MORE, Thomas (Tommaso Moro)
Nato a Londra il 7 febbraio 1478, dal giudice John, a 13 anni andò presso il cardinale John Morton, arcivescovo di Canterbury; poi, dai 14 ai 18 anni, studiò a Oxford, specialmente il greco, che rimase sempre la sua passione di studioso; e finalmente, dal 1496, attese agli studî di legge. Entrato così nell'avvocatura, nel 1501, si fece rapidamente un nome per l'acume d'ingegno e la solidità di dottrina apportati nell'esercizio della professione; e perciò gli si aprì anche la via delle cariche politiche, per cui, da membro della camera dei comuni nel 1504, da vicesceriffo di Londra nel 1510, diveniva nel 1518 membro del Consiglio privato, nel 1520 tesoriere dello Scacchiere: diveniva figura cioè di primo rilievo nella corte di Enrico VIII.
Tuttavia, più che nell'attività professionale, più che nelle stesse cariche pubbliche, il M. trovava la sua vera vita negli studî e nella conversazione con gli amici umanisti. Amicissimo di John Colet, canonico e suo confessore, ma soprattutto umanista e importatore, in Inghilterra, delle dottrine di Pico della Mirandola; amico specialmente, per tutta la vita, di Erasmo da Rotterdam, che in casa sua scrisse l'Encomium Moriae, e che gli rimase sempre legatissimo, il M., che usciva dal "gruppo di Oxford", era realmente uno dei tipici rappresentanti dell'alta cultura inglese dei primi decennî del sec. XVI, umanistica, arricchitasi al contatto del Rinascimento italiano, posta specialmente sotto l'influsso di Pico della Mirandola e dei platonici fiorentini, quindi anche con preoccupazioni morali e religiose sconosciute a gran parte degli umanisti italiani. Ma siffatte preoccupazioni non giungono sino a compromettere la serenità umanistica del giudizio: il saldissimo fondo religioso e cattolico dell'animo del M., comprovato a sufficienza dalla sua morte; la sua avversione a molte delle pratiche chiesastiche, e i suoi desiderî di riforma di uomini e istituzioni (ma non di sconvolgimento totale della Chiesa, onde il M. fu risoluto oppositore di Lutero, contro cui pubblicò anche un violento libello) si contemperano - come in Erasmo - con un finissimo senso d'equilibrio, di misura, con un largo e vivo senso dell'umano e della vita: ond'è che una delle note caratteristiche del M., nello scritto come nella conversazione, è una fine ironia, un sorriso garbatamente malizioso, che incantava un uomo pur maestro d'ironia come Erasmo.
Ma l'umanista veniva sempre maggiormente occupato dalla vita politica: più volte veniva inviato in ambasceria; nel 1525 diveniva cancelliere del ducato di Lancaster; infine, dopo la caduta del già onnipotente Th. Wolsey, Enrico VIII lo chiamava al posto supremo di cancelliere del regno (26 ottobre 1529). Si trovò così nella più difficile delle situazioni, per la questione del divorzio, voluto dal re, fra il re stesso e Caterina d'Aragona (v. enrico viii). Sollecitato di continuo dal sovrano perché si pronunziasse chiaramente e apertamente in favore del divorzio, al quale invece egli riluttava; preoccupatissimo per la tendenza, ormai ben chiara, di Enrico VIII a porsi a capo della chiesa in Inghilterra, M., poco energico uomo d'azione, ma incrollabile nei suoi principî e di coscienza adamantina, finì con l'irritare il re, ai cui voleri si opponeva di continuo, e non ebbe altra via d'uscita che le dimissioni (16 maggio 1532). Ma l'aggravarsi della crisi fra la curia di Roma ed Enrico VIII, doveva ben presto ripercuotersi in ben altra misura nella vita di lui. Già nel 1533 aveva corso serio rischio per non avere voluto intervenire alla cerimonia dell'incoronazione della nuova regina, Anna Bolena. Il momento critico sopraggiunse quando venne imposto il giuramento dell'atto di successione del 30 marzo 1534, che non si limitava a stabilire la successione al trono nei discendenti del re e di Anna Bolena, ma dichiarava illegale il precedente matrimonio del re con Caterina d'Aragona e proibiva d'ubbidire a qualsiasi autorità estranea al regno (cioè al papa). Il M., con il vescovo John Fisher, accettò di giurare la prima parte, rifiutò le altre due (13 aprile). Il 17 aprile veniva imprigionato alla Torre di Londra. Inutili riuscirono i tentativi fatti, per indurlo a cedere, da ogni parte: dalla moglie che non comprendeva come potesse preferire la prigione, piccola e sporca, alla sua bella casa e alla sua ricca biblioteca di Chelsea, per ostinarsi a non fare quello che facevano tutti gli altri (More e Fisher furono i due soli a non piegare alle imposizioni di Enrico VIII), alle figlie, agli amici. Il M. rimase inflessibile. Il 1° luglio 1535 era condannato a morte; il 7, era decapitato. Prima di morire, prese a testimonio il popolo che moriva per la Chiesa cattolica.
Non però alla nobiltà della sua fine, né alla sua vita pratica, è legata la fama, larghissima, del M.; quanto a un suo scritto, il Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia (1ª edizione, Lovanio 1516; 1ª traduzione inglese, Londra 1551), comunemente denominato l'Utopia senz'altro, che il M. scrisse a due riprese (il secondo libro, nel 1510 o 1515; il primo, posteriormente, nel 1516). Opera classica nella storia delle dottrine politiche e di tale rinomanza che il nome dell'isola, dal M. immaginata, Utopia, è poi passato nel linguaggio comune, servendo a designare le cose ideali che vengono sognate, ma non possono trovare concreta attuazione. Ciò perché nel secondo libro della sua opera, dopo avere, nel primo, criticato aspramente le condizioni dell'Inghilterra d'allora, il M. raffigura uno stato immaginario, esistente in un'isola immaginaria: Utopia.
Questa, che ha 500.000 passi di circuito ed è a forma di mezzaluna, sì da presentare i massimi vantaggi alla navigazione e ad un tempo alla difesa del paese (golfo all'interno della mezzaluna, chiuso da scogliere e banchi di sabbia che si aprono solo al centro, in un canale facilmente controllato), racchiude 54 città (tipico parallelismo con le 54 contee inglesi), ognuna simile all'altra: una sola, Amaurota, posta sul fiume Anydris, è maggiore e costituisce la capitale dello stato. Ogni città racchiude 6000 "famiglie", composte da 10 a 16 persone adulte, le quali formano la cellula organica fondamentale dello stato.
Tutti sono costretti al lavoro per 6 ore al giorno, salvo 500 persone circa che sono esenti dalle arti manuali per attendere agli studî: fra questi "sapienti" si scelgono i magistrati, i preti, i "tranibori" e il capo dello stato, l'ademos. Gerarchicamente infatti per ogni città si sale dai "sifogranti" o "filarchi", eletti uno ogni 30 famiglie, ai "tranibori" o "protofilarchi", uno ogni 300 famiglie, e all'ademos eletto dall'assemblea dei 200 filarchi. Ogni anno poi si raduna l'assemblea degli Stati generali di tutta l'isola, che esamina le varie questioni mmuni: p. es., nel campo della produzione, per destinare a una città, che manchi di qualche cosa, il superfluo delle altre.
Ogni anno le varie famiglie vanno successivamente a lavorare i terreni; ogni dieci anni ciascuna famiglia abbandona la propria casa per occupare quella assegnatale dalla sorte: dunque, se non proprio il comunismo assoluto - al quale il M. è avverso - per lo meno la negazione del diritto di proprietà nel senso romano. Impedire i troppo grandi squilibrî sociali è l'ideale del M., che vuole creare una società di "amici": di qui anche l'introduzione, in Utopia, di usanze collettive, di reminiscenza platonica, come quella dei pasti in comune delle trenta famiglie sottoposte a un filarco. Ma contrariamente a Platone, il M. non ammette la comunione delle donne, rimanendo invece fermo sul concetto tradizionale del matrimonio, ammesso però il divorzio. Questi i precetti fondamentali che presiedono alla vita di Utopia.
L'opera, certo largamente influenzata da reminiscenze platoniche, quindi in parte puramente letteraria, e spesso venata di sottile ironia - talché non mancano, presso gl'interpreti, coloro che dicono non essere possibile sapere quando il M. parli sul serio, e quando per scherzo - è all'inizio della cospicua letteratura politica che immagina regni e repubbliche mai esistiti, progenitrice della Città del Sole di Campanella, della Nuova Atlantide di Bacone, dell'Oceana di James Harrington, ecc. Ma, ancora più nettamente che nella maggior parte delle opere di simile genere, il suo succo è nel riferimento storico all'età in cui sorse: cioè nella critica esplicita (I libro) o implicita (II libro) alle condizioni politiche ma soprattutto sociali quali si verificavano nell'Inghilterra alla fine del Medioevo.
Questo profondo collegamento tra l'opera - apparentemente fantastica - e l'Inghilterra dei Tudor, ha anche servito di base alla tesi, recente, dell'Oncken che, rinnovando radicalmente le opinioni tradizionali sul M., ha visto nell'Utopia un'espressione del nascente imperialismo marittimo inglese: tesi d'altronde eccessiva e che ha il difetto sostanziale di modernizzare eccessivamente il pensiero del M.
Tra le edizioni dell'Utopia, cfr. soprattutto quelle a cura di W. Morris e K. Press (Londra 1883), di J. Churton Collins (Londra 1904), di G. Sampson e A. Guthkelch (Londra 1910; contiene la 1ª ed. latina e la classica traduzione inglese del 1551). Per gli altri scritti cfr. Omnia latina opera (Lovanio 1566); e per le opere inglesi (storiche come quella su Riceardo III, l'Apologye, ecc.), The Worke of sir Th. M. Knyght (Londra 1557; n. ed., Lovanio 1927-31).
Bibl.: Tra le biografie, cfr. T. E. Bridgett, Life and Writings of sir Th. M., Londra 1891; W. H. Hutton, Life and Writings of sir Th. M., ivi 1891. Per l'interpretazione dell'Utopia, v. specialmente H. Oncken, Die Utopia des Th. M. u. das Machtproblem in der Staatslehre, in Sitzungsberichte der Heidelberg-Akademie der Wissenschaften, 1922; id., introd. alla ed. tedesca dell'Utopia, Berlino 1922; G. Dudok, Sir Th. M. and his Utopia, Amsterdam 1923; R. W. Chambers, The Saga and the Myth of sir Th. M., Londra 1927; O. Bendemann, Studien zur Staats- und Sozialauffassung des Th. Morus, diss., Berlino 1928; H. Brockhaus, Die Utopia-Schrift des Th. M.,Lipsia 1929; M. Freund, Zur Deutung der Utopia des Th. Morus, in Historische Zeitschrift, CXLII (1932). Meramente informativo E. Dermenghen, Th. M. et les utopistes de la Renaissance, Parigi 1927. Per i rapporti del M. con gli altri umanisti inglesi, cfr. F. Subohm, The Oxford Reformers of 1498, Londra 1867.