The Big Lebowski
(USA 1998, Il grande Lebowski, colore, 117m); regia: Joel Coen; produzione: Ethan Coen per Working Title; sceneggiatura: Ethan Coen, Joel Coen; fotografia: Roger Deakins; montaggio: Roderick Jaynes [Joel ed Ethan Coen], Tricia Cooke; scenografia: Rick Heinrichs; costumi: Mary Zophres; coreografie: Bill Landrum, Jacqui Landrum; musica: Carter Burwell.
Oblomov della West coast, uomo sotto acidi e senza qualità, scheggia di una sottocultura cascata nel dimenticatoio, Jeffrey Lebowski è "forse il più pigro di tutta la contea di Los Angeles, il che lo mette in competizione per il titolo mondiale dei pigri". Tanto per cominciare, nessuno lo chiama Lebowski, ma Dude, ossia 'tizio' (il doppiaggio italiano, scegliendo 'drugo', evoca senza ragione i teppisti ultraviolenti di A Clockwork Orange). Indossa bermuda hawaiani, magliettona larga, sandali e occhiali da sole. Le sue attività si riducono a una sporadica puntata al supermercato, per acquistare gli ingredienti necessari al white russian (1/4 di kahlua, 2/4 di vodka, 1/4 di latte); all'indispensabile spinello, da fumarsi fino in fondo con le adeguate pinzette, immersi nella vasca da bagno o stesi sul kilim (i cui disegni agevolano il trip psichedelico); e la sera a trascinarsi al bowling, dove lo aspettano Walter ‒ che ha fatto il Vietnam, si è convertito all'ebraismo, ha un cane col pedigree e conosce sempre la linea da non oltrepassare ‒ e Donny ‒ che a parte garantire gli strike non capisce mai niente. Siamo all'inizio degli anni Novanta, Saddam ha invaso il Kuwait, ma Bush appare in televisione e promette che "quest'aggressione non sarà tollerata". Intanto, in casa di Dude irrompono due scagnozzi inviati da Jackie Treehorn, un produttore di film porno: cercano il 'grande' Lebowski, perché saldi il debito contratto dalla moglie, un'ex coniglietta che ovviamente risponde al nome di Bunny. Meno ovvio l'errore di omonimia: ha un bel dire, Dude, che Bunny non l'ha mai vista, che il grande Lebowski dev'essere un altro, che lui è Dude, quello che gioca a bowling. Forse i sottopancia di Treehorn gli credono, forse no. Fatto sta che già che ci sono prendono la testa di Dude e la ficcano nel water. E fin qui passi. Poi però orinano sul tappeto, che "dava un tono all'ambiente". E questo no, questo è troppo, è un'aggressione che non sarà tollerata. Ecco che a Dude tocca alzare la testa, inforcare gli occhiali da sole e tentare di sciogliere la matassa, e pazienza se è troppo aggrovigliata, o se non c'è nessuna matassa da districare. Lui ci prova comunque, con il solerte e catastrofico aiuto di Walter ‒ la cui esperienza nella giungla vietnamita può sempre tornare utile, tranne il sabato, ché con la religione non si scherza ‒ e di Donny ‒ che ce la mette tutta ma proprio non capisce niente. Nelle loro avventure, i tre incontrano il grande Lebowski, un miliardario senza un soldo e sulla sedia a rotelle, una banda di rapitori senza ostaggio (però nichilisti, quindi cattivissimi, perché "non credono a niente"), una borsa di mutande sporche sostituita a una valigia piena di dollari (vale a dire di elenchi telefonici), un mignolo laccato di verde: il tutto ritmato da doverosi allenamenti al bow-ling, per esser pronti il giorno delle semifinali, contro quel pedofilo pervertito di Jesus Quintana. Alla fine, Donny fallisce il suo strike e muore d'infarto (purtroppo l'elicottero promesso da Walter non arriverà, dev'essersi perso da qualche parte tra Saigon e Beverly Hills), mentre Dude si ritrova padre suo malgrado, incastrato da un'eccentrica artista 'vaginale'. Ma il nostro Marlowe in bermuda ha imparato un paio di cose: tanto per dirne una, non c'è fumo senza fumo. E tutto quel che luccica non è oro, ma una palla da bowling rotolante. Fortuna infatti che i birilli sono ancora in piedi, ad aspettare, pronti per la semifinale.
Settimo film di Joel ed Ethan Coen, The Big Lebowski declina instancabilmente la figura della sfera, più genericamente di tutto ciò che rotola, gira su se stesso. Il bowling è lo spazio ideale di una geometria poetica che alberga una popolazione di perdenti, quasi tutti panciuti. Nel caleidoscopio di bocce, birra e birilli si forma una sorta di dimensione parallela che gira al rallentatore (anche nel senso letterale del termine), agonia entropica che assicura alle proprie creature il minimo movimento indispensabile prima della stasi definitiva: un surrogato dell'Eden, paradiso da commedia musicale alla Busby Berkeley, dove Dude potrà finalmente confondersi con la boccia stessa (Dio o monolito kubrickiano?). Immerso in una temporalità azzerata, il quotidiano ripetitivo di Dude è interamente occupato da esercizi di pigrizia, di acedia, e tale performance diventa il vero soggetto del film, contaminando e sabotando la già esile trama chandleriana. Ma più che al noir degli anni Quaranta, The Big Lebowski si rifà con insistenza a The Long Goodbye di Robert Altman, con Elliott Gould nei panni di un eterodosso Marlowe più preoccupato della scomparsa del gatto che della soluzione di enigmi sempre più degradati a cliché, mentre Dude cerca per tutto il film di ritrovare il suo kilim. Poco importa se la sua ricerca gira a vuoto, per approdare a un malinconico nulla; ai Coen basta che sia un nulla preciso. E comunque, si ha un bel scivolare, rotolare su una superficie rutilante e liscia come l'olio, il reale riuscirà sempre a impigliarsi al movimento, come la polvere e la sabbia che il tumbleweed (cespuglio globulare spinto dal vento del deserto californiano) trascina con sé appesantendosi lungo il cammino. O come le ceneri di Donny, che un vento contrario e maligno spolvera sul volto barbuto di Dude e sui suoi occhiali da sole.
Interpreti e personaggi: Jeff Bridges (Jeffrey Lebowski, 'The Dude'), John Goodman (Walter Sobchak), Julianne Moore (Maude Lebowski), Steve Buscemi (Donny), David Huddleston (The Big Lebowski), Philip Seymour Hoffman (Brandt), Tara Reid (Bunny Lebowski), John Turturro (Jesus Quintana), Ben Gazzara (Jackie Treehorn), David Thewlis (Knox Harrington), Sam Elliott (lo straniero), Jon Polito (investigatore privato), Jack Kehler (proprietario dell'appartamento di Dude), Peter Stormare, Flea, Torsten Voges, Aimée Mann (nichilisti).
'The Big Lebowski': The Making of a Coen Brothers Film, a cura di T. Cooke, New York 1998.
V. Ostria, Bouvard sans Pécuchet, in "Cahiers du cinéma", n. 523, avril 1998.
J. Romney, In Praise of Goofing Off, in "Sight & Sound", n. 5, May 1998.
M. Fadda, B. Fornara, The Big Coen, in "Cineforum", n. 374, maggio 1998.
V. Buccheri, Joel e Ethan Coen, Milano 1999.
F. Marineo, Il cinema dei Coen, Alessandria 1999.
A. Scicchitano, Man of the Year: il cinema dei fratelli Coen, in "Cinecritica", n. 21, gennaio-marzo 2001.
Sceneggiatura: The Big Lebowski, Paris 1998.