The Man Who Would Be King
(USA/GB 1975, L'uomo che volle farsi re, colore, 129m); regia: John Huston; produzione: John Foreman per Persky-Bright/Devon/Columbia/Allied Artists; soggetto: dall'omonimo romanzo di Rudyard Kipling; sceneggiatura: John Huston, Gladys Hill; fotografia: Oswald Morris; montaggio: Russell Lloyd; scenografia: Alexandre Trauner; costumi: Edith Head; musica: Maurice Jarre.
Sul finire del 19° secolo, gli ex sottufficiali Peachy Carnehan e Daniel Dravot intraprendono un viaggio in Kafiristan con l'intenzione di fare fortuna. Dopo essere scampato alla morte nel corso di una sfortunata spedizione, Dravot viene considerato dagli indigeni un essere divino e per qualche tempo sfrutta, insieme a Carnehan, i vantaggi che questa sua presunta condizione gli concede. Ma quando decide di sposarsi con una nobile, Roxanne, gli indigeni scoprono che non si tratta di una divinità e lo uccidono. Carnehan fugge a Lahore portando con sé la testa mozzata di Davrot, e qui racconta la propria storia a Rudyard Kipling.
Apparso in un momento in cui l'avventura esotica sembrava ormai appartenere al passato, messa in disparte in attesa di estinzione da un mondo che non lasciava più spazio a quel tipo di fantasia, The Man Who Would Be King occupa un posto singolare all'interno del suo macrogenere: si tratta quasi di una fantasmagoria, ulteriormente accentuata da una qualità fotografica non frequente nel cinema di quegli anni (opera di Oswald Morris) e dall'interpretazione di Michael Caine e Sean Connery, che si discosta dal registro naturalistico tipico del cinema americano dell'epoca. I due attori ricorrono a una mimica che si pensava ormai perduta nel territorio dell'avventura, in attesa che la clamorosa comparsa dell'archeologo Indiana Jones restituisse importanza e sfumature mitologiche persino a un cappello, a una giacca da cacciatore e a una frusta.
Il film si rifà ai classici con spirito giovane, ma lo sguardo è quello di occhi ormai stanchi. Il classicismo dell'avventura risplende nell'itinerario, fisico e morale, compiuto dai due protagonisti; si tratta del racconto di un'esperienza, alla maniera delle tradizionali storie di iniziazione, esperienza nel corso della quale la coppia formata da Peachy Carnehan e Daniel Dravot si addentra in terre che sembrano davvero remote, mentre il pericolo e la minaccia della morte si abbattono su di loro in modo fisico e non in forma astratta: i due soffrono, sudano, si stancano, il loro timore e la loro euforia sono palpabili. The Man Who Would Be King si distingue dunque dai film di avventura realizzati successivamente per il fatto che non trasmette quella (talora fastidiosa) sensazione di gioco, né risulta sovraccarico di ammiccamenti (benché non sia privo di senso dell'umorismo), come avviene invece nei film di Indiana Jones, in Romancing the Stone (All'inseguimento della pietra verde, Robert Zemeckis 1984) o in Cutthroat Island (Corsari, Renny Harlin 1995). Qui la vicenda sembra invece vissuta con coraggio e sofferenza da due uomini che davvero rischiano la vita e pongono in gioco il loro futuro.
Ma è giusto riconoscere che l'esito felice del film va attribuito in buona parte allo splendido racconto di Rudyard Kipling. A differenza di quanto abitualmente avviene negli adattamenti cinematografici di opere letterarie, dove prevalgono la sintesi e l'eliminazione di alcuni elementi, John Huston e la cosceneggiatrice Gladys Hill trasformarono un'opera breve in un film di oltre due ore, arricchendola forse ancor più del necessario. Uno dei loro apporti personali risulta particolarmente riuscito e in linea con il tono generale del racconto: l'immagine dei sacerdoti, chiamati 'uomini santi' dai kafiri, che camminano a occhi chiusi perché non vogliono vedere la malvagità del mondo, cosa che costringe i contendenti a interrompere una battaglia al loro passaggio. Per il resto i protagonisti sono personaggi picareschi, dotati di un loro particolare codice d'onore, che vivono grazie all'imbroglio, al furto e all'estorsione, e in Kipling si autodefiniscono uomini che hanno fatto praticamente di tutto: gli operai, i marinai, i soldati, i correttori di bozze, i corrispondenti per un giornale, i fotografi e i predicatori ambulanti. La differente ampiezza del racconto e del film deriva anche dal fatto che la narrazione di Huston, pur risultando più parsimoniosa nei momenti riempitivi (battaglie, cerimonie degli indigeni), descrive con passione contemplativa alcuni paesaggi, come quello che fa da sfondo al viaggio verso il Kafiristan. L'uso dello zoom e del teleobiettivo, segni formali del cinema anni Settanta, offusca talora la bellezza di alcune sequenze ben costruite (il viaggio sulle montagne, la morte di Dravot sul ponte sospeso mentre intona una canzone accompagnato da Carnehan) e toglie respiro ai paesaggi. Pur essendo un ottimo film, The Man Who Would Be King soffre anche d'eccessiva lunghezza, mentre un'avventura non dovrebbe mai risultare faticosa, tanto più se è appassionante come questa. Memorabili sono comunque le immagini dei due amici che, circondati dai precipizi e bloccati dalla neve, credono che quella sia la loro ultima notte, lasciano che il falò si consumi e affrontano ridendo la loro dipartita dal mondo; la sequenza dello scontro con i banditi (sul quale si proietta il ricordo di The Treasure of the Sierra Madre ‒ Il tesoro della Sierra Madre, John Huston 1948); la scoperta dei grandi fantocci costruiti dai kafiri; la panoramica che mostra i cadaveri e le grottesche maschere degli uomini che hanno aggredito le lavandaie indigene. Un'invenzione formale soprattutto lascia intuire con rimpianto quel che avrebbe potuto essere il film, se il suo tono dominante fosse stato questo: quando Dravot e Carnehan trovano il tesoro custodito dai sacerdoti nel tempio e percorrono la stanza ammirando l'oro e le pietre preziose, i tipici controcampi di ciò che vedono acquistano qui un significato diverso da quello abituale. Non è solo l'emozione della scoperta, o la cupidigia occasionata dalla vista; in The Man Who Would Be King è evidente che lo sguardo dei due personaggi risponde alla potente attrazione che li ha condotti fin lì, e protagonista di questa scena stregata diventa non tanto la reazione dei protagonisti, quanto lo stesso richiamo fisico esercitato dall'oro.
Interpreti e personaggi: Sean Connery (Daniel Dravot), Michael Caine (Peachy Carnehan), Christopher Plummer (Rudyard Kipling), Saeed Jaffrey (Billy Fish), Shakira Caine (Roxanne), Karroum Ben Bouih (Kafu Selim), Jack May (governatore), Doghmi Larbi (Ootah), Mohammed Shamsi (Babu), Paul Antrim (Mulvaney), Albert Moses (Ghulam), Yvonne Ocampo, Nadia Atbib (ballerine).
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