane dava l'impressione di sapere perfettamente ciò che stava facendo.
Il contrasto è presente in modo plastico sin dal famosissimo ritratto che ne diede Truman Capote nel racconto, maligno quanto magistrale, The duke in his domain, tutto percorso da lampi di invidia fisica e morale, dove Brando viene descritto addormentato su un tavolo durante un intervallo delle prove, e il suo corpo muscoloso entra subito in una specie di conflitto ironico con le esibite aspirazioni intellettuali. Aveva "braccia da sollevatore di pesi, un torace da titano (anche se vi posava sopra, aperto, un volume delle Opere scelte di Freud)", e sembrava che "la testa di un estraneo fosse stata attaccata al corpo del ginnasta, come in certi fotomontaggi". Persino nel suo viso sembravano convivere due o più anime: "[...] vi scorgevi ‒ sovrapposte alla maschia bellezza ‒ una raffinatezza e una gentilezza quasi angeliche: pelle tirata, una fronte alta e ampia [...], naso aquilino, labbra tumide, un'impressione rilassata, sensuale".
Il giovane Brando ama far circolare immagini di sé noncuranti, depistanti e contraddittorie, falsi dati anagrafici ("nato a Bangkok, dove suo padre si trovava per effettuare ricerche zoologiche") e la recitazione diventa, come gli scrive la sorella Jocelyn, un "ottimo posto per nascondersi", cioè per custodire la sua identità moltiplicandola. Suona i bongos e legge Epitteto, Gibbon, Kant, Laozi, Nietzsche, Rousseau. Rimorchia una quantità impressionante di ragazze ma mai le stelle famose del suo ambiente. Comincia fin dall'inizio a emettere giudizi agghiaccianti e annoiati su Hollywood, "una cittadina di frontiera sulla terra del loto, governata dalla paura e dall'avidità", proclamando al tempo stesso la sua colpevole arrendevolezza al denaro. Intanto rifiuta una quantità tale di offerte che di lui si potrebbe scrivere una filmografia virtuale sicuramente più degna di quella effettiva. Guadagna rapidamente l'etichetta di slob, un eccentrico, un matto, un filosofo strambo, che ricevendo l'Oscar (per Fronte del porto del 1954) non trova di meglio che esclamare: "Ehi, ma è molto più pesante di quel che credevo!" e poi si perde la statuetta. Vive a New York in compagnia di un procione. Sui film che gira è a dir poco dismissivo. Il selvaggio: "Non l'ho voluto vedere". Desirée (dove interpreta Napoleone): "Ho lasciato che al mio posto recitasse il make-up". Insomma fa di tutto per meritarsi il giudizio infastidito dei moralisti, c'è chi lo definisce, peraltro senza un grammo di torto, uomo irrisolto, confuso, irritante: il che rappresenta la reazione o il risvolto psichico di ogni culto. In effetti non ci vuol molto a coglierlo in contraddizione, come accade e accadrà a qualsiasi altra star popolare, da Bob Dylan a Diego Armando Maradona.
"Qualunque cosa io dica o faccia, la gente tende a mitizzarmi".Va bene, ma mettendo da parte il mito, sullo schermo chi appare, o meglio, 'cosa' appare?Certamente appare il suo corpo, la sua schiena, attraverso la t-shirt lacerata, in cui Stella affonda le mani nella scena più famosa di Un tram che si chiama desiderio.La stessa schiena invecchiata e coperta di grasso e peli Brando la offrirà, venticinque anni dopo, a Jack Nicholson (ma prima di tutto all'esterrefatto spettatore) in Missouri. Si tratta di un gesto all'apparenza inspiegabile. Nudo, in una vasca da bagno, lo stravagante bounty-killer Lee Clayton si gira di spalle per lasciarsi colpire dal suo avversario. In verità, si esibisce. Indifeso. Osceno. Smisurato. Rende inutile il dialogo, lo cancella con un gesto sacrificale o ironico. La parola viene degradata ad accessorio.L'evidenza corporea è sempre e comunque minacciosa, scandalosa. Una pura presenza che prescinde dal patteggiamento delle parole. Nella sua carriera Brando l'ha sempre adoperata a pieno regime, consegnandosi 'per intero' alla visione, al modo, per così dire, di una Lezione d'anatomia fiamminga. Dove è però il proprio corpo a essere dissezionato. Crudelmente, freddamente. E forse è proprio a questo che alludevano i quadri di Francis Bacon nei titoli di testa di Ultimo tango a Parigi. L'esposizione di questa fisicità muta, atletica o cadente, risponde a un metodo che altrove Brando spiega con lucidità: "se mostro una reazione scarsa o inesistente, il pubblico cercherà di immaginarsi che cosa io stia sentendo". Non si tratta di un trucco ma di un principio artistico solidissimo e niente affatto nuovo, se Brando stesso lo rinviene in attori di vecchia scuola come Spencer Tracy, il quale appunto gli piace "per il modo in cui si trattiene, si trattiene... e poi scatta, per mettere a punto qualcosa". L'arte di trattenersi è una delle non poche cose che la recitazione condivide con l'eros o che fanno della recitazione un'attività seduttiva. Interpreti consapevoli prima di lui, Jean-Louis Barrault, Paul Muni, Cary Grant, tra i suoi pares l'amato Karl Malden, nelle generazioni seguenti Robert Duvall, Harvey Keitel: tutti attori che 'sanno quello che fanno'. E forse nutre una certa propensione verso Johnny Depp. In questo senso più delle esplosioni violente che lo caratterizzarono nelle interpretazioni giovanili (se rivediamo il trailer di Un tram che si chiama desiderio, sembra che non faccia altro che spaccare roba per tutto il film), più delle grida selvagge, conta un lavoro meno vistoso di sottrazione, di sospensione. Che infatti diventa memorabile nel cesellare una gestualità minore di cui ci rende conto solo sottraendola al volume complessivo del personaggio. Ancora una volta, dunque, un lavoro di scavo, di ritegno espressivo, realizzato in apparente economia mimica, che ci riporta a un'affermazione di Brando sull'impalpabilità del lavoro dell'attore: "recitare è una cosa così... così tenue [...], una cosa fragile, timida", pronunciamento tanto più singolare se accostato alle immagini di cruda fisicità di molti suoi film. E però Brando ha ragione. Forse il reale portato filosofico della sua arte si apprezza meglio nel dettaglio quasi insignificante: all'ombra del titanismo nevrotico dei suoi personaggi si rivelano, in una luce miniaturistica di eccezionale nitidezza, alcune semplici azioni quotidiane, attributi di un'umanità più vasta di quella raffigurata nel singolo ruolo: gesti puri e stilizzati, come accendersi un sigaro o spegnere una candela (Queimada), soffiare via schiuma da bagno (Missouri), spalmarsi il viso di crema o regolare un orologio (Riflessi in un occhio d'oro), imitare un gatto (Un tram che si chiama desiderio), cadere giù da una scrivania dopo essere stati picchiati (La caccia), insaponare i seni di una donna (Ultimo tango a Parigi). Incredibile come Brando si asciughi il collo in quel film peraltro tutto ciondolante che è The fugitive kind ‒ a buon diritto intitolato in italiano Pelle di serpente, vista l'insistenza morbosa su quella maledetta giacca di pitone. Persino il ruolo grandiosamente oscuro di Kurtz in Apocalypse now, già compresso in pochi minuti di quasi-buio (e destinato a inaugurare la serie di cameos perversi della sua terza età di attore), potrebbe ulteriormente ridursi a quelle noccioline sgusciate tra i denti, le bucce rispuntate a fior di labbra. E il famoso mumbling, il borbottio rasposo ‒ stavolta incontestabile, giustamente incomprensibile, liminare, situato oltre il linguaggio ‒ durante il coito o un istante prima di crollare morto in Ultimo tango.In queste scene lampeggianti eppure dissimulate nel corpo sodo della narrazione, Brando è ingaggiato in una recitazione privata, intima, a tu per tu con lo spettatore. In un rapporto di pura seduzione individuale, che ha qualcosa di assai onesto e puro se lo compariamo alle pose plateali del grande incantatore di masse che si vuole l'attore di cinema sia. Nella finzione cinematografica come nella vita, Brando evita accuratamente la retorica ingannevole del collettivo. "Non partecipa mai a una conversazione di gruppo" diceva un suo amico. "Deve sempre avere un colloquio intimo, tête-à-tête ‒ una persona alla volta". Così facendo può almeno temporaneamente dissolvere l'ingombrante magnetismo della sua presenza che polarizza gli sguardi e spesso sottrae peso ai suoi film (buona parte dei quali, peraltro, mediocri) riducendoli a piedistalli pretestuosi per pose da lottatore o da pensatore. Privato di stimoli, Marlon brancola, pencola, si sbatte pesantemente nella scena, si appoggia ai bordi del fotogramma come fossero gli stipiti di una porta, attraverso la quale rischia di non riuscire più a passare vista la sua mole, come si disse già all'epoca del flop chapliniano La contessa di Hong Kong, uno dei suoi film più imbarazzanti. E così annuncia ‒ nemesi inevitabile per l'eroe, vera replica delle fatiche di Ercole, le quali sono umilianti assai più che epiche ‒ il lungo periodo in cui questo attore tanto, troppo grande, non poteva trovare ruoli che non fossero la parodia di quelli già interpretati, quando infatti lo si vede comparire in improbabili commedie e filmetti psichedelici, truccato da giapponese, da nazista ossigenato o da guru capellone. Gli anni Sessanta sono un vero incubo per Brando e Brando diventa un incubo per l'industria del cinema, un poison che avvelena il botteghino, e non lo sottrae a questa eclissi nemmeno un bellissimo film quale Riflessi in un occhio d'oro, dove l'autocaricatura del maschio che egli era stato è di una sottigliezza dolorosa assoluta; o la grande prova misconosciuta in Queimada. Ma non poteva esserci altro destino, altra carriera per chi è larger than life, più grande della vita stessa (che pure, in quanto attore, è tenuto a impersonare!). Lo spiega perfettamente la sua migliore avvocatessa Kael, citando il filosofo locale Emerson: se sei un eroe, in America, "dovrai passare a lungo per un pazzo". A meno che tu muoia prima, aggiungiamo noi. Brando non è morto, per fortuna, però doveva essere professionalmente morto affinché gli venisse concessa l'occasione di risorgere. E questa occasione inaspettata era: la vecchiaia. Una vecchiaia che lo metteva al riparo dai raggi del suo mito, separandolo per sempre dal fulgore sensuale della gioventù, quando la luce lo amava e "splendeva attraverso di lui" (T. Williams). Aveva quarantotto anni quando diventò vecchio in un giorno, inventando lo strepitoso don Corleone. La cronologia nella carriera di Brando è qualcosa di più di un dato biografico, descrive le curve di una parabola morale. Gli spettatori possono percorrerla partendo da un punto qualsiasi e andare avanti e indietro o in entrambe le direzioni simultaneamente. Io, per esempio (che sono nato dopo Bulli e pupe e avevo quindici anni quando uscì l'ultravietato Ultimo tango e ne ricordo lo scalpore), ho giocoforza cominciato a vedere Brando sullo schermo quando era già avviato al declino fisico, l'ho conosciuto prima grasso e cadente e solo dopo, alla TV o nei cinema d'essai o in cassetta, l'ho osservato ringiovanire a vista d'occhio fino a tornare bellissimo, mentre nel frattempo continuavano a uscire nuovi film dove lui appariva (per cinque o dieci minuti, pagatissimi) sempre più vecchio, più irriconoscibile, e diabolicamente mercenario e bravo. Oggi possiamo guardare di seguito Il coraggioso e Il mio corpo ti appartiene, e ritrovare il medesimo Brando paralizzato in carrozzella, agli inizi e alla fine di una carriera, come in un quadro allegorico sulle età dell'uomo. Questo percorso invertito può forse dare qualche frutto. Avendo avuto la sorte generazionale di vederlo prima nella sua versione matura e parodistica, mi sembra di avvertire la medesima ironia nelle esplosive e sensuali apparizioni di gioventù, e di rintracciare (per es., in Il selvaggio o in I due volti della vendetta) una speciale consapevolezza che già si esprimeva sotto forma di una marcata estraneità al mondo. Quello del cinema, ma non solo. Tutto il mondo, piuttosto, l'universo intero con le sue regole e pretese. Brando non aderisce mai completamente alle richieste del ruolo e conserva un margine di indipendenza, marcandolo con una sorta di abulia, uno sguardo distratto, uno sbadiglio freddo di indifferenza mentre vengono dette le cose importanti, persino quando è lui stesso a dirle. Ciò che a prima vista sembra essere il rifiuto della produttività dell'industria emotiva che è il cinema, il ruolo della star ecc., in verità allude a qualcosa di molto più radicale e che forse si potrebbe chiamare demoniaco. Come se, insomma, Brando fosse Kurtz fin dall'inizio, un estremo e asociale e potenzialmente criminale (ovvero buffonesco) contestatore dell'ordine, ma che può esprimere il suo dissenso solo attraverso un distacco punteggiato di feroci esplosioni sopra le righe. Vedi appunto i ruoli sadici o pazzeschi interpretati in Il coraggioso o nell'ennesimo rifacimento di L'isola del dottor Moreau. Sono i suoi ultimi personaggi, filosofi che delirano sull'assenza di significato dell'universo ‒ più o meno. Ma a un livello più strettamente artistico, questa deliberata mancanza di adesione alle regole del gioco mondano gli permette ancora di creare tra sé e il 'lavoro', tra sé e la recitazione, una distanza, un cuscinetto d'aria, uno strato di vuoto e smarrimento, come se andasse fuori sincrono, o estraesse le parole non da un copione ma dal sacchetto della tombola, a caso, come facevano i surrealisti, con sovrana estraneità. Ovvero alla maniera singhiozzante eppure logica dei grandi improvvisatori del Novecento, Charlie Parker, Miles Davis, John Coltrane ‒ i suoi veri coetanei. Brando, letteralmente, non sa cosa dire. È comicamente arreso a non padroneggiare quel che affiora dalle sue labbra. Si espone a questa irresponsabilità, alla mancanza di un autore certo. Rende insicuri e tremanti attraverso la sua stessa insicurezza. La stramberia dei suoi comportamenti reali o recitati, mentre crea un sistema di attese e risposte del tutto nuovo nello spettatore, non smette di indicare quella vuota cassa di risonanza che circonda la nostra vita e staglia tutti i grandi personaggi letterari e cinematografici contro il nero del non-senso: l'aureola enigmatica di Evgenij Onegin come di Johnny Guitar.
Perciò è così interessante, nel suo caso, arretrare di un passo rispetto alla carriera per osservarne meglio i tempi, che costituiscono, appunto, l'arco di un perfetto roman philosophique. E sono almeno quattro, questi capitoli: la costruzione del mito all'epoca del fulgore giovanile, in parte dovuta a malintesi sociali e sessuali, all'effetto di una psicosi collettiva ‒ quindi gli anni della lotta parodistica con il sistema, quando appare chiaro che non ci sono né possono esserci ruoli adatti a lui e dunque 'si apre la caccia a Brando' come a un fantastico mostro, tutti lo cercano per ucciderlo ‒ poi quella specie di esilio nel nulla o pseudosilenzio in cui esplodono le fantastiche interpretazioni di Il padrino, Ultimo tango a Parigi (entrambi del 1972) fino all'apoteosi surreale di Apocalypse now (ricordo a New York, agosto 1979, la gente che sciamava sulla 42ª, alla fine della proiezione, senza parole, ammutolita...) ‒ e infine l'ultimo ventennio del 20° sec. che segna una modalità paradossale di spreco e concentrazione della propria bravura: apparizioni brevi o brevissime, spesso fulminanti, in film di ogni livello, l'uso provocatorio di aggeggi elettronici che gli risparmiano persino di imparare le battute a memoria, la definitiva metamorfosi fisica in un essere informe che non fa più nulla per nascondersi, un corpo insaccato in sé stesso capace di ispirare pietà, risate, orrore o rimpianto, insomma, una specie di tricheco macellato sulla neve. Solo una polmonite gli ha impedito di onorare una scrittura di quattro giorni, per il compenso di mezzo milione di dollari al giorno, nel deprecabile Scary movie 2, dove avrebbe parodiato il Max von Sydow prete di L'esorcista: eppure, al di là del connubio esosità più pigrizia, proprio in questo lampeggiante crepuscolo Brando sembra raccogliere il suo lascito di insegnamenti per una recitazione quintessenziale e stilizzata. Sono questi cameos i suoi Selected poems. Potrebbe ormai esprimersi pienamente Brando nell'ermetica leggerezza degli SMS telefonici. E non è per niente casuale, dunque, ritrovare la 'grande arte nel piccolo formato' degli spot pubblicitari, come quello recente per la Telecom, che è davvero l'epitome in 45 secondi di una lunga leggenda.
Naturalmente questo evento, che esce e spumeggia fuori dai confini di una storia del cinema e dello spettacolo, si potrebbe spiegare o almeno ragionevolmente ricondurre ai mutamenti sociali che incrinano la società statunitense fin dagli anni Cinquanta, l'esordio di Brando, e che egli ha significativamente accompagnato trascendendo il suo ruolo tecnico di intrattenitore, ora come eroe pop, ora come capro espiatorio di quella che potremmo chiamare 'sindrome della perdita di sicurezza'. L'idea di un pericolo, di una minaccia sentita oscuramente come esterna ma già penetrata tra noi ‒ appunto, la vicinanza con il male. Un male da sradicare, da marchiare con la lettera scarlatta. L'impero del male. Il male subdolo, contagioso. E proprio oggi, più che mai, la sua imprevedibilità, la sua inspiegabilità.L'evidente rottura dei codici spinse in tempi ancora molto puritani il regista Kazan ad affermare l'ambiguità erotica del suo attore favorito, "bisessuato come dev'essere ogni artista". Ecco, la parola 'sesso' circola nella letteratura inerente a Brando come probabilmente non è mai accaduto a nessun altro interprete in precedenza ma ancora più spesso ricorre il termine 'artista'. Strano per un attore che ritiene la sua professione nulla più che un esercizio di sopravvivenza. "La recitazione è la meno misteriosa delle arti. Tutti recitano [...]. Ogni volta che desideriamo ottenere qualcosa da qualcuno o vogliamo nascondere un fatto o fingiamo, stiamo recitando". Basterebbe questo per concludere che la recitazione è, al contrario, la più misteriosa e sottile tra le arti, proprio perché sembra così facile confonderla con la vita… con il ritmo interiore che il grande interprete possiede sin dall'inizio."Le ore di lavoro sono poche, la paga è buona e quando hai finito sei libero come l'aria", ha scritto Brando nella sua autobiografia. Il meglio di noi lo diamo a cinepresa spenta. Vista la sua ostinata ricerca di sprezzatura nell'arte e nella vita, forse non gli spiacerebbe essere ricordato con le parole semplici di Maria Schneider: "Ha begli occhi e una bella mente".