The Misfits
(USA 1960, 1961, Gli spostati, bianco e nero, 125m); regia: John Huston; produzione: Frank E. Taylor per Seven Arts/United Artists; sceneggiatura: Arthur Miller; fotografia: Russell Metty; montaggio: George Tomasini; scenografia: Stephen Grimes, William Newberry; costumi: Jean-Louis; musica: Alex North.
In soggiorno temporaneo a Reno, nel Nevada, per le pratiche del suo divorzio, Roslyn, sconsolata showgirl di Chicago, fa amicizia con Gay, maturo cowboy a mezzo servizio, con il suo socio Guido, meccanico ex pilota di guerra, e più tardi con Perce, cowboy da rodeo. Ciascuno dei tre uomini ha con lei un rapporto diverso: nel giovane Perce, amante del rischio con inclinazioni autodistruttive, è comprensione e sintonia di sensibilità; in Guido, 'macho' loquace di colori hemingwayani, è semplice desiderio di possesso; nel più laconico Gay è affetto corrisposto, bisogno di protezione per lei, necessità di stabilità casalinga per lui. Ognuno ha un'infelicità da nascondere: la madre di Perce si è risposata; Guido si sente colpevole per la morte della moglie; Gay ha perso contatto con i figli. Quando vanno a caccia di mustang, da catturare col laccio e vendere a peso per farne carne in scatola per cani, Roslyn si ribella, accusando gli altri di insensibilità, cinismo, spregevole pretesa di essere uomini liberi. Il rozzo Guido non le bada, ma Perce l'aiuta a slegare i cavalli catturati. Dopo aver domato a fatica uno stallone, Gay lo libera. Roslyn e Gay se ne vanno insieme.
Si fa presto a dire che The Misfits è un film di Arthur Miller più che di John Huston. Si fa presto a dire che lo si ricorda come l'ultimo film di Clark Gable (che morì undici giorni dopo la fine delle riprese) e di Marilyn Monroe, più che per il suo intrinseco valore. Sono due mezze verità complementari, entrambe ingenerose. È vero che quella di The Misfits fu la prima, e l'ultima, sceneggiatura di Miller e che partendo dal racconto The Mustangs (pubblicato da "Esquire" nel 1955 e frutto di un suo soggiorno a Reno per accelerare le pratiche del divorzio dalla donna che gli aveva dato due figli) l'aveva scritta su misura per Marilyn Monroe. È anche vero che, dopo aver dato la misura del proprio talento di commediante in Some Like It Hot, Marilyn contava di trovare in Roslyn il trampolino di lancio come attrice drammatica e che, pur seriamente malato di cuore alle soglie dei sessant'anni, Clark Gable accettò la parte con la convinzione che fosse una delle migliori della sua carriera. Quando alla fine del luglio 1960 cominciarono le riprese, con un programma di dodici settimane, il matrimonio Miller-Monroe era in crisi e l'attrice in penose condizioni psicofisiche, tali da renderne urgente il ricovero, in una clinica di Los Angeles, che interruppe la lavorazione per due settimane. Soltanto il self-control di Huston, il suo sereno disprezzo per i dilettanti e i nevro-tici (tra i quali c'era Montgomery Clift che, però, si com-portò con disciplina ammirevole), la sollecitudine di Miller che trascorse tutto il periodo sul set, riuscirono a contenere i guasti. Il che non impedì che The Misfits venisse a costare quattro milioni di dollari (del 1960), procurandosi l'etichetta di più costoso film in bianco e nero della storia di Hollywood. Fu forse un'iperbole giornalistica. Quando uscì, ebbe accoglienze critiche tiepide, nemmeno una nomination agli Oscar e un successo di pubblico inferiore alle attese.
Miller è un intellettuale sedentario, scrittore di città, cittadino di Broadway; Huston un regista viaggiatore, transfuga di Hollywood. The Misfits appare oggi, col senno e la prospettiva di poi, uno dei film più hustoniani che Huston abbia mai diretto. Secondo lui, il tema di fondo riguarda l'ambiente, quel che la civiltà fa per deturparlo e la vita di chi lo abita. È una trenodia sulla vita dei cavalli, in una società dove i cani hanno finito per mangiarli. Ed è, ancora una volta, la storia di una piccola comunità di sbandati. 'Misfits' sta per spostati, disadattati, ma, secondo Huston, anche per holdouts, ossia resistenti, ribelli all'omologazione. Sono personaggi dominati da un mito, la libertà ‒ o l'individualismo? ‒ il cui primo corollario è la volontà di indipendenza dalla società, dalle sue leggi, costrizioni, tabù. Con questo quartetto Miller traccia un'analisi del malessere della società americana e della crisi dell'istituto familiare, analisi che talvolta diventa una patetica meditazione sulle difficoltà della vita di coppia. La singolarità del film consiste in un transfert: Miller sposta problemi, inibizioni, frustrazioni che sono degli americani di città tra la gente della prateria, tra quei cowboy che, ancora nel 1960, grazie al concorso dell'industria culturale incarnavano alcuni miti del Nord America: libertà, indipendenza, vagabondaggio, amore per la natura e gli spazi aperti, gusto dell'avventura e del rischio, competizione. Ma la loro è un'illusione: possono essere o illudersi di essere quelli di una volta, ma i tempi sono cambiati, il mondo è inevitabilmente diverso.
The Misfits è anche un ritratto obliquo di Marilyn Monroe, che Miller ha disegnato dal vivo e che Huston trasforma in un documentario sull'attrice nel senso in cui À bout de souffle è un documentario di Godard su Belmondo. Talvolta nei primi piani di Marilyn traspaiono le ombre, i segni, i guasti con cui la nevrosi ha macchiato il fulgore dei suoi trentaquattro anni. Qua e là la verbosità di Miller irrita e più di una volta il lirismo dei dialoghi sfiora il kitsch più bieco: "Il tuo sorriso ‒ dice Gable alla Monroe ‒ è come il sorgere del sole…". Ma lo spartito di Miller ha in Huston, direttore d'orchestra né timido né ossequiente, un'esecuzione di grande finezza. Con un ricorso insistente al primo e al primissimo piano e la mobilità delle cinepresa, sta addosso agli attori con scioltezza ammirevole. Nella partita finale di caccia ai cavalli, dove The Misfits diventa la lirica accensione di una metafora sulla metamorfosi di un mondo, Huston trova lo stato di grazia stilistica dei suoi film migliori. La metafora non è limpida, ma la forza del suo impatto visivo è inconfutabile. E le parole finali di Gay ("Dirigiti verso quella grande stella… ci riporterà a casa") sono il suggello di un'altissima retorica. Tutto il film, d'altronde, acquista retrospettivamente l'inquietante fascino di un giuoco della verità in cui è difficile discernere il confine che separa la realtà dalla sua finzione, la vita dalla sua rappresentazione. La separazione della Monroe da Miller, preludio della tragica fine dell'attrice di due anni dopo, è iscritta in filigrana nel film e nella sua struggente malinconia.
Interpreti e personaggi: Clark Gable (Gay Langland), Marilyn Monroe (Roslyn Taber), Montgomery Clift (Perce Howland), Eli Wallach (Guido Delinni), Thelma Ritter (Isabella Steers), James Barton (vecchio del bar), Estelle Winwoode (signora nella chiesa), Kevin McCarthy (Raymond Taber).
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Sceneggiatura: in "Film Script", 3° vol., a cura di G.P. Garrett, O.B. Hardison, New York 1989.