‘The Artist’: e il muto ritorna al futuro
Nell’anno del 3D, il trionfo agli Oscar del film di Michel Hazanavicius segna una inattesa riscoperta del cinema prima dell’avvento del sonoro. Anche Hugo Cabret di Martin Scorsese rende omaggio ai pionieri della macchina da presa nella Francia di fine Ottocento.
Quasi una sorta di ritorno del rimosso. O di improvvisa riscoperta del ‘fantasma’: dopo anni di snobistiche rimozioni e di colpevoli dimenticanze, il 2012 ha segnato la rinascita – energica e per molti versi inattesa – del cinema muto. Agli Oscar si sono scontrati due film legati fra loro da un rapporto quasi chiasmico: in The Artist il regista francese Michel Hazanavicius ha celebrato il cinema americano degli anni Venti, mentre in Hugo Cabret l’americano Martin Scorsese ha reso omaggio ai pionieri del cinema nella Francia di inizio Novecento e in particolare al genio proteiforme e prestidigitatorio di Georges Méliès. In apparenza ha vinto The Artist, aggiudicandosi cinque statuette, compresa quella per il miglior film. In realtà ad affermarsi è stato soprattutto il cinema delle origini – quello che lo studioso Noël Burch definiva ‘il lucernario dell’infinito’ – che si è imposto in entrambi i film, i due più importanti dell’anno, non solo come oggetto d’amore, ma anche come modello espressivo e comunicazionale. Operazione vintage? Effetto nostalgia? Non proprio. O, quanto meno, solo in parte. Perché The Artist e Hugo Cabret, in apparenza simili, in realtà prospettano modalità differenti di relazione con la storia e con il passato. The Artist costruisce un mondo in tutto e per tutto identico a quelli rappresentati nel cinema muto, e invita lo spettatore a vivere per un paio d’ore dentro quel mondo. Non ci sono suoni, nel mondo di The Artist. Non ci sono dialoghi, parole, colori. Ci sono le didascalie dentro il formato quadrato dello schermo.
Ma mancano i rumori. I sospiri. I sussurri e le grida. I bisbigli. I gemiti. I cigolii. Tutta la colonna sonora a cui siamo abituati tanto nel cinema contemporaneo quanto nella vita. L’attore Jean Dujardin interpreta un divo della Hollywood degli anni Venti, tutto sguardi ammiccanti e sorrisi seducenti, che si ritrova a dover fronteggiare l’avvento del sonoro e scopre suo malgrado che la nuova tecnologia tende inevitabilmente a emarginarlo. Lui non vuole passare al sonoro, si rifiuta. Anche Charlot la pensava così. Riteneva che dal passaggio al sonoro avrebbe avuto più da perdere che da guadagnare. Infatti Chaplin passò al sonoro, ma Charlot no. Il protagonista di The Artist non sa bene cosa fare.
E Dujardin dà vita al suo disorientamento con i gesti del muto, ma con il ritmo e la sensibilità di oggi. Il risultato è un film che ambisce a essere musica per gli occhi. Solo musica, senza parole: un grande atto d’amore per la forza, la potenza e la bellezza delle immagini del cinema delle origini. Immagini che non hanno bisogno di altro per essere seducenti ed espressive.
Ben diversa invece l’operazione messa in atto da Martin Scorsese con Hugo Cabret: qui, nel rendere omaggio a Georges Méliès e alla sua idea di cinema come meraviglia, non c’è alcuna nostalgia. La nostalgia implica il desiderio di un ritorno, è il rimpianto per qualcosa che si teme di avere definitivamente perduto. È la percezione di una mancanza.
Al contrario, l’ultimo film di Martin Scorsese inscena caso mai la presentificazione di un’assenza. È come se Scorsese cercasse e trovasse nella memoria del cinema delle origini tutta la tensione necessaria per scaricare energia nel cinema di oggi, in quel che il cinema sta diventando e potrebbe diventare. Così, Scorsese usa le tecnologie digitali contemporanee in modo analogo a quello con cui i ‘maghi’ del cinema delle origini costruivano le loro mirabolanti ‘attrazioni’. A quasi settant’anni, Martin Scorsese ha il coraggio di mettersi in gioco con un film in cui il 3D – per la prima volta – non è solo un gadget opzionale o un barocchismo tecnologico ma una necessità estetica ed espressiva, esattamente come lo erano i trucchi e le féeries del cinema di Méliès.
Nell’anno in cui il cinema avverte come mai in precedenza la vertigine della propria mutazione digitale, non è un caso che cerchi nella propria memoria – e forse perfino nella propria archeologia – una concreta possibilità di ritorno al futuro.
I premi Oscar
The Artist
■ Migliore film (Thomas Langmann)
■ Migliore regia (Michel Hazanavicius)
■ Migliore attore protagonista (Jean Dujardin)
■ Migliori costumi (Mark Bridges)
■ Migliore colonna sonora (Ludovic Bource)
Hugo Cabret
■ Migliore fotografia (Robert Richardson)
■ Migliore scenografia (Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo)
■ Migliore sonoro (Tom Fleischman, John Midgley)
■ Migliore montaggio sonoro (Philip Stockton, Eugene Gearty)
■ Migliori effetti speciali (Ben Grossmann, Alex Henning)
Il gioco delle citazioni
Numerosi sono i riferimenti alla storia del cinema contenuti nel film di Michel Hazanavicius, e non stupisce che molti critici si siano sbizzarriti nella ricerca delle citazioni, più o meno implicite. C’è anzitutto il riferimento a Chaplin/Charlot, a cui si ispira la vicenda del protagonista, ‘intrappolato’ in un universo filmico senza voce, ma non meno significativi sono i richiami ad altre figure e momenti del cinema americano. Se la mimica facciale di Jean Dujardin sembra ricalcare espressioni e pose di Clark Gable in Gone with the Wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming, la vicenda del suo personaggio rievoca il tema del declino della star, magistralmente svolto da Billy Wilder in due capolavori, The lost weekend (1945; Giorni perduti) e Sunset Boulevard (1950; Viale del tramonto). Analogamente, il personaggio femminile di Peppy Miller in The Artist contiene un duplice rimando, al film A star is born (1937; È nata una stella) di William A. Wellman e alla vicenda biografica di Mary Pickford (nome d’arte dell’attrice Gladys Louise Smith), la ‘ragazza della Biograph’, la cui fortuna nacque nel periodo del muto, per declinare in quello del sonoro. Quanto al delizioso cagnolino Uggy, fedele amico del protagonista di The Artist, il suo ruolo ricorda molto da vicino quello che De Sica affidò a Fluke, in Umberto D. (1952). Senza dimenticare, ovviamente, la citazione conclusiva, forse la più esplicita e rivelatrice, a Singin’ in the rain (1952; Cantando sotto la pioggia), il celebre film di Stanley Donen e Gene Kelly.