The Docks of New York
(USA 1928, I dannati dell'oceano, bianco e nero, 90m a 22 fps), regia: Josef von Sternberg; produzione: Famous Players-Lasky/ Paramount; soggetto: dal racconto The Dock Walloper di John Monk Saunders; sceneggiatura: Jules Furthman; fotografia: Harold Rosson; montaggio: Helen Lewis; scenografia: Hans Dreier.
Bill Roberts, rude fuochista imbarcato su una nave che fa scalo a New York, scende a terra con l'idea di bere e divertirsi. Sulla banchina trova Sadie, ragazza disperata che cerca di annegarsi, la acciuffa al volo e la porta con sé in una bettola, dove, completamente ubriaco, la sposa, con un matrimonio notturno celebrato da un prete dei bassifondi. Durante la notte, mentre Bill dorme stroncato dall'alcol, un marinaio tenta di violentare Sadie; sopravviene la moglie, e lo uccide. Il mattino seguente Bill parte per reimbarcarsi, apparentemente indifferente a un matrimonio contratto in stato di incoscienza, matrimonio che invece Sadie sembra considerare sacro. Sale sulla nave, sembra ripensarci, si butta in mare e raggiunge terra, dove trova Sadie trascinata in tribunale per il furto dell'abito da sposa. Bill si assume la colpa, viene condannato e si prepara a scontare due mesi di carcere: "Sessanta giorni non sono una lunga crociera, baby"; Sadie, serena, si dispone all'attesa: "Credo che ti apetterò per sempre, Bill".
The Docks of New York non è solo generalmente considerato il miglior film muto di Josef von Sternberg, ma uno dei film che portano a definitivo compimento le possibilità espressive dell'intero cinema muto, al pari di opere come Sunrise di Friedrich W. Murnau o La Passion de Jeanne d'Arc di Carl Th. Dreyer. Il porto è qui metafora delle relazioni umane, come sarà anche nei futuri capolavori francesi del realismo poetico firmati da Marcel Carné e Jacques Prévert (che von Sternberg ha profondamente influenzato): partenze e ritorni sono dominati da forze al di fuori del controllo umano, e il contatto emotivo tra esseri umani appartiene solo all'effimero, al provvisorio, con accenti talora brutali.
Dal punto di vista visivo, il film fa pensare a un'acquaforte di Hogarth: dominano la luce e l'ombra dell'atmosfera portuale, le cupe sale macchine delle navi a vapore dove i fuochisti sembrano personaggi mitologici, anneriti e straziati dal lavoro inumano. Il mare è immagine di un'esistenza che offre ben poche possibilità, e nessun legame permanente. La messinscena sternberghiana è così descritta da un commentatore attento come Herman G. Weinberg: "Uno sporco vapore da carico attraccato alla banchina, i saloni invasi dal fumo, le scale esterne in legno che conducono alle cabine del ponte superiore, con prostitute da poco prezzo, la sala macchina nel ventre della nave abitata dai corpi lustri di sudore degli uomini vicini alle caldaie, le facce sudate di chi lavora davanti al carbone incandescente e guarda verso la costa che, per loro, vuol solo dire birra gelata e le morbide braccia tentatrici delle ragazze dei bordelli… tutto questo reso in una fotografia di massima intensità chiaroscurale". Sembrerebbe un'apoteosi di realismo. Al contrario, è un essenziale paradosso il fatto che von Sternberg abbia prodotto questa seducente finzione di realtà abbandonando ogni presupposto di realismo. Quella profondità di sfumature del bianco e nero, quella sensualità del movimento potevano esser controllate solo in studio: esattamente come von Sternberg più tardi ricostruirà in studio la sua Shangai (Shanghai Express, 1932; ma anche il più perverso e delirante The Shanghai Gesture ‒ I misteri di Shangai, 1941) e il suo Marocco (Morocco ‒ Marocco, 1930), qui crea una Hoboken più 'vera' della vita, città portuale dove luce e oscurità, come in un campo di battaglia, si contendono il mondo. Lo Sternberg gesture si manifesta, in questo suo ultimo film muto, come uno splendore miracoloso e sommesso. Del tentativo di suicidio di Sadie, nella sequenza d'apertura, vediamo solamente un riflesso che scompare: ognuno, in questo gioco di speranza e disperazione, è una specie di suicide passenger o potenziale suicida, e von Sternberg sa come dirlo senza più concessioni al naturalismo, alla 'credibilità psicologica' o a qualsiasi esigenza di realismo. Creature elementari, elementali (lui è l'uomo del fuoco, lei la donna dell'acqua), Bill e Sadie non hanno storia né passato, si oppongono e attraggono in una luminosa metafisica dualità.
Protagonista maschile di The Docks of New York è l'attore allora prediletto da von Sternberg, George Bancroft potente come un toro, già al centro del film precedente del regista, Underworld (Le notti di Chicago, 1927) come pure sarà del successivo, Thunderbolt (La mazzata, 1929). La concretezza che Bancroft dà al personaggio, la lentezza pesante dei suoi movimenti, risultano decisive nel delineare la tensione fondamentale che percorre il film: la tensione tra l'erotico e il sociale, indistricabili tra loro perché non è possibile separare i dati essenziali dell'esperienza umana. Al centro di questa visione aspra, conflittuale, prende forma un'immagine malinconica, la nostalgia di qualcosa di perduto ma forse ancora possibile ‒ solo un vago barlume, perché l'ambiente e l'eroe sono, fino alla fine, così duri, così poco nobili. Proprio qui palpita il cuore segreto di The Docks of New York: in un mondo 'falso' in cui tutto è così apertamente pura illusione, in un racconto nel quale inganno ed equivoco sembrano le passioni dominanti, lo spazio d'una nuova fiducia e magari d'un amore sublime può ancora aprirsi tra individui concreti.
Interpreti e personaggi: George Bancroft (Bill Roberts), Clyde Cook ('Sugar' Steve), Betty Compson (Sadie), Mitchell Lewis (Andy, ufficiale di macchina), Olga Baclanova (Lou), Gustav von Seyffertitz ('Hymn Book' Harry), Guy Oliver (arruolatore), May Foster (moglie dell'arruolatore), Lillian Worth (ragazza di Steve).
Con., Docks of New York, in "Variety", September 19, 1928.
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