BRANDOLINI, Tiberto
Figlio di Sigismondo - condottiero distintosi dapprima al servizio sforzesco e poi in quello della Repubblica di Venezia - e di Margherita, della famiglia piacentina dei conti Scotti, nacque intorno al 1470, presumibilmente nel feudo familiare di Bagnacavallo.
Visse prevalentemente a Forlì: qui, alla corte degli Ordelaffi, si addestrò al mestiere delle armi, tradizionale nella sua famiglia, ed ebbe per decenni una parte di primo piano nelle vicende politiche cittadine, figurandovi come uno dei principali esponenti del partito ghibellino, nel quale si raccolsero gli ultimi sfortunati fautori della "libertà" cittadina contro la politica sopraffatrice dei pontefici, fermamente decisi da Sisto IV in poi - pur con le ambiguità e le contraddizioni del nepotismo - a ricondurre l'intera regione romagnola nell'ambito dell'unità politica dello Stato ecclesiastico.
Nelle vicende della lotta tra gli Ordelaffi e Girolamo Riario, conclusesi con la definitiva sconfitta e cacciata da Forlì degli antichi signori, nel 1480, il B. fu bandito dalla città e dallo Stato pontificio e i suoi beni confiscati: pare che un analogo provvedimento fosse preso a suo carico anche dal duca di Ferrara, forse su richiesta del governo pontificio, poiché nel novembre del 1493 Sigismondo Brandolini lasciava per testamento il feudo di Bagnacavallo al figlio Brandolino, con la clausola che questi dovesse restituire al fratello la metà dei beni ereditati, qualora il B. avesse ottenuto la grazia del duca e fosse stato riammesso nel dominio ferrarese.
Sino al 1500 non si hanno notizie del Brandolini. Presumibilmente egli visse in questo periodo in territorio veneto, prestando servizio militare per la Repubblica, gran protettrice, nel quadro delle sue mai dismesse pretese sulla Romagna, degli esuli dal territorio ecclesiastico. Fu riammesso in Forlì, appunto nel 1500, da papa Alessandro VI, quando la città cadde sotto il dominio dei Borgia. Tuttavia riprese ben presto la sua lotta contro i pontifici, nella fazione ghibellina, che si stringeva intorno alla famiglia Numai, caldeggiando il ritorno in Forlì degli Ordelaffi e la restaurazione della loro signoria. E nel 1504, nella crisi del dominio ecclesiastico nelle Romagne seguita alla morte di Alessandro VI ed alla rovina del potere borgiano, negli ancora incerti inizi del pontificato di Giulio II, il ritorno a Forlì di Antonio Maria Ordelaffi trovò il necessario sostegno militare nelle milizie "ghibelline" capeggiate dal B. e da Luffo Numai.
La morte dell'Ordelaffi, in quello stesso anno, riapriva però immediatamente per il partito ghibellino il problema di una soluzione istituzionale che garantisse l'autonomia della città dal risorgere delle velleità annessionistiche pontificie: un problema in realtà insolubile, giacché la proposta caldeggiata dallo stesso B. di una dedizione della città alla Repubblica di Venezia dimostrava come la rivendicazione della "libertà" dalla Chiesa non fosse in sostanza un vero programma autonomistico, ma soltanto una prospettiva di dominio cittadino da parte di una fazione sull'altra.
Contro questa possibilità insorse tuttavia decisamente il partito guelfo: la casa del B. fu messa a sacco, con quelle degli altri maggiori esponenti della fazione. Costretto ad abbandonare precipitosamente Forlì, il B. si rifugiò a Rimini, presso il provveditore veneziano. A questo - e al Senato veneto - il B. chiese insistentemente di sostenere il suo programma di annessione di Forlì alla Repubblica e sollecitò truppe per rientrare nella città. Venezia tuttavia non era in quel momento incline ad un maggiore impegno nelle Romagne, che avrebbe peggiorato i già difficili rapporti con Giulio II, e respinse le proposte del Brandolini. L'aiuto rifiutato da Venezia venne ai fuorusciti forlivesi dalla fazione bentivogliesca, estromessa da Bologna ad opera di Giulio II e disponibile per ogni iniziativa antipapale nella regione: fuorusciti bolognesi e forlivesi sconfissero infatti i pontifici a Cesena ed il B. poté rientrare a Forlì, dove fu ristabilito il predominio della sua fazione.
Era tuttavia un successo provvisorio: sino al 1507 la città romagnola fu il teatro di continue alternanze di potere e di depressione per le due fazioni contrapposte. I ghibellini furono infatti nuovamente scacciati da Forlì nel giugno del 1504 ad opera di Guidubaldo da Montefeltro, duca d'Urbino e gonfaloniere della Chiesa. L'anno successivo il B., radunate nuove milizie, rientrava ancora in Forlì scacciandone i guelfi. Questi, a loro volta, insorsero nuovamente nel 1506: il B. tentò di fronteggiarli ricorrendo ancora al soccorso dei fuorusciti bolognesi al comando di Ermes Bentivoglio; perdette il controllo della città, ma ritiratosi nella rocca insieme con il Bentivoglio costrinse il partito vincitore ad una condizione di tale precarietà che una soluzione di compromesso divenne indispensabile. Questa fu trovata nell'ottobre del 1506, e fu ratificata nel gennaio dell'anno successivo da Giulio II, durante la visita del pontefice a Forlì; la città veniva confermata nell'amministrazione pontificia, ma i ghibellini ottenevano sostanziali garanzie di parità politica con la fazione guelfa.
Seguirono alcuni anni di quiete per la vita forlivese: una situazione evidentemente insopportabile per Pirrequieto B., che infatti cercò più ampi orizzonti alla sua aggressività arruolandosi col marchese di Mantova Giovanni Gonzaga, capitano generale dell'imperatore Massimiliano d'Austria nella guerra di Cambrai. Il B. si distinse particolarmente nella difesa di Verona contro l'esercito veneziano, nel 1510. Dalla fortezza di San Felice, che gli era stata affidata dal Gonzaga, riuscì con una audace e fortunata sortita notturna a costringere il condottiero veneto Lucio Malvezzi a togliere il campo.
Questo episodio indusse Massimiliano d'Asburgo a prendere un curioso impegno nei riguardi del B., del resto, molto probabilmente, su richiesta dello stesso condottiero romagnolo. L'imperatore, infatti, "consederando li gratissimi et fedeli obsequi li quali in questa nostra expeditione contro Venetiani et specialmente in diffendere la città nostra di Verona" gli aveva prestato il B., prometteva di investirlo del feudo di Valmareno, appartenente al ramo veneto della famiglia Brandolini, "subito che cavato dalle fauci dei nostri nemici ci pervenirà nelle nostre mani". L'aspetto curioso della promessa stava nel fatto che questo feudo, che si trovava in territorio veneto, era in tutto sottoposto al dominio della Repubblica ed in nessun modo l'imperatore poteva disporne, a norma di diritto feudale. Altrettanto ingiustificata era l'accusa al titolare della contea di Valmareno, Gianconte Brandolini, uno dei principali condottieri veneti in quella campagna, di essere "nostro ribelle", poiché il conte di Valmareno non era legato da alcun vincolo politico o feudale con l'Impero. Comunque, quali che fossero le incongruenze giuridiche dell'impegno imperiale, la promessa non ebbe seguito, poiché gli Imperiali non entrarono mai in possesso di quel territorio.
Tornato il B. a Forlì, nel luglio del 1513 la fazione guelfa insorse nuovamente nel tentativo di rompere l'accordo stabilito con il partito avversario: le case del B. e di altri esponenti ghibellini furono saccheggiate ed arse. Ma questa volta furono le stesse autorità ecclesiastiche a ristabilire l'ordine imponendo ai responsabili di indennizzare il Brandolini. Di qui appare evidente che il condottiero si era completamente sottomesso al nuovo regime politico forlivese. In effetti Leone X stabilì che egli rientrasse in possesso di tutti i beni confiscatigli in conseguenza della sua attività di fazionario, e nella riforma della amministrazione forlivese lo prepose persino all'importante magistratura di capo del Consiglio dei nobili.
Questi nuovi rapporti con le autorità ecclesiastiche non impedirono tuttavia al B. di prendere condotta con uno dei più irriducibili avversari del pontificato, il duca di Urbino Francesco Maria Della Rovere, esautorato da Leone X nel 1516 a vantaggio del nipote Lorenzo de' Medici. Nel piccolo esercito del Della Rovere il B. partecipò all'abortito tentativo del duca di rientrare in possesso del suo Stato, nel 1517. Cinque anni dopo, quando la morte di papa Medici ed il debole e tormentato pontificato di Adriano di Utrecht autorizzarono le velleità di restaurazione dei vari signori esautorati dell'Italia centrale, il condottiero romagnolo riprese le armi nell'esercito congiunto del Della Rovere e di Malatesta ed Orazio Baglioni. Con loro partecipò alla riconquista di Urbino, di Perugia e di Fano.
Rimase poi ancora al servizio del Della Rovere, che aveva riassunto il comando dell'esercito pontificio, partecipando alle campagne di Lombardia del 1523-1525: su tale attività non si hanno peraltro notizie sicure. Si ritirò infine nei suoi feudi di Bagnacavallo - segno che gli antichi provvedimenti presi contro di lui dalla corte estense erano stati revocati - e qui morì nel 1531.
Bibl.: A. Brandolini d'Adda, I Brandolini di Bagnacavallo, Venezia 1945, pp. 109 ss.