WILSON, Thomas Woodrow
Presidente degli Stati Uniti d'America dal 1913 al 1921. Nacque a Staunton (Virginia) il 28 dicembre 1856, da famiglia originaria scozzese. Questa circostanza, insieme col severo presbiterianismo del padre, lasciarono una traccia profonda su lui per tutta la vita. Dal 1875 al 1879 studiò a Princeton, e quindi legge all'università di Virginia, poi riprese gli studî storici e politici all'università Johns Hopkins, laureandosi nel 1886. Sposatosi nel 1885 con Ellen Louise Axson, dalla quale ebbe tre figlie, si diede all'insegnamento e nel 1890 entrò a Princeton come professore di giurisprudenza e di economia politica. Come insegnante si distinse per le sue lezioni chiare ed eleganti, qualità che si ritrovano anche negli scritti e nei discorsi. Preferiva le generalizzazioni anziché l'analisi erudita, dedicandosi soprattutto alla storia degli Stati Uniti e alla loro costituzione, della quale analizzò difetti. Nel 1902 fu eletto presidente di Princeton e si diede subito a un'intensa attività riformatrice delle abitudini scolastiche e sociali, tentando di stabilire relazioni più strette fra insegnanti e scolari. Eseguì il suo programma non curandosi di nessuna opposizione: nello stesso tempo cominciò a occuparsi di politica, e i suoi discorsi e articoli lo resero noto alla nazione. E così nel 1910, proprio quando si delineava il suo insuccesso a Princeton, venne eletto governatore del New Jersey. Nella nuova carica si dedicò soprattutto a purificare i costumi e gli usi della vita pubblica, e il funzionamento delle amministrazioni statali e comunali: e anche qui si distinse per l'inflessibilità nel seguire il suo programma di sradicare vecchi abusi e rompere i privilegi delle camarille.
In tal modo si acquistò la fama di accorto e rigido riformatore, e il suo nome figurò fra i primi alla Convenzione nazionale riunitasi nel giugno 1912 a Baltimora per scegliere il candidato democratico alla presidenza della Confederazione. La divisione degli elementi conservatori del partito e l'appoggio di quelli progressisti lo fecero designare al 46° scrutinio (2 luglio 1912). I suoi discorsi durante la campagna elettorale nei quali propugnava la rinascita d'ideali nazionali, il ristabilimento della glustizia e del diritto, la lotta contro il prevalere nella vita dello stato degl'interessi affaristici, trovarono larga eco nelle masse, che videro in lui la promessa di una maggiore giustizia sociale. La divisione dei repubblicani, tra conservatori partigiani dell'ex-presidente W. H. Taft e progressisti sostenitori di Th. Roosevelt, gli procurò il successo, per quanto non ottenesse la maggioranza assoluta dei voti al primo scrutinio.
Quando il 4 marzo 1913 iniziò il primo periodo presidenziale, la sua posizione politica era notevolmente forte, ed egli fece subito conoscere che era fermamente deciso ad esercitare tutta la sua influenza e a lottare con tutti i mezzi per mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale. Infatti, subito nel primo anno, facendo lavorare intensamente il Congresso in sessione , sia ordinaria sia straordinaria, ottenne l'approvazione di diverse leggi sull'amministrazione, le dogane, la moneta, le banche, i trust, ecc.
Tuttavia i problemi più gravi ai quali dovette far fronte durante la sua presidenza, furono di politica estera. Per essi non aveva alcuna predilezione; infatti li passò interamente sotto silenzio nel suo discorso inaugurale. Era contrario a far sentire la forza degli Stati Uniti per la difesa degl'interessi particolari, e cioè quella che venne chiamata "diplomazia del dollaro". In un discorso del 27 ottobre 1913 dichiarò che gli Stati Uniti non avrebbero mai acquistato un pollice di territorio a spese di un vicino, e con ciò implicitamente assicurava i piccoli stati americani che non solo il loro territorio, ma anche la loro politica sarebbe stata "libera" dall'inframmettenza degli Stati Uniti. Ma in questo atteggiamento vi era anche il germe di una politica positiva, ispirata non dalla debolezza ma dal desiderio di vivere e lasciar vivere. Reciproca comprensione e fiducia sarebbe stato il fondamento di una reciproca e attiva cooperazione. Messosi su questa via, W. si lasciò facilmente persuadere a tentare un'intesa con l'Inghilterra, la Francia e la Germania, intesa che, offrendo non l'alleanza, ma la cooperazione americana, avrebbe eliminato i contrasti fra i due gruppi di potenze nei quali si divideva l'Europa; e nella primavera del 1914 inviò in Europa l'amico E. M. House por sottoporre la sua idea a Guglielmo II e al governo inglese. La guerra mondiale pose termine a questi progetti.
Intanto lo spirito conciliante dimostrato nella liquidazione di vecchie pendenze e l'avversione a intervenire negli affari interni dei vicini, specie del Messico, gli conciliarono le simpatie degli altri stati americani, e resero possibile il suo tentativo di allargare la dottrina di Monroe in una lega per la sicurezza e la pace di tutti gli stati americani, e di proporre, nell'autunno del 1914, il Patto panamericano, il cui primo articolo, stabilendo la reciproca garanzia dell'indipendenza politica e dell'integrità territoriale, fissava già l'essenza della Società delle nazioni. Il patto, discusso nei mesi successivi, non fu concluso, per il momento, a causa della guerra mondiale.
Al principio di questa W. proclamò la neutralità, e con questa decisione interpretò l'unanime volontà della nazione. Per lui la pace non era in antitesi con la grandezza nazionale: sentì profondamente la tragedia della guerra, e appunto per questo volle rimanerne fuori. La missione che egli assegnava alla sua nazione era quella di fare da mediatrice fra i belligeranti, e cooperare a stabilire uno stato durevole di pace. Ma ben presto la neutralità si rivelò un problema difficile quanto l'intervento. Gli Stati Uniti furono presto interessati alla guerra, sia per i rifornimenti di ogni genere, e specialmente di munizioni, alle potenze dell'Intesa, sia per il blocco dell'Inghilterra che restringeva ogni giorno più il commercio con le potenze centrali, sia per la guerra sottomarina. E così W. si trovò impegnato in una battaglia diplomatica con ambedue i belligeranti, per la difesa dei diritti dei neutri. Difesa difficile, perché non sarebbe stato possibile indurre l'Inghilterra a rallentare il blocco se non con la minaccia della guerra, né la Germania a rinunciare definitivamente alla guerra sottomarina se non con l'astensione totale e assoluta di qualsiasi rifornimento all'Intesa. Alla prima soluzione si opponeva l'ostinato attaccamento di W. alla neutralità, alla seconda gl'interessi industriali e commerciali degli Americani. L'atteggiamento di W. scontentò ambedue i belligeranti, ma gli procurò la rielezione a presidente.
Però si rese conto che se la guerra continuava, o prima o poi, gli Stati Uniti sarebbero stati costretti a intervenirvi. Questa considerazione lo indusse a proporre la sua mediazione (18 dicembre 1916). Il fallimento di essa e la ripresa incondizionata della guerra sottomarina dimostrarono a W. e a tutti gli Americani che il rispetto dei loro diritti di neutri non poteva essere assicurato dalle note diplomatiche, ma dall'intervento. Per quanto W. si fosse sforzato di mantenersi rigidamente neutrale fra i due belligeranti, tuttavia le sue simpatie per l'Intesa, e specie per il Belgio, il suo timore per il militarismo tedesco, la sua antipatia per il regime politico tedesco lo schierarono con l'Intesa, alla quale ormai gli Stati Uniti erano legati da molti interessi politici ed economici.
Anche dopo l'entrata in guerra, W. rimane attaccato alla pace, e avendo fallito nel suo proposito di far rimanere gli Stati Uniti fuori del conflitto, ora si dedica tutto al compito di far uscire dalla guerra la pace perpetua, la quale avrebbe dovuto essere assicurata "dal principio dell'equità applicata a tutti i popoli, a tutte le nazionalità, dal diritto di ciascuno a vivere in eguali condizioni di libertà e di sicurezza, gli uni vicino agli altri, siano essi forti o deboli". Partendo dall'opinione che gli Stati Uniti fossero gli unici disinteressati nel conflitto, concepì il compito loro e il suo come una missione morale: dare cioè all'umanità un ordine nuovo, basato sui principî morali della cooperazione e della mutua assistenza, specie da parte delle nazioni più forti e ricche verso le più deboli e povere. Queste idee egli le annunciò nei suoi 14 punti (8 gennaio 1918), che, insieme con gli altri discorsi tenuti sullo stesso argomento, lo fecero apparire ai popoli doloranti come il nuovo profeta, venuto a instaurare un'era migliore e più felice.
Il successo dei suoi principî sembrò assicurato quando le nazioni alleate sottoscrissero l'armistizio, impegnandosi a fare la pace in base a essi. Ora era venuto il momemo supremo di tradurre l'ideale nella realtà e coronare col successo finale l'azione intrapresa. W. sentì che era impegnata tutta la sua responsabilità di riformatore, e quindi volle partecipare personalmente alla conferenza della pace, nonostante il parere dei suoi collaboratori, che ritenevano che il suo prestigio avrebbe sofferto dal contatto con gli uomini di governo europei. Le accoglienze entusiastiche e senza precedenti che gli tributarono le folle europee lo rafforzarono nella convinzione che egli ne rappresentava la volontà meglio dei loro governanti, e che solo dai suoi principî i popoli attendevano la salvezza. Ma quando si trattò di tradurre quei principî in condizioni di pace, W. fallì alla promessa.
Tale fallimento si dovette non solo alla circostanza che essi non si adattavano alla situazione europea, ma anche ai suoi difetti personali, che qui si rivelarono in pieno. Nonostante l'alta posizione politica raggiunta, W. era rimasto un uomo di studio che aveva sempre attinto tutte le sue idee e le sue convinzioni dai libri più che dal contatto con gli uomini e dai loro contrasti. Si trovava meglio nel mondo delle pure concezioni, che sul solido terreno dei fatti. Conosceva a fondo la storia e la costituzione americana e ignorava del tutto la complessità dei problemi europei. Di più, intorno a sé aveva voluto solo studiosi e non uomini politici. E così di quei principî, che gli avevano ottenuto uno straordinario successo e l'avevano fatto apparire come un nuovo messia, non seppe fare il programma dei lavori della conferenza, e tradurli in articoli di pace. Di temperamento autoritario, ascoltava i suoi collaboratori finché si trattava di avere informazioni, ma non accettava consigli quando si trattava di decidere una linea di condotta. Pensatore solitario, gli era impossibile seguire due idee alla volta, e quindi era disarmato di fronte ad espertissimi politici quali Lloyd George e Clemenceau, che sapevano cosa volevano. Egli aveva una fede quasi mistica nella Società delle nazioni e nelle sue possibilità future. Perciò tutto il suo sforzo fu diretto a ottenere la Società, e fu costretto al compromesso sulle questioni che interessavano Francia e Inghilterra. Solo contro l'Italia mostrò un'ostilità continua e irriducibile, quasi inspiegabile. E così i trattati di pace non corrisposero alla promessa.
Ritornato in America, W. il 10 luglio 1919 presentò al senato il Trattato di Versailles. Qui l'opposizione, specie contro la Società, si mostrò molto forte. Allora W. volle appellarsi al popolo. Il 4 settembre iniziò un giro che lo portò in 29 città del centro e dell'ovest, e nel breve giro di tre settimane tenne 37 discorsi in difesa della Società e della pace mondiale. Il giro fu troncato improvvisamente il 26 settembre da un primo attacco di paralisi che si ripeté pochi giorni dopo. Da allora non fu più in grado di lottare: solo rimase ostinatamente attaccato a quello che aveva fatto e non accettò alcuna modifica, provocando il rigetto del trattato da parte del Senato. E così egli, che per far accettare la Società dagli stati europei aveva abbandonato i 14 punti, si fece bocciare la Società dal Senato americano. Morì quasi dimenticato il 3 febbraio 1924.
Bibl.: W. E. Dodd, W. W. and his Work, New York 1921; J. P. Tumulty, W. W. as I know Him, ivi 1922; R. S. Baker, W. W. and the World Settlement, ivi 1923, voll. 3; D. Lawrence, The true Story of W. W., ivi 1924; I. Daniels, Life of W. W., Washington 1924; W. A. White, W. W., the Man, his Times, and his Task, Boston 1924; R. S. Baker e W. E. Dodd, The public Papers of W. W., New York 1925-27, voll. 6; F. David Houston, Eight Years with Wilson's Cabinet, ivi 1926, voll. 2; Ch. Seymour, The intimate Papers of Colonel House, Boston 1926-28, voll. 4; R. S. Baker, W. W., Life and Letters, Londra 1927 (biografia autorizzata basata sul copiosissimo carteggio di W.; finora sono usciti 5 voll.); L. Lehman, W. apôtre et martyr, Parigi 1933; Ch. Seymour, American Diplomacy during the World War, Baltimora 1934.