Eliot, Thomas Stearns
Sebbene il culto di D. avesse una tradizione negli ambienti bostoniani dove fu educato E. (i dantisti di Harvard University, da Longfellow a Charles Eliot Norton, Santayana e Charles Grandgent), fu Ezra Pound che col suo volume su The Spirit of Romance (1910) e più ancora con la sua viva conversazione, rese l'E. consapevole della grandezza di D., gli dette quell'impressione di sorpresa che nessuna autorità cattedratica sul poeta avrebbe potuto comunicargli. La profonda eco per tutta l'opera dell'E. dei " superbi versi di Arnaut Daniel nella lingua provenzale " (Ara vos prec, per aquella valor) testimonia di quell'origine, indica un forte stimolo ricevuto dalla ‛ immaginazione uditiva ' dell'E., uno stimolo infinitamente più profondo di quanto non comporti il nudo significato del passo. Tracce d'iniziazione attraverso il Pound possono vedersi non solo in questa caratteristica reazione all'incanto musicale del verso, ma anche nelle idee critiche che l'E. venne esponendo su D. nel suo saggio giovanile in The Sacred Wood (1920), nella sua conferenza su Shakespeare and the Stoicism of Seneca (1927), e nel suo Dante (1929). Da ultimo E. precisò ulteriormente il suo pensiero su D. in una conferenza tenuta nel 1950 all'Istituto italiano di cultura di Londra: Quello che devo a Dante, ora nel volume postumo To criticise the Critic (e tradotto in italiano in " Lettere Italiane " XVII [1966] 1-10), e in " The Kenion Review ", Ohio, XIV (1952) 178-188. Lo scopo del Dante, di " persuadere il lettore innanzi tutto dell'importanza di Dante quale maestro - potrei finanche dire il maestro -, per un poeta che scriva oggi in qualsiasi lingua ", coincide col punto centrale di The Spirit of Romance, il cui capitolo sesto, preceduto dal solenne " Advenit Magister " alla fine del quinto, verte appunto su Il Maestro. I risultati raggiunti dal Pound in The Spirit of Romance erano: l'allegoria è pel poeta un mezzo per distaccarsi dalle emozioni, per visualizzarle; questo genere di visione non è una finzione; non ha nulla di retorico; nel Medioevo l'aver visioni era considerato con rispetto; il tentativo del poeta di riprodurre esattamente la cosa che egli ha effettivamente veduta genera chiarezza. Queste idee si trovano rispecchiate nel saggio di E. su Dante. Così ad es. dell'uso che D. fa di elaborate immagini come quella della figura dell'aquila composta delle anime dei giusti nel Paradiso (XVIII-XX), dice l'E.: " Tali figure non sono puri e semplici espedienti retorici antiquati, ma seri e pratici mezzi per rendere visibile ciò che è spirituale ". Chiare immagini, o piuttosto simboli, che fanno appello ai sensi, sono atte a evocare le emozioni di cui esse sono il " correlativo oggettivo ". D'altronde la definizione poundiana della natura dell'immagine in modo da accentuare l'unione di appello ai sensi e di appello al pensiero, la presenza dell'idea nell'immagine - una definizione intimamente connessa con ciò che il Pound sapeva del metodo di D. - era capace di stabilire immediatamente un legame tra la poesia di D. e del suo secolo e quella dei poeti metafisici inglesi del Seicento di cui l'E. doveva scrivere che " sentivano il loro pensiero immediatamente come il profumo d'una rosa ". La credenza in questa fusione ideale d'intelletto e di emozione, che si ritroverebbe solo nei poeti metafisici apparsi saltuariamente nella tradizione letteraria europea (D. e gli stilnovisti, John Donne e i metafisici inglesi del Seicento, Baudelaire, Rimbaud, Laforgue) diventò il criterio fondamentale di E. nella sua concezione della storia della poesia: il razionalismo scientifico del Sei-Settecento aveva portato a una dissociazione della sensibilità, onde la necessità di una reintegrazione da parte dei poeti di oggi.
La carriera poetica dell'E. potrebbe descriversi come una regressione dalla moderna all'antica musa metafisica, dal simbolismo inteso in senso individuale, arbitrario, dei moderni, ove la suggestione sfuma e si perde nella musica verbale (esempio tipico Mallarmé) al simbolismo dantesco, di carattere universale, spersonalizzato. Il germe di questa teoria dell' ‛ impersonalità ' si trova nel Dante di Grandgent (New York 1916) che affermava: " In nessun rispetto, forse, gli scritti medievali differiscono in modo più patente dai moderni quanto nella loro dignitosa impersonalità... l'introspezione, in linea di massima, si limitava (pei medievali) all'esperienza religiosa, dove è legittima e necessaria ". Le idee che l'E. trovava in Santayana e Grandgent partecipavano di quell'idealismo etico e di quel timore della volgarità che son tipici della mente puritana; le idee che egli sviluppò sotto lo stimolo del Pound riguardavano piuttosto la tecnica del verso, il ritrovamento di un disegno di chiare immagini visive capace di evocare immediatamente l'emozione sottesa. La fusione di questi vari elementi conferisce all'interpretazione dantesca di E. quel peculiare carattere che può sorprendere un italiano. Così il giudizio sulla lingua di D. come " la lingua comune allo stadio perfetto. In un certo senso essa è più pedestre di quella di Dryden e di Pope. Se voi seguite Dante senza talento, alla peggio riuscirete pedestre e piatto; se seguite Shakespeare o Pope senza talento, farete la figura d'uno sciocco ". Si può osservare che ogni qualvolta i poeti italiani han cercato d'imitare D. han prodotto in certi casi versi piatti e pedestri, ma più di frequente han scritto proprio in quello stile ampolloso e sforzato che all'E. pare caratteristico dei peggiori imitatori di Shakespeare.
Il debito dell'E. poeta a D. va dalla citazione e dal calco di singoli versi o passi all'influsso più profondo consistente in concretezza di presentazione e in simbolismo. Citando Pd XXXIII 91 ss. egli dice: " Mai in poesia un'esperienza così remota dall'ordinaria è stata espressa con tanta concretezza, per via d'un uso magistrale di quell'immagine della luce che è la forma di certi tipi dell'esperienza mistica ". Dai passi di D. particolarmente citati da E. si può arguire che l'influsso di D. poteva operare su di lui solo nel senso di rinforzare quella tendenza a usare una lingua non diversa dall'ordinaria, e al tempo stesso capace di mosse filosofiche, la quale egli aveva trovato in uno dei suoi primi modelli, il Laforgue. Chiare immagini visive, linguaggio conciso e luminoso: ecco le due qualità dantesche che l'E. ha dinanzi agli occhi. Le immagini sono il " correlativo oggettivo " delle emozioni che intendono suggerire, il linguaggio stimola l'immaginazione uditiva: in entrambi v'è un elemento di estrema precisione e un elemento di " incognito e indistinto "; perché la mente del lettore è stimolata dalla portata simbolica delle precise immagini, mentre - in contrasto con l'apparente nitidezza del vocabolario - " il sentimento comunicato dalle sillabe e dal ritmo penetra molto al di sotto del livello cosciente del pensiero e del sentimento, dà vigore a ogni parola; discende a quel che vi è di più primitivo e dimenticato, torna all'origine e riesuma qualcosa, cerca il principio e la fine " (saggio sull'Arnold). L'influsso dantesco si avverte in Ash-Wednesday (1930), ove il disegno delle immagini par suggerito da D.; l'influsso dell'allegoria di D. consiste qui nel produrre ciò che il Matthiessen ha definito una " paradossale precisione nell'indeterminatezza ". Ma il più sostenuto tentativo d'imitazione dantesca da parte di E. si trova nella seconda sezione di Little Gidding nei Four Quartets (1940-43), che contiene un lungo componimento in terzine non rimate, in cui il ritmo, le immagini, e i passi discorsivi richiamano D. molto da vicino.
Bibl.- M. Praz, T. S. Eliot e D., apparso originariamente in inglese nella " Southern Review " novembre 1937, e in italiano in " Letteratura " luglio 1937; ristampato in Machiavelli in Inghilterra e altri saggi, Roma 1942, e, con aggiunte, nella seconda edizione di questo libro, Firenze 1962; L. Berti, prefaz. alla traduzione italiana di Dante, Modena 1942; W. P . Friederich, Dante's Fame abroad, Roma 1950; H. Brandeis, Metaphor in ‛ The Divine Comedy ', in " The Hudson Review " VIII (1956) 558-564; J. V. Falconieri, Il saggio di T. S. Eliot su D., in " Italica " XXXIV (1957) 75-80; F.W. Locke, D. and T. S. Eliot Prufrock, in " Modern Language Notes " LXXXVIII (1963) 51-59; E. Guidubaldi, T.S. Eliot e B. Croce dinnanzi a D., in " Aevum " XXXI (1957) 2; ID, D. europeo, I, Firenze 1965 (con bibl.).