DECIANI, Tiberio
Figlio di Gian Francesco e di Franceschina Masero, nacque a Udine il 3 agosto 1509.
La famiglia, originaria di Tolmezzo, acquistò rilevanza sociale e politica, sullo sfondo complesso della Patria friulana, da Odorico decanus (fine del '300), a Nicolò notaio (cancelliere di Udine dal 1426 al 1482); dal padre, ascritto alla nobiltà cittadina nel 1518, al D. e ai figli suoi.
Educato alla scuola umanistica di G. B. Privitelli, Girolamo e Gregorio Amaseo, all'età di quattordici anni fl D. si trasferì a Padova, dove frequentò i corsi di diritto di Marco Mantova Benavides, Mariano Sozzini iunior, Pier Paolo Parisio, Francesco Curti iunior, laureandosi in utroque il 19 apr. 1529. Tornato in patria, sposata nel 1530 la nobile Maddalena Antonini, cominciava un brillante cursus honorum, come metnbro del Consiglio, e poi tra i sette deputati ad regimen, e come oratore inviato a Venezia per ottenere il ritiro o la riduzione delle gravezze imposte a Udine dalla Serenissima. Dai Diari di Gregorio Amaseo, che gli fu più volte collega, emergono le qualità politiche del D., cui, oltre le dette missioni (del 1530, '39, '42), furono affidati uffici di rappresentanza in importanti occasioni (gli omaggi a Carlo V, a San Daniele, nel 1532, e al nuovo doge, a Venezia, nel '45). Egli veniva intessendo una rete di rapporti essenziali per la sua vita futura, e per l'attività professionale d'avvocato. e di consulente; iniziata a Udine, appena dopo la laurea. questa continuò a Venezia, dove il D. prese dimora poco prima del 1544.
Nel 1546 lo troviamo per la prima volta nelle funzioni di assessore dei rettori che la Serenissima inviava in Terraferma; è con Lorenzo Venier, podestà di Vicenza; in questa città morì, "di contagio", la moglie. L'anno successivo lo volle con sé il celebre diplomatico e letterato Bernardo Navagero, podestà di Padova. Il soggiorno padovano gli consentì di stringere più saldamente amicizie e relazioni con maestri e condiscepoli, e d'approfittare della vacanza della lettura "delli criminali" già stata di Marc'Antonio Bianchi. Il Pregadi, il 23 apr. 1549,.gliela conferì, insieme aggregandolo al Collegio dei giuristi e incaricandolo, quasi contemporaneamente, della riforma degli statuti di quell'università.
Rendendo conto del proprio ufficio, il Navagero aveva detto, a proposito dello Studio, che i docenti di diritto avevano minore reputazione dei maestri presenti in altri atenei; e Matteo Dandolo, due anni avanti, segnalava un rapporto numerico, assolutamente opposto alla normalità, di 300 studenti "legisti" contro più di 700 "artisti". In concomitanza con la chiamata del D. (nella motivazione si legge ch'egli congiunge alla dottrina l'esperienza di pratico), trovò il suo culmine la manovra di esclusione degli scolari dal governo accademico, espressa appunto dagli Statuta spectabilis et almae Universitatis iuristarum Patavini Gymnasii (Venetiis, per Ioannem Patavinum, 1551) e dalla riforma del 1552, sempre dovuta ai professori (ancora il D., Mantova, Tornielli, Panciroli). In un'ottica "autoritaria" evidentemente si collocava anche la prolusione decianea, il cui testo non ci è pervenuto, ma che sappiamo trattò il tema della funzione del diritto penale nella conservazione dello Stato.
Nel 1550 è di nuovo assessore del podestà, a Verona (con Francesco Venier, che sarà doge dal '54 al '56). Resosi vacante, per la morte di Girolamo Cagnoli, il secondo luogo della più importante cattedra ordinaria, diritto civile, esso, dopo il fallimento delle trattative col famoso Emilio Ferretti, venne assegnato al D., il 12 ott. '52, con lo stipendio di 500 fiorini; la prolusione, anche questa non pervenuta, verteva sul classico argomento dell'interpretatio legis. Divenuto collega del proprio maestro Marco Mantova, dimostrò di saper rendere affollate le aule; la sua retribuzione crebbe, nelle ricondotte, a 700 fiorini nel '56, a 900 nel '64. per giungere ai mille scudi che gli saranno attribuiti fino alla morte; nel '70, passato il Mantova a quella di diritto canonico, il D. conseguì il primo luogo della cattedra del civile. All'attività universitaria e professionale univa il gusto, tutto rinascimentale, d'una vita privata intessuta di relazioni con i letterati, di frequentazioni e svaghi eruditi: sul modello offerto dall'amico Mantova) la cui casa era un vero hospitium Musarum, la sua dimora accoglieva una cospicua collezione numismatica, una notevole pinacoteca, una ricca biblioteca. Non disdegnava sporadici incarichi di rappresentanza per la propria città natale: nel '53 presenziò all'insediamento del nuovo provveditore di Cividale.
Ebbe rapporti con l'Aretino e l'Alunno (F. Del Bailo); quest'ultimo nella Fabbrica del mondo (1546; cfr. ediz. Venezia 1612, p. 89) aveva pronosticato che tanti uommi di studio - in campi imprecisati - si sarebbero giovati delle conoscenze dei D.: certo è che i molti che bussarono alla sua porto, erano spinti dal bisogno d'un parere legale, per sé o quali inviati di alti personaggi laici ed ecclesiastici. Alcuni erano latori di proposte: di diventare uditore di Rota, di lasciare Padova per altri atenei. Egli accettò il titolo di conte e di cavaliere costantiniano di S. Giorgio (da un discendente dei Comneni, il 27 sett. 1578), il cavalierato di S. Marco (dal doge Niccolò Da Ponte, il 21 ottobre seguente), l'ufficio di consultore in iure della Serenissima: altro non gli interessava, e le sue preoccupazioni maggiori erano per la famiglia. Lo si desume dal testamento del 1° sett. 1579, specchio anch'esso della saggezza e dell'esperienza giuridica dell'uomo; il documento fornisce indirettamente notizie, oltre che sulla notevole consistenza del patrimonio del D., sulle tensioni create dalle seconde nozze, contratte con la nobile padovana Caterina Ariani. Sono nominati eredi, in stretta comunione, i tre figli maschi Nicolò, Gian Francesco (nati rispettivamente nel '31 e nel '37) e Roncadino, la moglie e il figliastro usufruttuari dei beni posseduti nel Padovano; i legami con Uffine sono testimoniati da varie disposizioni, e così quelli con Padova, dove il testatore raccomanda che qualcuno dei figli prenda dimora, per comodità e sicurezza personale, e per tener vivo il proprio nome in quella città.
Il 1579 è, per lui, un anno di bilanci. Escono a Venezia (Zenari) i tre tomi di Responsa, cui è unita l'Apologia pro iuris prudentibus, qui responsa sua edunt imprimenda, adversus dicta per Alciatum Parergon lib. XII cap. ult., a chiarire la duplice rilevanza dell'avvenimento; giacché la decisione di stampare consilia va giustificata sul piano generale proposto dalle sprezzanti considerazioni alciatee: ma, anche, dev'essere spiegata la sortita improvvisa di chi è giunto all'età di settant'anni nel quasi assoluto silenzio editoriale, di chi ha dato l'impressione d'aver trascorsa la vita nell'ozio.
Ben poco, in effetti, si era stampato del Deciani. Oltre a due consigli già segnalati dal Marongiu, ricordiamo il parere contenuto nel Manifesto del capitan Vincentio Locadelli da Cremona, s.l. né d., e un sonetto d'occasione nella raccolta di rime Il tempio della divina signora donna Geronima Colonna d'Aragona, Padova, Pasquati, 1568 (un ms. napoletano è indicato da P.O. Kristeller, Iter Italicum, II, p. 547).
I quattrocentosettantasette responsa pubblicati (i tomi quarto e quinto sono postumi, stampati a Udine, Natolini, nel 1594; altre edizioni a Francoforte, Feyrabend, 1589- ' 96, solo per i volumi I-IV, e a Venezia, Vassallino, 1602) costituiscono un imponente corpus riguardante ogni ramo dei diritto. Ognuno di essi si apre con l'argumentum e il sommario del contenuto; spesso è anche esposta, in modo sintetico, la fattispecie che ha originato la lite. La datazione non è riportata (il primo del volume I, che indica Padova, 1° marzo 1568, è da considerarsi un'eccezione); taluno è controfirmato da altri giuristi (per esempio il n. 46 del volume II, sottoscritto da nove, tra i quali Marco Mantova e Guido Panciroli). Oltre all'ampia articolazione del parere reso, si nota l'altissimo rango dei committenti, nonché l'importanza dei casi sottoposti ad esame: gl'imperatori Massimiliano e Carlo V e la spettanza di feudi e castelli; Genova e la confisca dei beni dei Fieschi; i duchi di Ferrara e Firenze e la questione della precedenza. L'analisi delle varie situazionì storiche dà l'esatta dimensione della portata dell'intervento dei D.; si può fare l'esempio del caso, ben noto, relativo al, patriarca d'Aquileia, Giovanni Grimani. Proposto per il cardinalato dai Veneziani, egli venne inquisito dal S. Uffizio a causa d'una lettera scritta molti anni prima a difesa dell'ortodossia delle tesi esposte da un predicatore; verso la fine del 1562, il D., per conto di Venezia, sosteneva la possibilità che la decisione fosse rimessa nel concilio di Trento (come infatti avvenne; assolto dalle accuse, il Grimani non ottenne tuttavia la poipora cardinalizia).
All'amico patriarca il D. dedicava i propri libri di consigli; e in appendice, vera e propria postfazione, poneva un vasto, lucido, singolarissimo sguardo d'insieme sull'ufficio di consulente, l'Apologia, appunto, il cui contenuto, ora che gli storici hanno riconosciuto alla componente giuri sprudenziale del diritto il giusto valore, è meritevole della più grande attenzione.
La critica dell'Alciato, che il D. testualmente riferisce prima d'iniziare il proprio discorso, è in sostanza questa: non ausilio, ma detrimento alla scienza viene dalla pubblicazione dei consilia, poiché questi hanno di mira soltanto l'interesse della parte a cui favore sono espressi. Per confutarla, l'Apologia, come è detto nel primo dei ventidue capitoli, affronta, oltre ai temi direttamente sul tappeto, la questione terminologica del significato preciso di responsum, l'origine storica del consulere, per abbracciare in una considerazione conclusiva tutta la professione legale. Nel corso dell'esposizione, molte delle censure alciatee, di natura specifica o generale, sono dimostrate infondate, e la tesi di massima, cioè che le raccolte di consilia rispecchiano la realtà giuridica molto più delle monografle e dei commentaria cattedratici, è sostenuta con appassionata abilità. L'opera offre, tra le altre cose, una testimonianza di prima mano sull'importante cambiamento di qualità che a quell'epoca stava subendo il consilium rispetto all'allegatio; perché, nonostante sia cura e intenzione del D. accentuare le differenze tra il "parere decisivo" dato al giudice e la "comparsa" dell'avvocato, egli in definitiva non sa indicare, per il giurista che abbia accettato la consulenza, altro scopo che quello di convincere il giudice, con ogni mezzo legittimo, a favore del cliente: i due generi, la cui distinzione era sempre stata problematica, stavano avviandosi ad una completa identificazione. Va considerato che detrattore e fautore della funzione della giurisprudenza consulente fanno parte del medesimo mondo; e che lo sviluppo dell'industria tipografica nel '500, con la conseguente stampa di numerose collezioni di responsi, conferisce un senso particolare a questa polemica, rispetto alle analoghe avvenute in tempi precedenti o posteriori.
Il D. non poté, o non volle, durante la vita, dare altre prove delle eccezionali capacità dimostrate nella redazione dell'Apologia. Morì a Padova il 7 febbr. 1582, e gli vennero tributate solenni esequie.
Nella chiesa del Carmine, dal monumento fatto erigere dai figli, il busto eseguito da Francesco Segala (che già, forse una decina d'anni avanti, aveva compiuto un analogo lavoro) ci restituisce, al pari della bella incisione di Giacomo Franco nella prima edizione dei Responsa, e degli altri ritratti, l'immagine. di persona grave e austera, immersa in profonde cogitazioni.
Il figlio Nicolò, laureato in diritto a Padova nel 1556, fu personaggio influente nell'ambiente udinese; deputato adregimen moltissime volte, inviato a Venezia per la propria città, ebbe rapporti d'amicizia con letterati di gran nome, in particolare con Francesco Mantica e Scipione Gonzaga. Morì a Udine il 30 ott. 1618, lasciando inedite alcune pregevoli orazionì pronunziate nelle occasioni ufficiali. Anche Gian Francesco (morto a Udine il 30 giugno del 1590) fu giurista; di lui si ricordano le più di 1.800 giunte fatte al Dictionarium iuris di Alberico da Rosciate, stampato dai veneziani Guerra nel 1573. Ai tempi del Liruti, in casa Deciani erano conservati più di 20 volumi nei quali "sotto titoli, e per ordine alfabetico" i due fratelli riposero i loro excerpti legali".
A Nicolò va il merito d'aver messo a stampa l'opera maggiore del padre, quel Tractatus criminalis ... utramque continens censuram, che, pur non compiuto, è considerato tra le maggiori espressioni della scienza dei diritto penale nel '500 (all'editio princeps di Venezia, "apud Ioannem et Andreani Zenarios", 1590, seguì un'altra veneziana lo stesso anno, quindi, nel 1591, quella di Francoforte, Fischer, accresciuta dal Brederode; ripubblicato a Torino, Bevilacqua, nel 1593, il Tractatus ebbe l'ultima edizione a Venezia, Scoto, nel 1614).
L'opera consta di nove libri, divisi in titoli, capitoli e paragrafi. In essa, pur senza esplicite indicazioni testuali, sono riconoscibili una parte generale e una speciale. La prima (fino al libro V, 6) è dedicata alla terminologia, al concetto di delitto, agli elementi e circostanze di esso, alle cause che escludono o modificano l'applicazione della pena, alle fonti del diritto penale. Alcuni caratteri di spicco: l'insistenza sul rigore della terminologia, che dev'esser propria della materia (conseguentemente, respinta la dominante farragine di designazioni per il reato, si opta per "delitto", definito come fatto doloso o colposo dell'uomo, proibito dalla legge sotto minaccia di pena, in assenza di cause esimenti); la richiesta di proporzione tra delitto e pena, e del favor rei; in tema di culpa, il rifiuto delle teorie di Bartolo e altri sui sei (o più) gradi di colpevolezza, per guardare invece all'individuazione dell'elemento intenzionale, l'animus delinquendi. La parte speciale espone, in ordine sistematico, a seconda della natura degli interessi protetti, le singole figure di delitto. Qui la cosa più notevole appare proprio la scelta di quest'ordinamento, assolutamente originale se comparato cori quello adottato da altri autori, talvolta puramente alfabetico. La trattazione non comprende buona parte dei delitti contro la persona e tutti quelli contro la proprietà; l'incompletezza si coglie anche nel fatto che il D. talvolta rinvia a sezioni non presenti nell'opera edita, che doveva quindi rientrare in un progetto più organico ed ambizioso abbandonato dopo esser stato portato avanti per anni (il Tractatus non contiene citazioni di opere o fatti posteriori al 1572). A questi motivi d'interesse sono da aggiungere quelli dovuti allo stile proprio dell'autore, che dimostra d'aver vasta e diretta conoscenza di fonti letterarie d'ogni tipo, conduce spesso analisi storiche con aggiornata competenza, e difficilmente si contenta del puro principio d'autorità; e che, soprattutto, ha ben presente la giurisprudenza pratica e i problemi del suo raccordo con le tendenze della teoria.
Al Tractatus si sono fatti elogi quasi incondizionati; nelle caratteristiche velocemente indicate si sono visti eventi d'assoluta novità, tali non solo da staccare il D. dalla criminalistica medievale, ma da assicurargli, anche, il primo posto tra gli altri grandi - Giulio Claro e Prospero Farinaccio - componenti la celebre triade di penalisti del '500; si è detto che il D. è il padre della scienza moderna del diritto penale (Marongiu, Schaffstein). Si può quindi restare perplessi, quando dalle ricerche sui singoli istituti e su aspetti particolari di questa branca del diritto non emergono motivi d'esaltazione, quando le soluzioni proposte dal Tractatus sono in tutto allineate con quelle della vecchia scuola. Si possono fare due esempi. In un campo delicato ed essenziale quale quello probatorio "non troviamo una trattazione generale sui vari tipi di indizi o prove ma varie trattazioni particolari, in relazione ai diversi delitti" (Alessi Palazzolo), cioè la famosa parte generale fallisce qui nella sua funzione di guida; in tema di lesa maestà, non viene recepito, anzi si rifiuta decisamente il suggerimento ("colto" basato su fonti romane) innovativo del Budé, inteso a dar qualche confine ad amplissime ipotesi delittuose (Sbriccoli). Ciò si presta alla tentazione di formulare riserve d'ordine generale, a renderle radicali. Così, notando i numerosi debiti contratti dal Tractatus con la scolastica, in tema di libero arbitrio, e dopo alcuni sondaggi in altra direzione, si è potuto affermare che quelle del D. sono idee comuni a tutti i giuristi dell'epoca, magari esposte in modo più ampio e didascalico; la vera novità sarebbe quella d'aver adottato l'ottica della legge penale e non quella dell'azione penale (Mereu). Pare indubbio che sia nel far risaltare, sia nel ridimensionare il contributo d'originalità fornito dall'opera, abbiano avuto un peso elementi esterni ad una vera critica: la giusta reazione (specie del Marongiu) ad una secolare dimenticanza ha forse portato ad eccedere, d'altro canto senza condurre all'affermazione che il D. non fosse, in tutto e per tutto, figlio del proprio tempo; il criminalista, come altri celebrati giuristi contemporanei, ha avuto la funzione di raccogliere, trasformare e consegnare alla futura scienza un patrimonio essenziale per la costruzione dello Stato moderno. Per il resto, gli spunti di novità negati dallo storico degli istituti penali possono essere compensati da quelli attribuiti dallo storico dei fatti economici (Barbieri); e nessuno può togliere, ci pare, due importanti riconoscimenti al Tractatus: quello d'esser stato il primo (sia esso nato, o no, per la scuola) a rispecchiare l'autonomia didattica e scientifica conquistata nell'università dal diritto penale; quello d'aver rappresentato, con le sue costruzioni dogmatiche, un punto di riferimento obbligato e ricorrente per ogni criminalista: apprezzato fin dal Farinaccio, grandemente ha influenzato Anton Matthes, ed è stato utilissima palestra per la formazione di Francesco Carrara.
Quanto alle opere inedite, la questione è ancora da affrontare mediante attente ricognizioni. Non si parla tanto dei consulti singoli presenti in biblioteche di varie città (Venezia, Padova, Udine, Milano: il ms. ambrosiano contenente un parere in materia cavalleresca, segnalato dal Kristeller, op. cit., I, p. 311, è descritto da A. Ceruti, Appunti di bibliografia storica veneta contenuta nei mss. dell'Ambrosiana, II,in Archivio veneto, XII [1876], p. 223), che andrebbero confrontati con quelli stampati; né è il caso di considerare troppo il frammento di cronaca veneta in volgare (due cc.: Udine, Bibl. comunale, Fondo princ., 713), di dubbia attribuzione. Si allude piuttosto al gruppo di opere, importanti, già in possesso dell'erudito friulano Gian Giuseppe Liruti (morto nel 1780), e cioè, oltre a cose minori: tre orationes accademiche (le prolusioni del 1550 e del 1552, il discorso per la laurea del figlio Gian Francesco); quattro lavori incompleti (De officio consulentis, De interpretatione legis, un commento sul libro XLVIII del Digesto, appunti serviti per il trattato di diritto criminale); il manoscritto dell'Apologia; un grande volume di consilia, in gran parte autografi. Questi materiali, come alcuni corsi universitari presenti nel '600 nelle private raccolte di patrizi veneti, almeno in parte debbono essersi conservati. Si è potuto rintracciare, per esempio, nell'Archivio di Stato di Udine, tra i Mss. Liruti (attualmente in deposito, proprietà Biasutti), il citato tomo dei pareri decianei: porta il numero 11, conta 620 cc., comprende più di 50 consilia, molti dei quali autografi (l'ultimo reca ancora il sigillo).
L'indagine sugli inediti si manifesta necessaria poiché, oltre alle opere di cui indirettamente siamo a conoscenza, potrebbe rivelarne di totalmente ignote; per quanto abbiamo potuto vedere, nessuno dei biografi parla delle Apostillae super Patriae nostrae constitutionibus, conservate, in copia, da un ms. della Biblioteca comunale di Udine (Fondo princ., 1038; constano di 31 cc., e sono unite ad un analogo lavoro di Filippo Caimo, più ampio). Tale succinto commentario delle costituzioni friulane andrebbe accuratamente esaminato; per quanto riguarda l'autenticità dell'attribuzione, comunque, la questione che esso affronta in apertura può considerarsi alla stregua d'una firma: anche gli ecclesiastici, si dice, sono vincolati al rispetto di quelle costituzioni, poiché essi erano una componente del Parlamento che le mise in vigore.
Fonti e Bibl.: Fonti biogr. indirette debbono considerarsi l'epistolario del notaio umanista Antonio Belloni (Udine, Bibl. comunale, Fondo princ., 565: più di venti lettere, fino al 1552, indirizzate al D.), le missive segnalate, in modo sommario, come presenti nell'archivio privato dei discendenti attualmente a Omegna (Novara), dalla Guida degli archivi e biblioteche privati del Friuli Venezia Giulia, a cura di M. di Prampero de Carvalho e altri, Udine 1982, ad Indicem, e la parte del testamento pubblicata in Stampa del nobil Sign. Deciano Deciani al laudo, s.l. né d. (ma ultimo documento datato 1780; una copia nell'Arch. di Stato di Udine, Fam. nobili, 2). pp. 3-16; cfr. anche i Diarii udinesi dall'anno 1508 al 1541 di Leonardo e Gregorio Amaseo e Gio. Antonio Azio, a cura di A. Ceruti, Venezia 1884, ad Indicem; numerosi appunti di P. Antonini sul D., e copia dei diplomi di nomina a conte e a cavaliere si trovano nella Bibl. comunale di Udine (Fondo princ., 1543, 1006). Il saggio di A. Marongiu, T. D. (1509-1582) lettore di diritto, consulente, criminalista, Bologna 1934 (estr. da Rivista di storia del dir. ital., VII [1934]) ha reso quasi inutile la consultazione delle opere precedenti, tranne quella di G. G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da' letter. del Friuli, III, Udine 1780, pp. 376 ss. (in questo, alle pp. 398-405, le biografie di Nicolò e Gian Francesco); compilativo il profilo dato da G. Marchetti, Il Friuli. Uomini e tempi, Udine 1959, pp. 261-65, 292, 751. Per l'ambiente storico e sociale cfr. A. Tagliaferri, Struttura e politica sociale in una Comunità. veneta del '500 (Udine), Milano 1969, passim e p. 161 per una cit. puntuale del D.; per quello culturale alcuni saggi della Storia della cultura veneta. Dal primo Quattrocento al concilio di Trento. Vicenza 1980-81, in particolare L. Franzoni, Antiquari e collezionisti del Cinquecento (III, pp. 234 e 264 per citazioni del D.), e F. Dupuigrenet Desroussilles, L'Università di Padova dal 1405 al Concilio di Trento (II, per il D, pp. 643, 646 s.). Sui singoli argomenti: laurea: Acta graduum academ. ab anno 1526 ad annum 1537, a cura di E. Martellozzo Forin, Padova 1970, p. 111; medaglia coniata in tale occasione: A. S. Norris, Cavino, Giovanni da, in Diz. biogr. degli Ital., XXIII, Roma 1979, p. 110; Apologia: F. Schaffstein, Zum rechtswissenschaftlichen Methodenstreit im 16. Jahrhundert, in Festschrift für Hans Niedermeyer, Göttingen 1953, pp. 195-24; L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano 1967, pp. 135-140; Tractatus: F. Schaffstein, Tiberi us Decianus und seine Bedeutung für die Entstehung des Aligemeinen Teils im gemeinen deutschen Strafrecht, in Deutsche Rechtswissenschaft, 1938, pp. 121-148; Id., Die europaische Strafrechtswissenschaft im Zeitalter des Humanismus, Göttingen 1954, pp. 45 ss.; I. Mereu, Culpa = colpevolezza. Introd. alla polemica sulla colpevolezza fra i giuristi del diritto comune, Bologna 1972, pp. 34 ss., 50 ss., 123 ss.; A. Marongiu, La scienza del diritto penale nei secoli XVI-XVIII, in La formazione del diritto moderno in Europa, Atti del III Congresso intern. della Soc. ital. di storia del diritto, I, Firenze 1977, pp. 407-429. Le citazioni di esempi sono tratte da G. Alessi Palazzolo, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno, Napoli 1979, p. 26, n. 29 (cfr. anche pp. 112 ss.) e da M. Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis, Milano 1974, p. 248; il saggio cit. di G. Barbieri è Spunti di naturalismo economico in un giurista ital. del '500: T. D., in Studi economico-giuridici pubbl. per cura della fac. di giurisprudenza dell'univ. di Cagliari, Milano 1939, pp. 371-91.Per i cenni all'iconografia cfr. G. Fiocco, Francesco Segala ritrattista, in L'Arte, n. s., V (1934), pp. 58-65, e E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane..., VI,Venezia 1858, p. 887.