TIBET (A. T., 97-98)
L'altipiano del Tibet è il più imponente sistema di alte terre del mondo, congiungendo alla grande estensione e alla compattezza una fortissima elevazione media, intorno a 5000 m. s. m. Questi fatti, unitamente alla posizione interna nel grande continente asiatico, determinano caratteri sia fisici sia umani veramente singolari.
Sommario. - Nome (p. 800); Esplorazione (p. 800); Morfologia e geologia (p. 800); Clima (p. 801); Idrografia (p. 801); Flora e vegetazione (p. 802); Fauna (p. 802); Popolazione (p. 802); Antropologia (p. 803); Condizioni economiche (p. 804); Ordinamento politico (p. 804). - Lingua (p. 807). - Religione (p. 807). - Etnografia (p. 807). - Arte (p. 808).
Nome. - Il nome Tibet, la cui origine non è del tutto chiarita, sembra passato a noi attraverso la denominazione araba (Tibat, Tobbat), tratta da quella antica cinese (Tu-pat, Tu-fan). I Cinesi chiamano Sitsang il vasto altipiano, che rientra in gran parte, ma solo nominalmente, nei loro dominî, mentre i Tibetani dànno al loro paese varî nomi, di cui il più noto è Bod o Bod-vul.
Esplorazione. - Qualche vaga notizia sul Tibet si trova già in Tolomeo, che accenna a un fiume scorrente a nord dei Monti Emodi (Himālaya), forse lo Tsang-po. I Banti di Tolomeo sono probabilmente i Tibetani. Europei che nel Medioevo viaggiarono nella Mongolia e nella Tartaria, per informazioni avute riferirono anche qualche notizia sul Tibet: così Giovanni da Pian del Carpine (1246-47) e Guglielmo di Rubruck (1253-56); così Marco Polo, che dedica al Tibet tre capitoli del Milione. Il primo europeo che penetrò nel Tibet fu Odorico da Pordenone (1314-1330?), che vi passò durante il suo viaggio di ritorno da Kambaluk e visitò anche Lhasa (qualcuno sostiene, ma senza prove convincenti, ch'egli parli del Tibet soltanto per sentito dire).
Durante varî secoli nessun altro europeo poté penetrare nel Tibet, e precisamente fino al 1624, nel quale anno il gesuita portoghese Antonio de Andrade valicò l'Himālaya e raggiunse Tsaparang nell'alta valle del Sutlej, dove tornò l'anno successivo fondandovi una missione. Successivamente si ebbero i viaggi di Estevão Cacella e di João Cabral, i quali nel 1626 andarono a Shigatse attraverso il Bhutan; di Francisco de Azevedo, che si recò a Leh (1631); dei gesuiti Johann Grüber e Albert D'Orville, che nel 1661 dalla Cina attraverso il Kuku nor si recarono a Lhasa, dove sostarono un mese e mezzo, dirigendosi ad Agra attraverso il Nepal. Lhasa fu visitata da missionarî cappuccini ancora nel 1708 (P. Giuseppe da Ascoli) e nel 1709 (P. Domenico da Fano); nel 1716 vi giunse il gesuita P. Ippolito Desideri, che da Srinagar si recò a Leh, dove rimase quasi due mesi, poi a Tashigong, Gartok e Sarka, finché nel marzo dell'anno suddetto fece ingresso nella capitale del Tibet. Egli dimorò in questo paese quasi quattro anni, tornando in India attraverso il Nepal nel 1721. Le sue Notizie istoriche del Thibet e Memorie e missioni ivi fatte sono una miniera di acute osservazioni. Sven Hedin ha giudicato il Desideri "uno dei più brillanti viaggiatori che abbiano visitato il Tibet, e tra quelli dei secoli passati di gran lunga il migliore e il più intelligente di tutti".
Quasi contemporaneamente al P. Desideri viaggiò nel Tibet il cappuccino P. Francesco Orazio da Pennabilli, che con dodici confratelli raggiunse Lhasa, dove per i disagi e le privazioni sopportate durante il viaggio nove frati morirono. Il P. Francesco, tornato in Italia nel 1733, ripartì per il Tibet con altri nove cappuccini (era di nuovo a Lhasa nel 1741), tra i quali va ricordato il P. Cassiano Beligatti, che ci ha lasciato un'importante relazione sul paese e i suoi abitanti e, di ritorno a Roma, pubblicò fra l'altro l'Alphabetum Thangutanum sive Tibetanum (1775). I cappuccini furono costretti ad abbandonare il Tibet nel 1760 e si rifugiarono nel Nepal.
Nel 1724 si recò a Lhasa, proveniente dall'India, l'olandese Samuel van de Putte, che proseguì poi per la Cina. Egli tarnò a Lhasa nel 1736. Gl'Inglesi iniziarono l'esplorazione del Tibet nel 1774, quando vi penetrò, attraverso il Bhutan, G. Bogle, che nel 1811 fu seguito da T. Manning. All'ungherese Csoma de Körös, che visse un ventennio nel Ladakh e nel Sikkim e visitò l'estrema parte meridionale del Tibet, si devono i primi ragguardevoli lavori sulla letteratura tibetana. Nel 1846 viaggiarono nel Tibet i padri lazzaristi Huc e Gabet; dopo di loro per oltre mezzo secolo gran parte della regione rimase chiusa agli Europei e fu visitata soltanto da varî pandit indiani: Nain Singh, Kishen Singh, Kalian Singh, ecc. Nain Singh dal Nepal raggiunse lo Tsango-po ed entrò a Lhasa nel 1866, tornando nell'India per Tradum, i laghi Manasarowar, Kurmaon e Gahrwal; egli determinò la latitudine e l'altezza di numerose località compì numerose osservazioni di temperatura, fece un accurato rilievo del percorso Katmandu-Tradum e Lhasa-Gartok per un complesso di quasi 2000 km., e riconobbe il corso dello Tsang-po (Brahmaputra) dalle sorgenti fino alla confluenza del Ki-chu (il fiume di Lhasa). Nel 1867 Nain Singh esplorò la regione dei laghi Manasarowar, l'alto corso dell'Indo e del Sutlej e i dintorni di Gartok; nel 1874, partito da Leh, viaggiò nella regione a nord del Brahmaputra fino al Tengri nor, quindi si recò a Lhasa ed esplorò il paese a sud di tale città.
Kishen Singh nel 1871 da Kumaon si recò a Shigatse e al Tengri nor, dando notizia di una vasta regione sconosciuta di oltre 30.000 kmq. di superficie. Pochi anni più tardi (1878) da Dararjeeing andò a Lhasa, quindi esplorò il Tibet orientale.
Il russo N. M. Prževal′skij nel 1872 percorse il Tibet settentrionale dalle rive del Kuku nor, spingendosi, attraverso le paludi di Tsaidam, fino al Mur-ussu, uno dei rami sorgentiferi del Yang-tze kiang, e rinunciando qui a proseguire per Lhasa a causa dei disagi e della povertà dei mezzi a disposizione della sua carovana. Egli tornò nel Tibet settentrionale durante il suo quarto viaggio nell'Asia centrale (1883-85).
Dopo la spedizione armata inglese a Lhasa del 1904, l'esplorazione del Tibet fu ripresa da Europei. Nel 1913 gl'inglesi H. T. Morshead e F. M. Bailey accertarono che lo Tsang-po era connesso col Brahmaputra, di cui costituiva l'alto corso. D'importanza capitale furono i viaggi dello svedese Sven Hedin (1899-1902, 1905-1908), che scoprì la catena del Transhimalaya e determinò le sorgenti dell'Indo e del Brahmaputra. Nel Tibet occidentale (che politicamente fa parte dell'India britannica) fecero fruttuose esplorazioni F. De Filippi e G. Dainelli, (1913-14 e 1930); nel 1932 la regione fu visitata da una spedizione americana diretta da H. De Terra, la quale fra l'altro rilevò topograficamente circa 12.000 kmq. di territorio. Le più recenti esplorazioni nel Tibet sono quelle di G. Tucci (l'ultimo viaggio è del 1935), compiute prevalentemente allo scopo di studiare la religione dei Tibetani.
Morfologia e geologia. - L'altipiano tibetano ha forma grossolanamente ovale, più ristretta però ad occidente, con asse nel senso dei paralleli; si stende in longitudine fra il 76° e il 104° meridiano E., e in latitudine tra 28° e 40° N. La sua lunghezza è di circa 2600 km., la larghezza massima, tra le catene del Nan shan e il Himālaya orientale, di 1300. L'area può essere valutata a circa kmq. 2.100.000. Soltanto esili strisce lungo un tratto dei fiumi maggiori, nelle zone periferiche, si abbassano sotto 2000 m.; per contro, grandissima parte della superficie sta ad elevazioni di 4500-5500 m.
Il Tibet è orlato da potenti catene montuose, le maggiori della Terra: a sud il Himālaya, e anche il Karakorum nella parte più occidentale, a nord il K'uen lun, con le sue rughe più settentrionali dell'Altin-tagh e del Nan shan.
Il Karakorum, almeno in parte, si ascrive ancora al Tibet, ma presenta un grandioso paesaggio di tipo alpino, ben inciso, con grandi e profonde valli, ghiacciai imponenti, e solo verso oriente fa passaggio graduale all'altipiano vero e proprio (per questa e le altre grandi catene qui ricordate si vedano le voci relative). Ad oriente e a sud-est il grande altipiano manca di un orlo rilevato continuo, e scende bruscamente verso i bacini e le bassure della Cina, in parte con gigantesche gradinate, tagliato da profondissime valli; sembra però che talune catene, prolungamento di quelle interne dell'altipiano, tendano a rialzarsi presso il margine, a giudicare da qualche cima elevatissima (Minya Konka, m. 7587).
Il Himālaya notoriamente scende assai ripidamente a sud, verso le pianure indiane, mentre il versante settentrionale presenta il più spesso forme dolci di altipiano. Perciò questo versante fa già parte del Tibet, se anche tra esso ed una seconda serie di rilievi si interpongono i due lunghi solchi longitudinali dell'Indo e dello Tsangpo (Brahmaputra), fiumi che prendono origine a poca distanza l'uno dall'altro, ma si allontanano in direzioni opposte. La nuova serie di rilievi al di là delle loro valli è costituita dal Karakorum ad occidente e dal Transhimalaya al centro e ad oriente, le cui connessioni sono ancora sconosciute. Del resto anche il Transhimalaya non è affatto una catena unica, ma un complesso sistema di tronchi più o meno allungati, la cui direzione sembra variare dal NO-SE. ad occidente, all'E-O. e poi forse al SO-NE. verso oriente. Le sue massime cime stanno intorno ai 7000 metri (il Kailas, la montagna sacra degli Indiani e dei Tibetani, è alto m. 6715, altre cime superano di poco 7000 m.), i passi intorno a 5500 e sono quindi più elevati che nel Himālaya. Nel Karakorum sono invece frequenti le cime superiori a 7000 m. e talune si innalzano sopra 8000 (K2, la seconda montagna della Terra per altezza, m. 8611).
Più complesso, orograficamente, è il sistema del K'uen lun, poiché, iniziatosi con una sola imponente catena ad ovest (dal Pamir), si va allargando verso oriente diramandosi in numerose catene di poco divergenti o subparallele, che racchiudono tutto il Tibet a nord del 350 parallelo. Le catene più settentrionali scendono come ripida e compatta muraglia sui bacini del Tarim e del Han-hai, rotte qua e là dalle profonde gole di fiumi che nascono sull'altipiano; nella parte centrale prendono il nome di Altin-tagh (o Astin-tagh) e di Nan shan all'estremo orientale. Le altezze vanno diminuendo da ovest ad est (le cime da 7000-7500 m. a 5500 m.). L'asse principale del K'uen lun sembra rappresentato dall'Arqa-tagh (in media m. 6000, massimo m. 7724), con rocce cristalline. Due bacini sono racchiusi tra queste catene, lo Zaidam, più esteso ma meno elevato (m. 2700), e quello del Kuku nor (m. 3040).
La parte centrale del Tibet, priva di deflusso al mare, è un altipiano a 4600-5100 m. di elevazione (Changtang), anch'esso tutto percorso da catene e dossi montuosi, prevalentemente orientati secondo i paralleli, e che s'innalzano di poche centinaia di metri sui fondi delle ampie vallate e dei larghi bacini interposti. Questa parte è molto diversa per morfologia dalle regioni periferiche. Le catene sono uniformi groppe arrotondate, parzialmente sepolte dal detrito roccioso prodotto dall'intenso disfacimento meteorico, detrito che ricopre spesso anche i fianchi, fino quasi alle cime, lasciando raramente affiorare la roccia in posto. Oltre all'intensità del disfacimento, dovuta al clima rigido e continentale e alla mancanza di vegetazione che protegga il suolo, tale accumulo è in relazione alla scarsità di piogge, che sono insufficienti a dilavare il terreno. Le ampie superficie spianate tra queste catene, terribilmente monotone e quasi deserte; sono livellate, nelle parti centrali, da depositi alluvionali e lacustri, reliquie di antichi laghi chiusi. I laghi, generalmente salati, vi sono ancora numerosi e mostrano spesso il loro collegamento con quelli antichi più estesi nelle terrazze che li circondano a varî livelli. Anche la regione del K'uen lun presenta analoghi caratteri morfologici ed è pure quasi tutta priva di deflusso al mare, gli stessi aspetti si presentano ancora nelle larghe valli superiori, per tratti di centinaia di chilometri, dei fiumi cinesi e indocinesi (Hoang ho, Yang-tze kiang, Mekong, Saluen), che nascono sull'altipiano tra il 920 e il 960 di long., e dello stesso Tsang-po. Ma più vicino al margine dell'altipiano l'erosione di questi fiumi ha scavato profondissime gole, ha ridotto talune catene in forma di asprissime montagne di tipo alpino, con ghiacciai anche grandi, mentre nelle catene interne questi sono piccoli e non troppo frequenti. Fortissimo è quindi il contrasto fra questa zona periferica e la zona centrale, contrasto che si ripete nell'alta valle dell'Indo (Karakorum) e anche nella sezione più occidentale del K'uen lun.
La complessa conformazione orografica dell'altipiano indica senz'altro che questo non è già un tavolato, ma una regione a pieghe. La grande elevazione di questa zolla centro-asiatica risulta dall'avvicinarsi e comprimersi di potenti catene montuose corrugate, non tutte però della stessa età. Nel Karakorum e nel Himālaya, sopra terreni cristallini antichi, si appilano enormi serie sedimentarie marine, paleozoico-mesozoiche, coronate dall'Eocene ancora marino, e con intrusioni granitiche e di altre rocce eruttíve. Alle loro spalle l'altipiano, fino al Kuen lun, è costituito, in gran prevalenza, da rocce marine giurassico-cretaciche con predominio delle seconde alla superficie (l'Eocene si trova ancora lungo la valle dello Tsang-po). Si tratta di calcari con orbitoline o rudiste, arenarie, scisti e quarziti, per il Cretacico, inglobanti tipi diverai di rocce eruttive, specialmente lungo le valli dello Tsang-po e dell'Indo (lipariti, porfiriti dioritiche, daciti, andesiti, rocce verdi). Anche nel Giurassico si hanno calcari, scisti argillosi e filladici, quarziti. Il Triassico sembra mancare sull'altipiano centrale, mentre è ben sviluppato ad occidente, presso il valico del Karakorum (insieme con tutta una serie silurico-permica) e nella valle dello Tsang-po. Invece tutta la zona del K'uen lun, che non sembra essere stata più ricoperta dal mare dopo il paleozoico superiore, meno qualche porzione marginale, è costituita prevalentemente da terreni sedimentarî paleozoici, con scisti cristallini e graniti. Questi terreni furono corrugati nel Paleozoico superiore e la regione ha di poi attraversato un lungo periodo di continentalità, con formazione di potenti depositi fluvio-lacustri di età mesozoica e terziaria (serie di Angara e del Han-hai). Anche le catene della zona periferica sud-orientale, incise dai grandi fiumi cinesi e indocinesi, sono costituite in prevalenza dal Paleozoico, con grandi masse granitiche e fasce di scisti cristallini. Le catene meridionali (Himālaya, Karakorum, Transhimālaya) invece, debbono essenzialmente la loro formazione al corrugamento eocenico, che nel K'uen lun ha prodotto solo disturbi secondarî (specialmente spostamento di blocchi lungo linee di frattura).
Estesissimi sono nel Tibet i depositi quaternarî, alluvionali lacustri o morenici. Però è ancor poco nota l'estensione degli antichi ghiacciai pleistocenici, tranne nella ialle dell'Indo, per gli studî di G. Dainelli; ad ogni modo, anche nelle catene più interne sono state riconosciute tracce di almeno due glaciazioni, che fanno pensare ad un limite delle nevi 600-800 metri più basso dell'attuale. Questo limite si trova oggi altissimo, a 5400-5700 m. nelle catene dell'altipiano centrale, ed è ancora più elevato in vicinanza del Karakorum. Così grande elevazione è dovuta alla scarsità di nevi e in generale di precipitazioni.
Clima. - Le montagne periferiche catturano quasi intiera l'umidità portata dai monsoni e sono quindi ricche di ghiacciai, che raggiungono dimensioni imponenti nel Karakorum (Siacen, lunghezza km. 75). La parte centrale non riceve probabilmente nemmeno 200 mm. di pioggia all'anno e molto aride sono anche le catene settentrionali (Tsaidam, 110 mm.). La regione delle valli dei grandi fiumi cinesi e indocinesi è invece abbastanza umida, poiché il monsone vi incontra minori ostacoli, data l'orientazione (a sud-est o ad oriente) delle valli stesse. Dappertutto il massimo di piovosità si raggiunge nell'estate.
Anche la forte continentalità termica deve contribuire a mantenere alto il limite delle nevi; sono grandi tanto le escursioni diurne quanto quella annua. Nella zona centrale a 4500-5000 metri, la temperatura può salire di giorno fino a 25° e scende ogni notte sotto lo zero, anche nell'estate. Pure nel luglio e nell'agosto si sono registrate temperature inferiori a −10° e nel Tibet occidentale la stessa media di questi mesi può non superare i 3°,5. Nell'inverno il Tibet è certamente nna delle regioni più fredde della Terra, poiché si sono osservate temperature minime di −40°, mentre le medie stanno intorno a −15°. Assai migliori sono le condizioni climatiche lungo le valli dell'Indo e dello Tsang-po, sotto 4000 m. di altezza: a Leh (3500 m.) la media del luglio è di 17°, del gennaio di −8°,2, a Lhasa (3600 m.) rispettivamente di circa 19°,5 e -2°,8. I venti su tutto l'altipiano sono spesso in forma di improvvise e violente tempeste, pericolose perché accompagnate di frequente da freddo intenso, da neve o da grandine.
Idrografia. - Una vasta zona centrale dell'altipiano e anche la massima parte delle catene e dei bacini settentrionali sono prive di deflusso al mare. Non vi si sviluppa nessun grande corso d'acqua (ad eccezione del Tarim e di qualche suo affluente, sul versante settentrionale e quindi esterno dell'Altin-tagh), per il frazionamento in molti bacini orografici e per la scarsità delle precipitazioni. Fiumi permanenti sono di solito soltanto quelli nutriti dai ghiacciai. Invece vi sono numerosi i laghi, in maggior parte salati e non profondi, e gli acquitrini fangosi o anch'essi salati. In maggioranza si tratta di laghi senza emissario. I principali sono il Tengri nor (a 4630 m., esteso kmq. 1700) e il Selling tso (4611 m.), sull'altipiano centrale, il Kuku nor (a 3040 m., esteso kmq. 4800) a NE. Il Karakorum, la Transhimālaya (versante sud) e il fianco settentrionale del Himālaya mandano le loro acque all'Indo, al Sutlei e allo Tsang-po (Brahmaputra) e quindi all'Oceano Indiano. Anche queste regioni presentano numerosi laghi, per lo più forniti di emissario, e di cui il principale è lo Yamdroktso (a 4374 m., kmq. 880), seguito dal lago sacro Manasarowar (4602 m., kmq. 558). Verso oriente una estesa zona è tributaria dei fiumi cinesi e indocinesi, lo spartiacque verso i bacini chiusi correndo press'a poco lungo il 91° meridiano. In tutto il Tibet sono assai numerose le sorgenti calde.
Flora e vegetazione. - La flora tibetana consta di varî elementi: anzitutto piante emigrate dal Himālaya e dalle montagne della Mongolia, poi piante della Cina, vegetali delle steppe i quali si spingono dalle basse steppe del Caspio attraverso la Persia fino agli elevati altipiani del Tibet e fra questi dominano le Graminacee (Triticum procumbens, Elymus dasystachys, Bromus crinitus, Glyceria Caspia, Schismus minutus, Aristida pungens, Lasiagrostis splendens, Stipa Szovitsiana e orientalis) e finalmente un certo numero di forme endemiche fra cui un genere di Composte (Allardia) con molte specie, la Cariofillacea Thylacospermum e le Graminacee Ptilagrostis e Leucopoa che si spingono fino al Gobi e la prima giunge al Himālaya indiano del Sikkim.
La vegetazione generalmente è poverissima, il suolo nella maggior parte della superficie è roccioso e ciottoloso e i pascoli sono rari. In molte montagne mancano assolutamente le foreste, e le piante legnose sono ridotte a pochi arbusti decombenti e sdraiati al suolo; ciò è dovuto all'aridità del terreno, alla grande secchezza atmosferica e ai venti violentissimi che dominano in gran parte del territorio tibetano.
Dopo le foreste di latifoglie e di aghifoglie del versante indiano del Himālaya si trova una modesta foresta di pioppi sul versante settentrionale del K'uen lun, e le pendici di questo sistema fino a 3000 m. presentano anche boschi di Abies Schrenkiana, Betula Bhojpattra, Juniperus foetidissima, mescolati anche con Populus tremula e Sorbus aucuparia: ciò si deve alla maggiore umidità della regione e alle abbondanti piogge estive di questa parte del territorio.
Però le piante legnose si possono spingere ad altezze maggiori: infatti Thomson a 4350 m. ha trovato un ciuffo di Myricaria arboree e un gruppo arboreo di Hippophaë; nella regione alpina fino a 4500 m. crescono rododendri (Rhododendrum capitatum e Prschewalski), Rubus, Salix, Ribes, Potentilla fruticosa, Caragana Jubata, mentre i cespugli di Caragana versicolor che raggiungono altezza d'uomo e insieme con lo sterco degli animali forniscono l'unico combustibile della regione, si spingono fino a 5197 m. s. m. cioè a un livello superiore a quello raggiunto dalla maggior parte delle Graminacee.
I prati alpini dei monti del K'uen lun presentano una vegetazione costituita da varie specie di Astragalus e Oxytropis, diverse Ombrellifere, Meconopsis racemosa e quintuplinervia, Papaveracee dai bellissimi fiori, varie Corydalis, Caltha palustris, Trollius pumilus, Anemone micrantha, Primula farinosa, Rhéum pumilum: qui le piante sono nane e raggiungono un'altezza di 2-5 cm. Ai prati alpini segue il deserto alpino pietroso.
Nel Tibet nord-orientale e precisamente nelle catene del Nan shan si osservano nelle pendici inferiori caratteri desertici con una vegetazione steppica costituita da Kalidium gracile, Reaumuria trigyna, R. Songarica, Lasiagrostis splendens, ecc.; solo sui margini dei ruscelli crescono fitti cespugli (Hedysarum multijugum, Nitraria Schoberi, Comarum Salessowii, Caryopteris Mongolica, Hippophaë) mescolati a Graminacee (Hordeum patens, Triticum strigosum ecc.) e altre piante erbacee (Potentilla bifurca e dealbata, Calimeris alyssoides, Adenophora Gmelini, Rheum spiciforme). I prati alpini si trovano fra 3300 e 3900 m. e presentano una ricca vegetazione di Leguminose (Oxytropis falcata, Kansuensis, strobilacea e altre specie; parecchi Astragalus), genziane (Gentiana decumbens, prostrata, tenella), Ranunculus affinis, Potentilla multifida e fruticosa, Allium strobilaceum, Pedicularis labellata, Polygonum viviparum, Taraxacum glabrum, Carex ustulata; nel deserto pietroso che va da 3780 a 4110 m. la vegetazione è straordinariamente magra: Saxifraga, Saussurea sorocephala, Pyrethrum, Thylacospermum.
Al di sopra dei 4000 m. sugli altipiani battuti dai venti impetuosi la vegetazione consta essenzialmente della Ciperacea Kobresia Tibetica che non supera i 15 cm. d'altezza; qua e là fino a 4500 m. si trova la Lonicera Tibetica detta "yabagere" che è l'unica pianta legnosa di certe zone e che Godwin Austen trovò abbondante fino a 5500 m. sui monti di Chang-chen-mo.
Verso la frontiera dello Sze-ch'wan si trovano: le belle Orchidee Cypripedium guttatum (che cresce anche in Siberia e in Russia) e Habenaria Davidi; Acer pictum, Amygdalus, Prunus, molte forme endemiche di Rhododendrum, Gentiana, Primula, Pedicularis, Epilobium angustifolium la Bignoniacea Incarvillea dagli splendidi fiori.
Nella flora delle regioni elevate del Tibet si osserva una mescolanza di forme artiche e steppiche, perché in queste regioni il clima della steppa è associato al clima alpino e sul suolo arido il periodo vegetativo è abbreviato dalla secchezza atmosferica, mentre nelle zone in cui esistono acque correnti è la durata del periodo invernale che determina questa riduzione del periodo vegetativo. Negli antichi bacini marini la salinità del suolo lascia crescere solo Artemisie alofitiche e Chenopodiacee.
Il limite superiore della coltura dei cereali è di 4235 m. nel Grande Tibet e 4483 m. nel Piccolo Tibet, mentre gli ultimi prodotti dell'agricoltura tibetana (navoni e ravanelli) si spingono fino a 4577 m.; i cereali coltivati nel Tibet sono l'orzo, il frumento e il grano saraceno e nelle vallate calde e riparate si coltivano alberi fruttiferi come meli, noci, peschi, albicocchi e sarsin (Elaeagnus Moorcroftiana).
Fauna. - La fauna del Tibet è molto interessante per le specie peculiari che presenta, offrendo in complesso le note caratteristiche della regione paleartica. Tra i Mammiferi è da citare la rossellania, una scimmia del gruppo dei Semnopitechi che vive nel Tibet orientale, e il macaco tibetano che abita le alte e fredde foreste della regione. I Chirotteri vi sono rappresentati da molte specie. I Carnivori annoverano la tigre, che però vi è rara, l'irbes, un grosso felino dal folto pelo e dal colore grigiastro macchiato di nero che vive particolarmente nella regione, per quanto la sua area di distribuzione sia più vasta, l'orso melanoleuco del Tibet orientale e numerose altre specie del gruppo. Tra gli ungulati sono da segnalarsi varie pecore selvatiche, tra le quali il bharal, che ricorda nell'aspetto la capra; il takin, la capra siberiana, la gazzella del Tibet, lo tschirn - un'antilope - il cervo del Tibet, il cervo col ciuffo e infine il mosco muschifero, lungo circa un metro ed alto quasi la metà che vive a grandi altitudini e i cui maschi possiedono una particolare ghiandola che fornisce il muschio. Nel Tibet orientale troviamo ancora uno sdentato, per quanto raro, il pangolino cinese. Nel Tibet centrale vive in mandre numerosissime lo yak, il caratteristico bue tibetano, animale tipico dell'alta montagna, che non si trova mai sotto 2000 m. d'altezza. Splendide per colori le specie di Uccelli; interessante la fauna erpetologica e quella degl'Invertebrati, che presenta le caratteristiche proprie ai complessi faunistici asiatici dell'alta montagna.
Popolazione. - Il Tibet è la sede di una caratteristica popolazione mongolica, linguisticamente imparentata ai Cinesi (v. indocinesi, lingue, XIX, p. 129 segg.), il popolo tibetano, di cui è singolare l'uniformità di caratteri, nonostante la dispersione su uno spazio immenso e la difficoltà di comunicazioni. La grande zolla rilevata centro-asiatica è un'isola di rifugio, un baluardo, per questo popolo così diffidente verso gli stranieri, che cerca di tenere lontani dal paese. Solo marginalmente, nello Zaidam e nel Nan-Scian, compaiono tribù mongole, e nella valle dell'Indo, dove è più bassa, succedono popolazioni bianche, per quanto in parte influenzate dai Tibetani. Questi, del resto, hanno di poco oltrepassato lo spartiacque del Himālaya centrale ed orientale, penetrando nelle valli del versante sud. Difficile è stimare la consistenza numerica della popolazione del Tibet. Alcuni l'hanno valutata a 3-4 milioni (S. Hedin), altri solo a 2 milioni; per la sola parte politicamente dipendente da Lhasa si dànno 1.500.000-2.000.000 di ab., valori che portano la densità a 1,3-1,7 ab. per kmq. Ma la popolazione è distribuita in modo quanto mai irregolare, e gran parte del Tibet settentrionale, fino a circa 35°, si può ritenere deserto, meno che ad oriente; soltanto cacciatori e cercatori d'oro attraversano le catene del K'uen lun. Deserte sono generalmente anche tutte le catene che si elevano nella zona centrale, mentre le larghe vallate, beninteso a sud del 35° parallelo, sono percorse da pastori nomadi ed hanno anche qualche raro insediamento fisso, come Sendia-dsong (Transhimālaya). La massima parte del popolo tibetano si accentra nelle regioni periferiche e particolarmente nella valle dello Tsang-po (sotto 4000 metri d'altezza) la quale può ben dirsi la culla di questo popolo, il suo centro culturale ed economico. In essa i centri abitati e i grandi monasteri sono numerosi (Lhasa, capitale politica e spirituale, con 15-20.000 ab., Gyangtse, Shigatse, ecc.), caratteristici di solito per le loro case disposte in grandiosa gradinata sui fianchi delle montagne. Questa relativa fittezza della popolazione dipende naturalmente dalle migliori condizioni climatiche e quindi dalla possibilità dell'agricoltura. Anche nella zona marginale di sud-est, cioè nelle grandi valli dei fiumi cinesi e indocinesi la popolazione è abbastanza densa e sedentaria, mista di elementi cinesi.
Caratteristica eminente del popolo tibetano è, notoriamente, lo stretto collegamento, anzi la dipendenza, di ogni manifestazione, spirituale o materiale, con la religione, la forma di buddhismo chiamata lamaismo (v. lamaismo). Un'aristocrazia clericale ha da tempo sostituito nella vita del paese l'antica aristocrazia laica. Tutta l'attività culturale, artistica e spirituale, e si può aggiungere quella politica, si concentra nei numerosi e spesso grandiosi monasteri, sparsi un po' dovunque; generalmente essi sono situati in posizione pittoresca e forte su speroni o contrafforti rocciosi, e molti sono anche circondati da mura merlate, assumendo così l'aspetto di fortezze. Alcuni di questi monasteri (come quelli di Sera, Galdan e Depung, non lontani dalla capitale) accolgono migliaia di monaci. Ogni famiglia cerca di collocare almeno un figlio nel clero, di cui si può stimare faccia parte 1/8-1/6 della popolazione (altri portano il rapporto a 1/4!). Il celibato dei monaci e la frequente poliandria sono causa del nessun incremento della popolazione. Si può aggiungervi anche la generale povertà, con il basso livello di vita, e lo scarso rispetto delle più elementari norme igieniche.
Antropologia. - Notizie esatte e recenti sui caratteri antropologici esterni dei Tibetani e specialmente sulla loro antropometria sono molto scarse. Il Risley, nella sua ben nota trattazione delle razze dell'India, porge dati certi su 108 individui, indicati di lingua bhothia, di provenienza del Himālaya orientale. Essi hanno un indice cefalico medio di 81, un indice nasale di 73,9, una statura di 163,3, un indice orbito-nasale (indice che esprime la prominenza della radice del naso) di 109,1, ciò che dimostra una prominenza relativamente scarsa. Molti altri gruppi, elencati dal Risley nel suo "tipo mongoloide" devono essere assai simili a questi Tibetani, ma non è il caso di discutere ciò, dati soprattutto i pochi caratteri considerati dall'autore.
A ragione della penuria di dati somatici sui gruppi etnici del Tibet proprio, è tanto più opportuno riferire i risultati ottenuti dalla spedizione italiana del 1913-14 al Himālaya e Karakorum, sopra alcune popolazioni dell'alta valle dell'Indo (piccolo Tibet), che per il loro carattere si possono affatto avvicinare alle genti del vero Tibet. I gruppi etnici che sono in queste condizioni sono quelli dei Ladachi e dei Ciangpa, di cui i primi sono però più inquinati da miscela con forme ad affinità completamente diversa (Baltì, Machnopa), mentre i Ciangpa, dimoranti nella più alta valle, alla confluenza delle due catene del Karakorum e del Himālaya, sono i più buoni rappresentanti del tipo tibetano. Osservazioni e misure furono eseguite da G. Dainelli, mentre l'elaborazione dei risultati fu compiuta da R. Biasutti. La colorazione della pelle, presa sulla fronte, attribuisce ai Ladachi e Ciangpa la più intensa colorazione bruna dei gruppi studiati e ai Ciangpa soprattutto, che hanno circa la metà dei casi con una colorazione rispondente al n. 25 della scala v. Luschan. Ma sul petto il colore è molto più chiaro.
I capelli e gli occhi sono neri, ma nei Giangpa gli occhi sono talvolta verdognoli o grigi; non si può però escludere che ciò sia effetto dell'età avanzata di molti soggetti. La forma del capello appare alquanto divergente, per presenza di forme ondate, dalla tipica dei Tibetani, con capelli rigidi e diritti, scarsa barba, pelosità corporea nulla. 47 Ladachi diedero una statura media di 164 e altrettanti Ciangpa una di 162. L'indice schelico, che dà il rapporto fra tronco e statura, ha i valori medî di 53 per i 47 Ladachi e di 53,55 per i 47 Ciangpa; cioè di mesatischelia. È opportuno osservare che entrambe le serie presentano le percentuali minori di brachischelia, che è pure un sintomo di mongolismo, per l'opinione comune. L'indice cefalico di 47 Ladachi è di 78 e quello di 47 Ciangpa 83. Per ciò che riguarda l'importantissimo carattere dell'altezza del cranio, mancano le misure relative, ma dal valore piuttosto forte della larghezza della testa, soprattutto in relazione alla statura piccola, si deve pensare che i Ciangpa siano abbastanza frequentemente platicefali. L'indice nasale dà per i Ladachi il valore di 75, per i Ciangpa di 72. La plica mongolica è stata osservata solo nei Ciangpa. Il Biasutti concludeva il suo esame facendo rientrare i Ciangpa e in misura più limitata i Ladachi, nel tipo mongolico vero e proprio. Successivamente però egli adottò l'opinione del Sera, di cui diremo oltre. Più abbondanti sono i dati sui cranî. Il Morant, della scuola del Pearson, studiò in un primo lavoro 17 cranî del Tibet del SE. e 15 cranî del Khams, un distretto del Tibet orientale. In un secondo lavoro poi, 57 cranî del Nepal e 25 ancora del Tibet sudorientale. Egli denomina i primi e gli ultimi tipo A e lo reputa prossimo al tipo Birmano A, distinto precedentemente dalla signorina Tildesley, fra 142 cranî della Birmania, da lei studiati. A questo tipo A avvicina anche i cranî del Nepal. I cranî del distretto di Khams, invece, giudica appartenere a un tipo, diverso e assai distinto dal Tibetano A, che egli chiama B e che giudica prossimo al tipo Birmano C, distinto dalla signorina Tildesley. Questa avrebbe poi separato ancora un altro tipo in Birmania, che ella crede risultare da miscela fra i due da lei precedentemente distinti, e che chiama B. Dato il riferimento fatto dal Morant a questi tipi birmani è opportuno dire che la Tildesley indica il suo tipo A, come un tipo più o meno mongoleggiante (simile al malese, dice la Tildesley) il tipo C come un tipo europeggiante (simile al cinese, dice la Tildesley). Diamo i valori medî di alcuni caratteri di questi due gruppi: il tipo A avrebbe una capacità cerebrale media di 1452 (36 casi), un indice cefalico orizzontale di 79,2 (35 casi), un indice facciale di 69,7 (33 casi; occorre tuttavia ricordare che la larghezza facciale è qui quella di Virchow; v. cranio), un indice nasale di 50,2 (36 casi), un indice orbitale di 82,2 (37 casi). I valori corrispondenti per gli stessi caratteri del tipo Tibetano B sono: 1537,7 (14 casi); 75,3 (14 casi); 76 (15 casi); 49, (15 casi); 88,6 (15 casi). Questo tipo Tibetano B il Morant trovò affine al tipo Moriori e Fuegino e residuo perciò, egli afferma, di una stratificazione umana antichissima.
In un lavoro posteriore (1932), in cui egli cerca di arrivare ad una classificazione delle razze asiatiche, in base ai risultati dell'applicazione del coefficiente di somiglianza raziale (C. R. L. = Coefficient Racial Likeness) del Pearson, il Morant allarga la sfera delle comparazioni e stsbilisce delle catene di affinità. Così il Tibetano A sarebbe prossimo a tutti i tipi umani dell'Asia del SE., mentre il Tibetano B si avvicinerebbe ai Cinesi preistorici, attraverso i Ciukci recenti. La parentela dei Tibetani coi Fuegini e coi Moriori era stata già affermata, sino dal 1918, dal Sera, ma non limitata al tipo tibetano orientale (B del Morant) ma estesa a tutti i Tibetani; anche, dall'altra parte, le affinità dei Tibetani non si limitano, secondo il Sera, ai Fuegini e Moriori, ma si estendono a molti altri gruppi americani e polinesiani. In altre parole, tutte queste genti rientrano, per i caratteri descrittivi della faccia, nel primo tipo umano del Sera, o tipo tibetano-polinesiano (v. fisionomia) a cui egli, per ragioni morfologiche, attribuisce un'antichità massima fra i tipi umani da lui distinti. Secondo il Sera, le differenze ammesse dal Morant fra tipo tibetano A e B non sono che una conseguenza illusoria dell'applicazione del C. R. L. Ciò non si deve intendere nel senso che esso non sia una buona espressione matematica della somiglianza, ma che esso non è, come ogni espressione matematica, che una forma, che assume un valore concreto, sostanziale, a seconda del valore discriminativo, raziale, tipico dei caratteri scelti per le misure. Orbene nei 31 caratteri scelti dal Morant, ben 19 sono dimensioni assolute. Ciò significa che l'elemento dimensione corporea (elemento che ha scarso valore tipico) ha un'importanza troppo forte a determinare i valori del C. R. L. Anche le variazioni di valore gerarchico (e quindi di mediocre valore raziale) del cranio si esprimono sulle dimensioni assolute. Del resto anche i restanti 12 indici non hanno un valore tipico, a distinguere i grandi gruppi raziali, secondo il Sera, ma al più possono servire per le divisioni secondarie, all'interno dei grandi gruppi, che sono definiti soltanto dai caratteri descrittivi facciali. Il Sera poté esaminare a lungo le due serie dei Tibetani di Londra, studiate nel primo lavoro dal Morant, ed egli crede che i caratteri descrittivi facciali siano assolutamente identici nelle due serie ed appartenenti al suo tipo tibeto-polinesiano. La differenza consisterebbe nel fatto che il tipo A sarebbe più piccolo ed a cranio più rotondeggiante, a caratteri gerarchici un po' più bassi, il secondo più grande, più dolicocefalo, a caratteri gerarchici superiori. Queste differenze si scorgono bene nelle due figure che diamo e che riproducono appunto cranî della serie di Londra.
Condizioni economiche. - Il dominio dell'aristocrazia religiosa, di cui s'è detto sopra, si manifesta anche nella vita economica tibetana. La ricchezza è infatti in mano dei lama, cioè dei monaci, e dei monasteri; ad essi appartengono le terre più estese e più fertili, le mandre e i greggi più numerosi, e da essi dipendono in gran parte i contadini e gli stessi pastori.
Sugli altipiani steppici i nomadi (che sono forse 1/5-1/6 della popolazione totale) traggono le loro risorse dall'allevamento, in specie dello yak (varietà di quello selvaggio), animale veramente prezioso, che fornisce il nutrimento con il latte e la carne, gli abiti, le calzature e l'abitazione con la pelle e il lungo pelo (la tenda, quadrilatera, è fatta di lana di yak), perfino il combustibile con i suoi rifiuti; è animale da lavoro, da soma, da cavalcatura. Si allevano inoltre pecore, molto resistenti e usate anche come bestie da soma, capre nelle regioni più aspre, piccoli cavalli, sicurissimi anche sulle strade peggiori. Gli stessi animali domestici si ritrovano tra le popolazioni sedentarie delle valli meridionali, insieme al bue e al maiale. L'occupazione principale di queste popolazioni è però l'agricoltura, sebbene ancora condotta con metodi molto primitivi. Nell'alto bacino dell'Indo le coltivazioni formano solo piccole oasi, in quello dello Tsang-po, a est di 84° 30′ di long., sono considerevolmente estese, ma è sempre necessaria l'irrigazione, data la scarsità di piogge. L'acqua meteorica è invece spesso sufficiente nelle valli sud-orientali. La coltura fondamentale dei Tibetani è quella dell'orzo (con il quale si fa anche un liquore), che si spinge fino a 4100-4400 metri di altezza, in qualche caso a 4600 m. Avena e grano sono prodotti secondarî e non raggiungono così grandi elevazioni (grano 3600 m.), mentre è diffusa la coltivazione di legumi e ortaggi (fagioli e piselli, cavoli, rape, cipolle, ecc.). Gli alberi fruttiferi sono in gran numero presso gli abitati: noci, peschi, albicocchi, melograni (gli albicocchi salgono fino a 3500 m.). Si coltiva anche il rabarbaro, spontaneo in alcune regioni, che viene raccolto ed esportato. Le industrie naturalmente non si elevano più su dello stadio della manifattura domestica o del piccolo artigianato. Se ne ottengono stoffe di lana, oggetti di rame, e soprattutto oggetti di ornamento o connessi con le pratiche religiose (di rame, argento, bronzo, ecc.), finemente lavorati e spesso di buon gusto.
Risorse minerarie. - Il Tibet sembra assai ricco di minerali utili, ma poco di preciso si conosce: vi sono stati segnalati ferro, piombo, mercurio. Soltanto l'oro, il borace e il sale hanno un certo valore nel commercio tibetano. L'oro si trova assai diffuso, soprattutto nella regione settentrionale deserta, e si ricava da millennî con gli stessi metodi primitivi, anche a più di 5000 metri d'altezza (il famoso campo di Thok-Jalung trovasi a m. 4970). Alcuni ritengono che il Tibet possegga considerevoli giacimenti del prezioso metallo. Il borace e il sale si ricavano dai laghi del centro e del sud. Frequenti sono le turchesi, adoperate nell'industria dei piccoli oggetti d'ornamento.
L'oro e il borace rientrano fra i principali generi d'esportazione del Tibet verso la Cina e l'India, insieme con la lana, le pelli, il muschio, il rabarbaro. Dalla Cina il Tibet riceve principalmente il tè, genere di forte consumo presso i Tibetani, che si commercia a Ta-tsien-lu, poi seta, tabacco, armi, chincaglierie; dall'India riceve stoffe di cotone e di lana, articoli varî di metallo, zucchero, ecc. Grandi ma lentissime carovane di yak (anch'esse appartenenti per lo più ai monasteri) vanno periodicamente, e cioè una volta o due all'anno, ai mercati di frontiera, come Leh (Ladak), Katmandu (Nepal), Darjeeling (India), Punaka (Bhutan), Li-kiang (Yün-nan), Ta-tsien-lu e Si-ning (Cina). Anche greggi di pecore raggiungono questi mercati, con il loro carico sul dorso, e qui gli animali vengono tosati e la lana barattata con merci indiane e cinesi. Nel territorio politicamente dipendente da Lhasa sono poi aperti al commercio con l'India (in seguito ad apposita convenzione con la Gran Bretagna) i mercati di Yatung, Gyangtse e Gartok. Nel complesso il commercio è assai vivace, anche se trova la difficoltà delle vie di comunicazione, delle grandi distanze e perfino del brigantaggio. Le vie seguite dalle carovane sono per lo più semplici piste; esse valicano numerosi colli, a grandi altezze, attraversano valli profonde, passano per luoghi poverissimi di vegetazione e dal clima rigidissimo. Le vie più importanti irradiano da Lhasa, tra cui: la Lhasa-Giamda-Chamdo-Batang-Ta-tsien-lu, che è la strada del tè, la Lhasa Zaidam-Sining, la Lhasa-Gyangtse-Darjeeling, e quella da Lhasa a Leh, che risale la valle dello Tsang-po. Le carovane impiegano quattro mesi per raggiungere Leh e poco meno per rendersi a Ta-tsien-lu.
Ordinamento Politico. - Politicamente il Tibet si divide in tre parti, di cui la maggiore, nel cuore del paese, costituisce uno stato teocratico indipendente, anche se il governo cinese non ha rinunciato ai suoi diritti di sovranità e mantiene piccoli presidî militari in alcuni centri. Capo dello stato è lo stesso capo del lamaismo, il Dalai-lama, residente a Lhasa, assistito da consigli di monaci e di laici. L'area dello stato è valutata in kmq. 1.150.000 e la sua popolazione da 1.500.000 a 2 milioni di ab. A occidente, il bacino montano dell'Indo appartiene quasi totalmente all'Impero Indiano (stato del Kashmir). Un'ampia fascia marginale a nord-est (Zaidam e Kuku nor) e a oriente forma le province cinesi del Ching-hai e del Si-kang. In questa (cap. Ta-tsien-lu) la penetrazione cinese ha sempre trovato forti difficoltà e sussistono tuttora numerosi principati autonomi; anche nel Ching-hai (cap. Si-ning) l'autorità cinese non è dovunque effettiva.
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Per il Karakorum e il Himālaya v. alle rispettive voci. Particolarmente da segnalare, anche per il Tibet Occidentale, i volumi dei risultati scientifici della Spedizione italiana De Filippi nell'Himālaya, Caracorùm e Turchestan Cinese (1913-14), Bologna 1922-34 (voll. 15).
Storia.
La storia tibetana comincia nel sec. VII quando cioè Sroṅ btsan sgam po per la prima volta diede unità politica alle varie tribù che abitavano il pianoro tibetano e stabilì la supremazia della sua casa sui capi dei grandi clan che si dividevano il territorio. Prima di Sroṅ btsan sgam po (seconda metà del sec. VI - prima metà del sec. VII d. C.) non sappiamo quasi nulla: le cronache tibetane ci hanno conservato notizia dei suoi predecessori, ma difficile è sapere se essi abbiano realtà storica o siano soltanto nomi. Sono in gran parte gruppi di re ai quali, sul modello delle tradizioni cinesi, si attribuisce l'invenzione di molte arti della pace. Il paese sembra sia stato diviso in varie comunità sotto il predominio di alcune grosse famiglie non sempre in buon accordo fra loro, dedite alla pastorizia e anche a scorrerie armate. Certo Sroṅ btsan sgam po riuscì a fondare uno stato così forte da lottare, qualche volta anche vittoriosamente, con la Cina: la potenza del Tibet sorgeva così minacciosa che l'imperatore non disdegnò di cedere in moglie, non già la figlia come vorrebbero alcune fonti tibetane, ma una sua parente a Sroṅ btsan sgam po. Questo matrimonio, insieme con quello avvenuto fra lo stesso re tibetano e la figlia di Amśuvarman re del Nepal, segna quasi l'inizio della duplice influenza che il Tibet cominciava a ricevere dalle due grandi civiltà vicine, l'indiana e la cinese. Il duplice matrimonio aprì forse per la prima volta la mente del rude guerriero a più gentili forme di vita e di pensiero e se anche i tibetani esagerano quando parlano di Sroṅ btsan sgam po come di un fervente buddhista, non si può tuttavia dubitare che durante il suo governo e per opera della sua politica avvenne la prima penetrazione del buddhismo nel Tibet e col buddhismo del pensiero indiano.
La tradizione narra ancora, e non abbiamo ragione di confutarla, che sotto il suo regno, uno dei più intelligenti rappresentanti dell'aristocrazia, Tón mi Sambhoṭa fu inviato in missione in India per creare un alfabeto e iniziare i Tibetani alla scrittura; la verità della tradizione è dimostrata dall'evidente similarità dei caratteri tibetani con quelli gupta. Certo non bisogna credere che d'un tratto il Tibet si convertisse pienamente al buddhismo e si piegasse alla cultura indiana: la resistenza delle comunità Bonpo e dell'aristocrazia dovette essere fortissima, tanto forte che non era del tutto cessata neanche due secoli più tardi. Se Sroṅ btsan sgam po protesse il buddhismo, non fu soltanto per pietà religiosa, ma anche per motivi politici, per diminuire l'autorità della classe sciamanica e fiaccare l'aristocrazia attaccata alle tradizioni.
Certo è pure che il suo potere, e così quello dei suoi successori, si mostra notevolmente limitato dall'ingerenza dei primi ministri, rappresentanti dell'alta aristocrazia i quali ebbero un'importanza preponderante sugli sviluppi politici della prima storia tibetana e non furono estranei alle tragedie che la colpirono. Molti dei successori di Sroṅ btsan sgam po, sono poco più che dei nomi; ma Khri sron lde btsan e Ral pa can meritano di essere specialmente ricordati perché il loro regno segna un nuovo e più intenso influsso del buddhismo e perciò della civiltà indiana; alcuni fra i sommi dottori e maestri dell'India trassero allora nelle convalli e sui pianori tibetani e continuarono con maggiore intensità quell'opera di traduzione di sacri testi che s'era già cominciata al tempo di Sroṅ btsan sgam po. Fu allora che vennero Sāntirāksita e Padmasambhava, un famoso taumaturgo della valle dello Swāt che i Tibetani considerano come il più grande apostolo del buddhismo nel loro paese e come un'incarnazione del Buddha stesso. Ma verso la fine del sec. IX gLaṅ dar ma tentò di risuscitare ai danni del buddhismo la religione dei Bonpo: dopo un contrastato governo finì ucciso per opera di un monaco buddhista: il trionfo del buddhismo era assicurato. Ma con la fine di gLaṅ dar ma, si sgretolò il potere centrale e si infranse l'unità dell'impero: uno dei suoi figli andò a crearsi uno stato negli estremi confini occidentali dove i suoi discendenti fondarono tre regni: quello di Guge, quello di Purang e quello del Ladakh.
Seguì un periodo molto torbido e oscuro durante il quale il buddhismo degenerò e i Bonpo presero il sopravvento: la spinta alla rinascita e il rinnovamento della fede furono specialmente dovuti ad una nuova e più profonda penetrazione delle dottrine buddhistiche, questa volta per opera di una delle somme figure del lamaismo, cioè di Rin c'en bzaṅ po, e insieme di uno dei più grandi maestri del mahāyāna declinante cioè di Atīśa. L'uno un tibetano nato nel regno di Guge, e l'altro un bengalico invitato nel Tibet dai re di Guge munifici protettori del buddhismo.
Ciò avvenne intorno al 1000, quando un altro asceta celeberrimo Mar pa, introduceva nel Tibet i sistemi esoterici del mahāyāna e ne trasmetteva le dottrine e il battesimo iniziatico a Milarasapa fondando la scuola di Oka'rgyud pa.
Intanto, approfittando dello sfacelo politico, cominciavano a sorgere le comunità religiose: intorno ai maestri si raccoglievano in sempre maggior numero discepoli e ammiratori, e poco alla volta dagli antichi eremi si svilupparono i conventi, che per dotazioni e lasciti ingrandirono i loro possedimenti ed acquistarono un vero e proprio potere temporale. Allora vediamo i centri religiosi affermarsi come elemento d'ordine e di governo nella generale anarchia diffusa nel Tibet dopo la caduta delle dinastie reali; ma se anche alcuni di questi monasteri, con i loro lama che potevano tramutarsi ad ogni occasione in guerrieri, erano saliti a grande potenza, nessuno era riuscito ad acquistare una vera e propria supremazia su tutto il paese.
Tuttavia verso la fine del sec. XIII, l'abate del grande convento Sa-skya, vincitore in certe gare tenute fra i rappresentanti delle varie religioni nella corte cinese, ottenne il favore di Qubilai e fu investito del potere temporale sul Tibet centrale (circa 1270). Vicende interne e di successione fecero scendere per ben due volte le armate mongole e così in meno di un secolo, la supremazia del monastero Sa-skya scomparve in una nuova anarchia su cui i più grandi conventi cercavano invano di imporre il proprio controllo; e solo alla fine del sec. XIV un po' d'ordine fu nuovamente ristabilito per opera di Si tu che praticamente governò con l'ingerenza sia pure indiretta della Cina.
Le grandi istituzioni monastiche insomma non valsero a dare pace al Tibet, anzi agirono come elemento disgregatore e, sostenendo ciascuna spesso con le armi i proprî interessi e i proprî privilegi, furono cause di turbamento e di disordine politico estremi.
Inoltre, gli interessi terreni prendendo il sopravvento su quelli spirituali, la religione sembrava essere sulla via del decadimento, sebbene non mancassero grandi figure di pensatori e di teologi, i quali senza creare nulla di nuovo, chiarirono e glossarono con estrema sottigliezza i trattati più celebri e più difficili del mahāyāna ed elaborarono una letteratura esegetica indispensabile per la retta comprensione delle dottrine buddhistiche nel loro profondo significato. Ma intorno a queste somme figure, per opera delle quali il buddhismo ormai tramontato in India rifioriva sui pianori del tetto del mondo, le grandi istituzioni monastiche alimentarono una folla di monaci irrigiditi in un freddo convenzionalismo, e sempre più schiavi della lettera.
Chi diede una nuova spinta alla religione e riaccese una fiamma di spiritualità negli animi, fu un monaco nato negli estremi limiti del Tibet, verso la Mongolia, e conosciuto dal suo paese di origine col nome di Ts'oṅ k'a pa (1357-1419).
Egli non solo riformò la disciplina e ingiunse la più scrupolosa osservanza delle regole monastiche: celibato, astensione dalle bevande alcooliche e anche, per lo meno in qualche misura, dalla carne; ma diede, si potrebbe dire, un carattere unitario alla dottrina; i varî sistemi d'interpretazione dei sacri testi spesso discordanti egli vagliò al lume delle fonti, stabilì quali fossero autorevoli e quali spurî, e delle opere tantriche e filosofiche più importanti, egli, seguito da alcuni dei suoi principali discepoli, scrisse nuovi e definitivi commenti. La scuola da lui iniziata è conosciuta usualmente col nome di "Setta dal berretto giallo, dal colore del cappuccio che distingue i suoi seguaci da quelli delle molte scuole rosse, le quali non hanno rinunciato al berretto tradizionale di colore rosso scuro. Ma di fatto nel Tibet la scuola riformata di Ts'oṅ k'a pa è conosciuta come quella dei dGe lugs pa "il sistema della virtù".
Intanto venivano costruiti da Ts'oṅ k'a pa e dai suoi due principali scolari mK'as grub rje e dGe adun Grub pa i tre celebri monasteri di dGa'ldan (pr. gadèn), Sera e aBras Spuṅs (pr. depùn) vicino a Lhasa e quello di Tashilunpo (bKra śis lhun po) non lontano da Shigatse destinato a divenire la sede del Tashi Lama.
Con la riforma e la maggiore austerità dei costumi, crebbe naturalmente il prestigio della setta la quale salì a grande potenza. Già al tempo del successore di Ts'oṅk'a pa cominciamo a trovare i primi segni di quella teocrazia che pone nelle mani del Gran Lama di Lhasa il potere supremo sul Tibet. Combinazioni impreviste di teorie di origine indiana crearono in poco tempo un diritto alla successione, e investirono di carattere sacro la figura del sommo reggitore del paese: anzitutto queste grandi personalità non sono comuni mortali, ma Bodhisattva che hanno acquistato la loro santità e la loro perfezione attraverso un'interminabile serie di vite e di rinascite. E siccome il mahāyāna insegna che carattere essenziale del Bodhisattva è la compassione, e che perciò questi deve rinunciare al nirvâna, e restare fra chi soffre e pecca per predicare o indicare con l'esempio la via della redenzione alla morte, quando il corpo si dissolve, questi Bodhisattva proiettano volutamente il loro principio cosciente in una nuova esistenza. Così sempre rinnovano la loro missione.
In tale maniera già al tempo del terzo successore di Ts'oṅ k'a pa troviamo pienamente affermata la teoria della rinascita volontaria. Queste figure di sommi sacerdoti sono la manifestazione terrena dello stesso Bodhisattva, cioè di Avalokitésvara il misericordioso, che ha preso sotto la sua particolare protezione il Tibet: e ciò, secondo narra la leggenda, fin dal tempo di Sroṅ btsan sgam po che appunto è considerato come la sua più antica incarnazione. A Tashilunpo si successero i discendenti di mK'as grub rie (pr. chetrubge) che, sebbene privati di potere politico, sono tuttavia considerati come secondi al solo Dalai Lama, e riconosciuti come la più alta autorità in fatto di religione, dopo che il precettore del quinto Dalai Lama vi fu installato ufficialmente col titolo di Panc'en rin po che è proclamato l'incarnazione di Amitabha. Intanto al tempo del terzo successore di Ts'oṅ k'a pa, bSod nams rgya mts'o (pr. sonam ghiazò), la Mongolia, che aveva dimenticato quel po' di buddhismo che v'era penetrato al tempo di Sa skya P'ags pa, cominciò a ricevere l'influsso religioso e culturale del Tibet.
Il principe mongolo Altan Khan convertito (1577) concesse al gran lama tibetano il titolo di Dalai (mongolico: Talai, che traduce le parole tibetane: rgya mts'o "oceano", adoperate come titolo onorifico): questo titolo dunque comincia col terzo successore di Ts'oṅ k'a pa, ma poi venne, come onore postumo, attribuito anche ai due abati che lo precedettero. È chiaro ad ogni modo che i due viaggi che bSod nams rgya mts'o fece nella Mongolia non furono infruttuosi, se alla morte egli pensò di rinascere proprio come nipote del principe mongolo da lui convertito. Ma nel Tibet la sua autorità non era ancora universalmente riconosciuta e le antiche sette che perdevano terreno non potevano vedere di buon occhio le fortune della nuova scuola; alcuni principi e certa aristocrazia attaccata alle tradizioni fomentavano il malcontento. Nella prima metà del sec. XVII un signorotto di Tsang si sollevò contro i Gialli. Il Dalai Lama Nag dbaṅblo bzaṅ colse l'occasione e invitò i Mongoli a penetrare nel Tibet, e a debellare col principe di Tsang anche la scuola rivale dei Karmapa che aveva cercato di riprendere gli antichi privilegi. Pacificato col loro intervento il paese, egli ricevette l'investitura politica e temporale su tutto il Tibet.
La nuova dinastia mancese non volle assistere spettatrice indifferente a quanto accadeva e nel 1652 invitò bSod nams rgya mts'o a Pechino e lo ricevette con onori regali.
Durante lo svolgersi di così importanti avvenimenti, il Dalai Lama fu assistito da una delle più grandi figure della storia tibetana, vale a dire dal reggente Saṅs rgyas rgya mts'o (pr. sanghiè ghiazò) costruttore audace a cui si deve appunto il palazzo di Potala, scrittore fra i più fecondi, cultore delle discipline più ardue come l'astronomia e abilissimo uomo di stato che per 16 anni tenne celata la morte del Dalai Lama per condurre a termine il palazzo di Potala e realizzare i suoi progetti. Egli aveva anche scelto il successore, il quale tuttavia insediato sul sacro trono non si mostrò nella pratica della vita come particolarmente incline alla santità: piuttosto alla dissipazione e alla poesia. Lo scandalo fu grave. I Mongoli ne presero pretesto per immischiarsi nuovamente negli affari del Tibet e così cominciarono quelle aspre vicende che tormentarono per parecchi anni il paese e alla fine lo assoggettarono ai Cinesi. A tutto ciò non furono estranee le rivalità delle sette: e specialmente della scuola dei bKa rgyud pa, che mal si adattava alle posizioni ormai secondarie cui il sorgere dei "Gialli" l'aveva costretta.
I Mongoli, sotto la guida di un generale di nome Latsang, invasero il Tibet e Saṅs rgys rgyaa mts'o fu ucciso (1705); poco dopo anche il sesto Dalai Lama subì la stessa sorte con grave scandalo della parte più ortodossa della popolazione tibetana. Il generale mongolo che li aveva uccisi e stava predando la regione, aveva già prescelto il successore, quando a Lithang, presso i confini della Cina apparve un fanciullo che proclamò di essere lui l'incarnato; e trovò il suo sostenitore in un altro generale mongolo che uccise Lotsang. Dopo un primo sfortunato tentativo di ristabilire la pace, il grande imperatore cinese Kanhsi riconobbe la legittimità di questo nuovo lama: mandò truppe e ministri fino a Lhasa: e poi, prendendo a pretesto una rivolta scoppiata nel 1727, i Cinesi fecero stazionare i loro reggimenti a Lhasa e a Shigatse: ministri cinesi risiedettero a Lhasa.
Il Tibet era così divenuto un dominio cinese e i rappresentanti del celeste impero sul suolo tibetano fecero presto sentire la loro influenza volendo persino controllare la nomina del presunto successore del Dalai Lama, con lo scopo di scartare influenze di famiglie potenti e il costituirsi di centri di eventuale resistenza. La stessa persona del Dalai Lama era sotto il loro dominio; nel secolo XIX quattro di questi Dalai Lama finirono giovanissimi non senza sospetto di veleno.
Così arriviamo all'ultimo Dalai Lama (T'ub bstau rgya mt'śo), morto nel 1934 il quale può essere considerato come una delle figure più interessanti della storia tibetana e che abilmente disimpegnandosi fra Inglesi e Cinesi, fini con l'appoggiarsi su quelli riuscendo a ristabilire l'assoluta indipendenza del Tibet. Egli cercò di organizzare un piccolo esercito che praticamente è poco più di una guardia personale e mandò persino alcuni giovani a studiare e a perfezionarsi fuori del Tibet. Per quanto largo d'idee non poté tuttavia realizzare nessuna riforma essenziale, perché i Tibetani sono ancora fortemente attaccati alla tradizione, alieni da tutto ciò che sappia di nuovo, e, quasi abbiano assorbito pienamente la diffidente politica cinese, molto restii ad accogliere stranieri e ad uscire dall'isolamento in cui l'asprezza stessa del loro paese sembra costringerli.
La rivalità fra le varie scuole oggi è finita: ma se anche la gialla è la più potente, di fatto nessuna setta è scomparsa. Restano ancora i seguaci di Padmasambhava che sono chiamati "gli antichi" rÑiṅ ma pa (v. lamaismo) e nei quali esorcismo e magia hanno ancora parte preponderante: vengono poi i bKa rgyud pa, i cui caposcuola sono il celebre Siddha indiano Nāropā e il lotsāva tibetano Marpa. La scuola si divise in molte sette: le più importanti delle quali sono quella dei ḁBrug pa (pr. dugpà) sistemata specialmente da Nag dbari zam rgyal e divenuta religione di stato nel Bhūtan; quella dei ḁBri guri pa (pr. digumpa); quella dei Karma pa, la quale accettò più delle altre molte dottrine degli "antichi" e, si può dire, si innestò con la parte più sana di quelli. Vengono in fine i Saskyapa di cui sopra s'è parlato.
La scuola dei bKa' gdams pa, come si vede, non figura in questa lista: costituitasi quasi in opposizione alla vecchia scuola, al tempo di Rin c'en bzaṅ po e Atísá trapassò di fatto nella riforma di dGe lugs pa. Questi sono gl'indirizzi principali in cui si divide oggi il lamaismo nel Tibet: essi hanno quasi completamente fatto scomparire la religione aborigena che si chiama Bon e fu sistemata per la prima volta da Gžen rab, nativo del Tibet occidentale.
Dei Bon restano seguaci specialmente nel Tibet orientale, mentre nel Tibet occidentale (Guge) ove la religione ricevette le sue prime formulazioni sistematiche è completamente scomparsa. Ma ad ogni modo, le dottrine Bon, quali oggi ci appaiono, sono molto influenzate dal buddhismo ed hanno strettissimi rapporti con le scuole rÑiṅ pa e specialmente con una setta di queste, quella cioè dei perfetti (rDsogs c'en).
Fonti. - Le fonti storiche del Tibet sono scarse: sebbene i Tibetani abbiano in comune con i Cinesi una certa tendenza alla cronistoria, col diffondersi e il consolidarsi del lamaismo il loro interesse si è specialmente portato sugli avvenimenti religiosi i quali del resto finirono col diventare il fattore dominante anche della vita politica del paese. Poco alla volta l'agiografia, le vite dei santi e dei lama presero il sopravvento: la narrazione dei fatti politici venne più o meno adattata ai fini dell'edificazione religiosa. Invece di storie e cronache si hanno rnam t'ar cioè biografie di somme personalità religiose, assai raramente di profani come ad esempio quella di Yu t'og, un medico famoso vissuto nel sec. VIII, guide ed eulogi di monasteri e di luoghi di pellegrinaggio, e, ciò che più ci interessa, trattati nei quali si parla della diffusione della dottrina buddhistica (cos ḁbyuṅ "origine della fede") ed il cui valore storico è spesso di prim'ordine. Come storia vera e propria viene considerato il rGryal rabs gsal bai me loṅ, scritto da un monaco della setta Śākya pa nel sec. XIV il quale parla delle origini del Tibet, delle sue famiglie principesche, delle genealogie reali e della diffusione del buddhismo. Sebbene questo libro contenga moltissimi elementi leggendarî, è tuttavia interessante perché conserva spesso elementi folkloristici e credenze anteriori al buddhismo, cîoè a dire Bonpo. È certo poi che le liste genealogiche del rGyal rabs sono generalmente attendibili; non solo infatti ricorrono quasi identiche nei varî c'os ḁbyuṅ anche abbastanza antichi come ad esempio nel c'os abyuṅ del grande storico Buston (sec. XIII-XIV) e nella storia delle sette, intitolate Deb t'er sṅon po, di gžon nu dpal, ma anche nei frammenti di annali ritrovati nelle rovine delle città dell'Asia Centrale, conquistata nel sec. VII e VIII e per periodi più o meno lunghi dalle invasioni tibetane.
Fra le fonti indirette, ma tuttavia preziosissime, dobbiamo poi annoverare gli annali cinesi e specialmente gli annali della dinastia T'ang, nei quali i primi secoli della potenza tibetana che sembrava sorgere come una minaccia all'impero cinese sono seguiti con grande attenzione e registrati con somma cura. Vengono poi le iscrizioni - le più antiche sono quelle di Lhasa che contengono copia di trattati fra la Cina e il Tibet - e quindi le varie iscrizioni dedicatorie nei templi e nei monasteri che sarebbe urgente raccogliere e pubblicare.
Spedizione inglese nel Tibet. - Nel 1889, gl'inglesi occuparono il distretto di Sikhin, posto tra il Nepal ed il Butan. Le cause dell'occupazione inglese, effettuata dopo una dura campagna di due anni, si devono ricercare in un grave incidente di frontiera: un'incursione di Tibetani nel territorio sottoposto al protettorato britannico. Nel marzo del 1890 fu stipulato a Darjeeling un trattato di pace. I termini però dell'accordo vennero, dopo breve tempo, variati arbitrariamente dai Tibetani; e lord Curzon, viceré delle Indie, inviò a Lhasa le sue proteste.
Senza dar risposta al rappresentante dell'Inghilterra, il Dalai Lama si rivolse a Pechino ed a Pietroburgo per chiedere il rinforzo delle guarnigioni mongole. Ma i tempestivi passi diplomatici del governo di Londra presso lo zar e il governo cinese, affacciarono l'opportunità di fissare un convegno per giungere ad un accordo che permettesse il completo svolgimento dell'opera avviata dal governo britannico. Il convegno era stato fissato per il 28 giugno 1903 al forte di Khamba; ma la missione inglese del colonnello Younghusban - scortata da 400 uomini - attese inutilmente i delegati cinesi e tibetani.
La Gran Bretagna decise allora di appoggiare la missione con una spedizione militare forte di 3000 uomini; la quale, posta al comando de] colonnello Macdonald, si componeva di tre battaglioni di pionieri del Sikkin, di due sezioni di artiglieria da montagna e di reparti ausiliarî. Partita ai primi di novembre, la spedizione raggiungeva la valle di Chumbi e si univa alla scorta della missione. Giunte a trenta chilometri da Phari, le truppe inglesi incontrarono alcune centinaia di "aptuk" tibetani armati delle guarnigioni mongole, che però si ritirarono senza opporre alcuna resistenza. Nel marzo successivo 1500 Tibetani attaccavano di sorpresa il campo inglese; Macdonald ricacciava i nemici fino a Kala Tso e, portandosi fin sotto le mura di Gyangtse, occupava dopo un breve combattimento la città.
La notizia di questa occupazione destò grande impressione presso i Tibetani, che in fretta reclutarono nuove forze per ostacolare con una guerriglia l'avanzata inglese. La spedizione che nel frattempo aveva ricevuto dall'India nuovi rinforzi marciò su Potala, capitale e residenza del Dalai Lama. All'intimazione di cessare le ostilità per permettere alle truppe della spedizione l'ingresso a Lhasa, si presentava al campo inglese l'Aban cinese recando la notizia che il Dalai Lama era fuggito con l'intero presidio a Reteng e dichiarandosi autorizzato a trattare con gl'Inglesi. Il 3 agosto 1904 i colonnelli Macdonald e Younghusban facevano il loro ingresso nella città santa del Tibet, Lhasa.
Nuove trattative seguirono questi avvenimenti e per solo merito dell'Aban cinese si poté giungere ad un accordo nel quale, oltre a precisare i termini, si stabilì: che il Tibet avrebbe aperto tre mercati al commercio indiano; che si sarebbero iniziati subito i lavori stradali a spese del Dalai Lama e che questi avrebbe pagato all'Inghilterra 7 milioni di rupie a titolo di indennità di guerra; infine, l'esclusione di ogni ingerenza di qualsiasi potenza dagli affari tibetani. A garanzia dell'osservanza dei termini dell'accordo, le truppe inglesi avrebbero occupato per tre anni l'intera valle del Chumbi. La Gran Bretagna aveva così ottenuto un duplice obiettivo: la sottomissione del Tibet e l'esclusione della Russia. La spedizione lasciò Lhasa il 23 settembre 1904.
Naturalmente questa campagna ebbe delle conseguenze diplomatiche dirette, ma il governo inglese seppe intervenire in tempo proponendo alla Russia di comprendere nell'accordo di Pietrogrado del 31 agosto 1907 (relativo alla Persia e all'Afgānistān) anche il territorio del Tibet, al fine di stabilire una linea di demarcazione delle rispettive zone d'influenza nell'Asia Centrale. La convenzione impegnava le potenze firmatarie al rispetto dell'integrità territoriale del Tibet e alla non ingerenza nell'amministrazione interna.
La potenza maggiormente interessata, la Cina, si accontentò di mantenere sul Tibet un teorico diritto di sovranità.
L'Inghilterra, specie dopo la guerra mondiale, ha guadagnato sempre più terreno, avviando verso il paese numerose correnti di carattere scientifico, industriale e commerciale.
Bibl.: Schulemann, Die Geschichte der Dalailamas, Heidelberg 1911; Waddell, The Buddhism of Tibet, Londra 1895; Bushell, The early history of Tibet from Chinese Sources, in Journal of the Royal Asiatic Society, n. s., XIII, p. 435 segg.; Francke, A history of Western Tibet, 1908; Schlagintweit, Die Könige von Tibet, Abhandl. der kgl. bayerischen Akademie der Wissenschaften, Monaco 1866; Huth, Geschichte des Buddhismus in der Mongolei, Strasburgo 1875; Bell, The religion of Tibet, Oxford 1931; G. Tucci, Rin c'en bzan po e la rinascita del Buddhismo, in Indo- Tibetica, II, 1932; J. Bacot, Le mariage chinois du roi tibétain Srou bean sgan po, in Mélanges chinois et bouddhiques, 1935; De Filippi, An account of Tibet: the travels of Ippolit Desideri, Londra.
Lingua.
V. sinotibetane, lingue e, soprattutto, indocinesi, lingue.
Religione.
Oltre a quanto detto nel paragrafo: Storia, v. anche lamaismo.
Etnografia.
Il lamaismo, il quale in fondo rappresenta una penetrazione della civiltà indiana, ha in certo modo unificato la cultura tibetana dandole un apparente aspetto uniforme: ma come nel campo puramente religioso non è riuscito ad eliminare le antiche credenze sciamaniche e a far dimenticare le primitive divinità Bonpo, tanto meno poteva obliterare le costumanze; alcune delle quali sono in pieno disaccordo con quelle inculcate dal buddhismo.
Cominciamo ad esempio con i riti funebri. Il buddhismo si sa, prescriveva l'incinerazione del morto: nel Tibet si può dire che l'incinerazione è seguita scarsamente e solo per i lama, i ricchi, o nelle pianure in cui c'è abbondanza di legname. Altrimenti, la sterilità desertica del paese ha favorito il conservarsi del rito tradizionale dell'esposizione del cadavere: e non è semplice esposizione perché di solito il corpo viene sezionato in diverse parti: si recide la testa, si staccano le membra e si squarcia il ventre. Evidentemente si crede che in questa maniera lo spirito del trapassato non sia più in condizione di prendere possesso del suo corpo e nuocere ai sopravvissuti. In poco tempo del resto non rimane più nulla, perché le carni sono presto divorate dai cani, dai lupi e dagli avvoltoi. I grandi sacerdoti od i maestri considerati come santi vengono di solito sepolti nei loro paludamenti ed in piedi in quei grandi monumenti che sono derivati dallo stupā indiano e nel Tibet sono chiamati mc'od rten. La sepoltura conclude in parte le complicate cerimonie che si compiono quando uno muore; la più importante di queste cerimonie consiste nel p'o ba, vale a dire nella trasmissione del principio cosciente del defunto, cioè del suo principio responsabile e quindi del centro carmico che ne costituisce l'individualità propria, in altre forme di esistenza. Veramente il p'o ba mira a far rinascere il trapassato nel paradiso di Amitābha, la Sukhāvatī, ove godrà ineffabili beatitudini in attesa di rendersi degno, in evi cosmici lontani, deila conquista del nirvāna. La cerimonia del p'o ba, che nel caso di asceti può essere volontaria - uno dei famosi trattati di Nāropa insegna appunto questo genere di meditazione - è di solito compiuta da un lama specializzato in tali pratiche il quale con l'aiuto di formule speciali, vivificato da un lungo processo meditativo, deve estrarre il principio cosciente del defunto e trasferirlo nella Sukhāvatī. Questa teoria elaborata specialmente negli ambienti hatha-yoga, non ha fatto dimenticare la più antica credenza nella trasmigrazione determinata esclusivamente dalla condizione carmica del trapassato: e secondo la quale la rinascita può aver luogo o immediatamente o dopo un periodo di esistenza intermedio conosciuto col nome di antarābhava (b. bar do), periodo di estrema debolezza del principio cosciente, il quale è investito da demoni e forze contrarie e contro le quali una letteratura esorcistica recitata durante i servizî funebri da appositi lama mette al riparo. Questa letteratura, di origine quasi tutta rÑiṅ ma pa, cioè delle scuole che fanno capo a Padmasambhava è conosciuta col nome di Bardo t'os grol. Mentre queste cerimonie essenziali si svolgono, i lama aiutano la buona rinascita del defunto leggendo ad alta voce i libri sacri, liberalmente nutriti e compensati dalla famiglia del morto; il quale molto spesso è tenuto nella casa o nelle sue immediate vicinanze per parecchi giorni. Alla fine compiono riti d'esorcismo intesi a cacciare dalla casa il demone che ha causato la morte.
Il buddhismo non è neppure riuscito a modificare i costumi negli usi matrimoniali: difatti è risaputo che nel Tibet vige il sistema della poliandria per il quale di solito una donna sposa, con l'uomo che l'ha prescelta, tutti i suoi fratelli, i quali con lui coabitano. Ciò nonostante tanto la poligamia quanto la monogamia non sono sconosciute. Sebbene in alcune parti del Tibet sopravvivano costumanze le quali sembrano ricordare un primitivo ratto delle spose, generalmente i matrimonî sono predisposti dalle famiglie interessate, con l'aiuto di paraninfi. Una volta stabilito un accordo generico, i paraninfi cedono il posto agli astrologi (rTsi pa o, nel Tibet occidentale, dbon po - pr. on po -) i quali devono in base agli oroscopi, decidere se vi sia incompatibilità fra i destini dei due giovani. Si è così sviluppata una letteratura tecnica sull'argomento cui hanno cooperato uomini della cultura di Saṅs rgyas rgya mts'o, il famoso reggente al tempo del quinto Dalai Lama. Del resto nel Tibet l'astrologo ha un'importanza enorme; non c'è avvenimento notevole nella vita sul quale egli non sia interrogato. Le sue funzioni molte volte si confondono con quelle dello stregone ed è facile che al letto di un malato sia chiamato più spesso l'astrologo che il medico.
Sebbene anche nella medicina tibetana si sia introdotta, attraverso il tantrismo, una notevole quantità di pratiche e cerimonie essenzialmente magiche, è certo tuttavia che i Tibetani posseggono una note volissima letteratura medica degna della più grande attenzione. Questa medicina si è sviluppata in scuole speciali, sotto la duplice influenza dell'Indìa e della Cina, forse più di quella che di questa. Anche in tale campo i Tibetani non sono stati degl'inventori, ma dei fedelissimi continuatori, che hanno elaborato con molta cura le dottrine trasmesse loro da quei due paesi. Opere celebri nel Tibet come il Lan t'ab e il Vaidurya Sṅon po del reggente Saṅs rgyas rgya mts'o, non sono in fondo che delle grandi enciclopedie mediche fatte con molta chiarezza, molto metodo e molta profondità. Interessantissima dal punto di vista scientifico è la claSSificazione che in molte di queste opere si fa delle erbe e delle piante medicinali (sman rtsa) e la descrizione delle loro virtù curative.
Gli scambî sempre più frequenti con i paesi confinanti, introducono lentamente nel Tibet stoffe europee: G. Tucci nelle fiere di Gartok ha trovato gran quantità di panno fabbricato in Italia e venduto dai mercanti delle alte valli himalayāne che mantengono un piccolo commercio col Tibet. Ma in generale i Tibetani sia che usino o no i pantaloni - ciò dipende dal clima e dalla stagione - vestono di lunghe casacche di lana tessuta a casa, grezza, o tinta di colore rosso scuro che è poi il colore specialmente usato dai monaci. Tale veste si chiama con parole derivate dal turco ch'u ba (pr. ciubà) ed è sostituita nei mesi freddi da una giubba di pelle di capra. Alla cintola non manca quasi mai una fascia anch'essa di lana, più raramente di seta. Il berretto di lana ancora usato dai nomadi di Chang t'ang (pianoro settentrionale) o di Khams viene sostituito nei centri più importanti da cappelli di feltro importati dall'Europa o dal Giappone: ma è ancora molto frequente un cappello di tipo cinese, costituito da una specie di berretto, spesso ricoperto di seta e ricamato con fiorami o striature d'oro e con due larghe falde di pelo che possono, quando è freddo, tirarsi in basso in modo da coprire le guance. Le donne portano anch'esse i pantaloni e su questi una larga tunica stretta alla cintura da una fascia. La stoffa adoperata è quasi tutta lana tessuta a casa e presenta curiosi disegni a croce; si chiama prug (pr. truk). Le scarpe quasi sempre di lana, più raramente di velluto o anche di cuoio sia di capra sia di yak: i monaci - ma non sono i soli - le portano sempre di color rosso scuro. Gli uomini usano gli orecchini, ma solo all'orecchio sinistro: questi orecchini sono o d'argento o d'oro e in genere consistono in grossi cerchi in mezzo ai quali è incastonata una pietra di turchese: non disdegnano neppure gli anelli delle forme più varie, sebbene anche in questo caso, la pietra preferita sia la turchese. Gli alti ufficiali portano un orecchino molto lungo che consiste in un'anima d'oro su cui sono infilati pendenti di turchese della qualità migliore e terminano in punte di smalto color turchese. Nel mezzo c'è quasi sempre una perla. L'ornamento preferito è tuttavia il gaù, il quale è una specie di scatola che può avere il disegno più vario e nel cui interno sono depositate formule sacre, reliquie di santi, frammenti di libri, qualche volta anche libri interi specialmente popolari nel Tibet e scritti su sottili fogli di carta arrotolata. Ci possono pure essere statuine o ts'a ts'a, cioè fornelli di terra impastata con impresse immagini di divinità o preghiere. La superficie esteriore di questi gaù che possono essere di rame, d'argento o d'oro è finemente lavorata con motivi quasi sempre d'ispirazione cinese. Gli ornamenti delle donne non si distinguono di fatto da quelli maschili se non per una maggiore varietà nel disegno degli orecchini.
I Tibetani sono molto frugali; nonostante la severità del clima in cui vivono, mangiano poco e si può dire si cibino specialmente di sampa (tsam pa) e tè. Il sampa è farina di grano o anche più spesso farina d'orzo (nas) precedentemente abbrustolita e poi macinata e mescolata con un po' d'acqua in certe ciotole di radice di legno spesso ricoperte nell'interno di una sottile lamina d'argento. Mangiano o con le mani o più spesso aiutandosi con cucchiai quasi sempre d'argento. Sono molto avidi di tè che essi preparano in una maniera molto speciale, vale a dire riducendo prima in polvere le foglie e poi facendole bollire nell'acqua per circa cinque minuti; poi questo decotto è versato, attraverso un passino, in una specie di tubo di legno nel quale il tè viene violentemente frullato dopo avervi mescolato burro, sale e qualche volta anche soda, o sampa. La carne non è mangiata con molta frequenza: ed è in prevalenza di montone, più raramente di yak; la carne di montone viene di solito tagliata a piccoli pezzi, seccata al sole e conservata per lungo tempo.
Bibl.: Pozdenev, Učebnik Tibetskoi Mediciny, Pietroburgo 1908; W. W. Rockill, Notes on the Ethnology of Tibet, Washington 1895; S. Ch. Das, Journey to Lhasa and central Tibet, Londra 1902; Evans Wentz, The Tibetan Crok of the dead, Oxford 1927; Waddell, Lhasa and its mysteries, Londra 1905; Waddell, The Buddhism of Tibet, Londra 1895; Filchner, Kumbum Oschamba Ling, Lipsia 1933; G. Tucci e Ghersi, Diario della missione scientifica Tucci nel Tibet occidentale, Roma 1934.
Arte.
L'architettura tibetana, ove si eccettuino alcune rare grandi costruzioni come il palazzo di Potala a Lhasa, non ha creato quasi nessun edificio degno di speciale considerazione.
In genere le case sono piccole, a uno o due piani, con modeste finestre, e il tetto piatto sul quale viene depositato uno spesso strato di erba e di sterpaglia che serve di provvista per l'inverno e ripara dai rigori del clima. Nelle case delle persone più ricche porte e finestre sono ornate di cornici spesso dipinte a colori vivaci, con prevalenza del rosso e del turchino. Non manca quasi mai nel centro della casa una veranda scoperta che protegge dai venti ghiacciati e accoglie il tepore solare. Generalmente per la costruzione adoperano grossi mattoni di terra impastati con paglia e seccati al sole. Lo stesso materiale si adopera anche per i templi, i quali sono costruiti secondo la pianta di quelli indiani e in genere si compongono di un atrio, di una sala centrale con colonne di legno che sorreggono il soffitto e sono sormontate da eleganti capitelli scolpiti o dipinti, e infine di una cella in cui si trova il simulacro della divinità cui il tempio è consacrato. Questi santuarî sono quasi sempre orientati. Molto spesso sono dipinti in rosso: sugli angoli sono innalzati quattro pali con legati peli di yak e banderuole di stoffa, che debbono servire a tenere a bada le cattive influenze e i demoni. Lo schema più o meno obbligato di questi templi non ha permesso creazioni nuove e originali: la genialità dell'artista ha potuto affermarsi solo nella costruzione dei palazzi principeschi o dei grandi abati e - più di rado - di certi conventi. In questi casi l'architetto ha saputo ideare potenti edifici a parecchi piani i quali splendidamente s'inquadrano nel superbo panorama tibetano e, sorgendo quasi sempre sulla cima di rocce ardue, sembrano quasi continuare nell'ardimento della linea e nel disegno leggermente piramidale lo slancio delle montagne. Basti ricordare, come due magnifici esempî di quest'architettura, il palazzo dei re del Ladakh a Leh, forte edificio a nove piani, e il palazzo del Dalai Lama a Lhasa, vera dimora imperiale costruita sul colle sacro tagliato nei fianchi dalla duplice rampata di una gigantesca scalea.
Ma dove i Tibetani hanno più fatto sfoggio del loro talento artistico è soprattutto nella pittura. Senza dubbio, anche nella pittura i tibetani non sono stati dei creatori, ma hanno largamente attinto alle due grandi culture verso le quali sono debitori, cioè all'indiana prima e alla cinese poi. Gli elementi dell'una e dell'altra civiltà furono raccolti con grande libertà e ne nacque un'arte che pur tradendo quasi sempre la sua fonte d'ispirazione ha tuttavia un'individualità propria.
In genere si crede che la pittura tibetana abbia subito larghi influssi da quella nepalese, la quale sull'autorità dello storico mongolo Tāranātha (sec. XVI) sarebbe a sua volta strettamente connessa con le scuole bengaliche. Sta però di fatto che anche il Kashmir ha esercitato una notevole influenza sullo sviluppo della pittura tibetana, specialmente attraverso l'opera di quegli artisti che Rin c'en bzȧn po, uno dei più grandi artefici della religione buddhistica, intorno al 1000 invitò nel regno di Guge (Tibet Occidentale). La prova che la tradizione conservata dalla biografia di questo celebre traduttore di testi sacri dal sanscrito in tibetano coglie nel vero, si può trovare nelle pitture di Tsaparang, capitale dell'antico regno di Guge, e specialmente negli affreschi di Mangang, non molto lontano da Toling, scoperti da G. Tucci nel 1935. I vecchi templi del Tibet occidentale che sono sfuggiti alla distruzione conservano ancora rari esemplari delle antiche pitture religiose uscite dalle scuole di Guge; queste presentano caratteri così particolari che si può benissimo parlare di una maniera di Guge, assolutamente diversa dalla pittura religiosa usualmente rappresentata nei templi delle altre regioni del Tibet e di cui molti esempî si possono ammirare nelle collezioni d'America e d'Europa. La maniera di Guge segue da vicino la tradizione indiana, com'è documentato specialmente dal raffronto con i manoscritti miniati buddhistici che ancora ci restano. Né del resto è improbabile che le scuole buddhistiche dell'Asia centrale su cui i Tibetani diffusero parzialmente con varia vicenda il loro dominio intorno al sec. VII e VIII, esercitassero anch'esse la loro influenza sulla più antica arte pittorica tibetana; ma troppo pochi sono gli esempî di questa conosciuti perché si possa arrivare per ora a conclusioni sicure.
Mentre dopo la caduta di Guge sotto il Ladakh prima e Lhasa dopo (sec. XVI) scomparve quasi del tutto la scuola pittorica del Tibet occidentale, nelle altre regioni prese il sopravvento la maniera cinese, la quale divenne dominante specialmente durante la dinastia Ming e introdusse nel Tibet elementi nuovi. Mentre infatti le più antiche pitture, derivate dal mistico maṇḍala che era in fondo la rappresentazione simbolica di un sistema di mistica, si limitavano a riprodurre teorie di Buddha e di deità che traducevano nel simbolo convenzionale una determinata esperienza, la Cina introdusse poco alla volta, gli sfondi, i paesaggi, la natura; ora boschetti verdi lontani, ora rupi ardite e brulle, ora corsi d'acqua scintillanti e separò le figure con spazî larghi.
Le pitture murali sono tanto ad encausto, come ad esempio quelle dei templi di Tsaparang, quanto ad affresco vero e proprio: quelle sembrano più antiche di queste.
Ricoprono quasi sempre le pareti dei templi e seguono gli schemi fissati dal ciclo religioso cui s'ispirano: però vicino alla porta quasi sempre si trovano i "protettori dei punti cardinali", o i "protettori della legge" con lo scopo di difendere l'aura di santità che deve regnare nel tempio. Né mancano scene della vita di Buddha e, specie in tempî recenti, la "ruota della vita", in cui sono rappresentate le sei possibili forme d'esistenza in cui l'animo può trovarsi in virtù della sua preparazione carmica.
Le pitture su tela, raramente su seta, si chiamano t'aṅka o t'aṅsku, cioè "rotolo o figura arrotolata": derivate dai paṭa indiani, usati originalmente nei riti iniziatici, esse sono eseguite su stoffa appositamente preparata. In genere si prende un pezzo di tela sul quale si spalma della calce mescolata con colla vegetale e quando questa calce è stata bene assorbita dalla stoffa e si è essiccata, si leviga la superficie con una conchiglia o altra sostanza perfettamente liscia e lucida. Quindi si traccia la divinità centrale intorno a due linee, una tirata dall'alto in basso e l'altra da destra a sinistra: le proporzioni sono regolate da una rigida simmetria, mentre i colori, la disposizione delle membra, i vestiti, i simboli, sono scrupolosamente suggeriti dalle formule di meditazione secondo le quali quelle speciali deità vengono per tradizione evocate. È chiaro che in tal guisa l'artista viene ad essere vincolato da schemi fissi che non è possibile violare senza offendere precetti religiosi; solo nello sfondo o nel paesaggio che occasionalmente egli può disegnare intorno alla figura centrale, specie nelle pitture che riproducono vite di santi e leggende, è possibile all'artista seguire, con una certa libertà, le sue ispirazioni e la sua fantasia. Ma pur con tutte queste limitazioni non può dirsi che la pittura tibetana sia assolutamente priva di valore artistico; per quanto essa resti essenzialmente una riproduzione simbolica e un'iconografia sacra, non c'è dubbio che i Tibetani trassero mirabili effetti dalla combinazione e dalla vivacità dei colori. Colori vivi e intensi che ben si addicono ai caratteri generali dell'arte tibetana sempre sovraccarica e proclive ad un eccesso di ornamentazione che le dà spesso, specie nelle arti minori, un aspetto alquanto barocco.
Come succede per l'India anche nel Tibet le pitture sono tutte anonime: neppure una t' aṅka è firmata e, per quanto si sappia, i nomi degli artisti non ci sono giunti: l'unico esempio conosciuto di pitture firmate sono gli affreschi raffiguranti Sman bla, cioè "dei della medicina" sulle pareti della cappella nel vecchio castello di Sen ge rnam rgyal a Leh. Ciò del resto corrisponde a quanto s'è già detto sul carattere prevalentemente iconografico di queste pitture, considerate non come opere d'arte, ma come vere e proprie preghiere o evocazioni di stati spirituali. Così non possiamo parlare di nessuno stile personale, ma piuttosto di maniere e scuole le quali quasi sempre si formano in alcuni grandi monasteri: da una parte la maniera di Guge di cui s'è sopra parlato, estinta quasi sicuramente nel sec. XVI, dall'altra quella di Tashilunpo, di Lhasa e di Khams, cioè delle provincie orientali del Tibet e infine quelle della Mongolia, nelle quali più che mai si fa sentire l'influenza cinese.
È impossibile enumerare gl'infiniti tipi iconografici che vengono rappresentati nelle pitture tibetane: le t'aṅ ka infatti ci fanno passare in rassegna l'inesauribile corteo delle divinità mahāyāniche, i loro simboli e le vite dei santi e degli asceti. Esse tuttavia si possono distinguere nei seguenti gruppi fondamentali: 1. maṇḍala, vale a dire rappresentazione simbolica di esperienze tantriche, nella totalità dei loro momenti; sintesi pittorica dell'evoluzione e dell'involuzione cosmica, secondo i varî sistemi esoterici; 2. paradisi o rappresentazioni delle beatitudini ultraterrene nei mondi trascendenti cui si può salire quando il voto della santità (smon lam) sia stato realizzato nella sua interezza. Così le t' aṅ/ka che rappresentano i paradisi di Amitābha, cioè la Sukhāvatī, bDe ba can; 3. apoteosi delle varie deità che fanno parte della suprema pentade e che stanno a simboleggiare modi particolari dell'avverarsi e concretarsi nell'esperienza sensibile, della coscienza cosmica; 4. scene della vita del Buddha o dei suoi discepoli o dei sommi maestri delle scuole buddhistiche.
La scultura è anch'essa strettamente dipendente da quella indiana: anche in questo caso conviene ripetere quello che si è detto a proposito della pittura: e cioè che non si deve solo parlare di influsso nepalese, ma bisogna tener conto, specie nelle regioni occidentali, della penetrazione kashmira: a scultori kashmiri, quasi sicuramente quelli che portò con sé Rin c'en bzaṅ po, si devono non solo certi pannelli di legno che il Francke per primo vide a Tabo e che G. Tucci ha studiato in seguito, ma anche quei capolavori che sono le porte di Tsaparang e Toling. Di tale penetrazione si trovano tracce perfino a Kojarnath ad oriente del Manasarovar.
Questi artisti lasciarono una scuola, come è sicuramente documentato da alcuni altri capitelli e portali che, se ispirati agli stessi motivi e alla stessa tecnica, tuttavia mostrano minor maestria e una certa rigidezza di stile che le fanno facilmente riconoscere come opere di discepoli. Lo stesso si può forse affermare delle prime statue di bronzo e rame quasi sempre dorato: certo a giudicare dalle cappelle esistenti nel Tibet occidentale, non si può dire che mancassero modelli di sicura fattura indiana, in parte portati dalla pianura dell'Indostan quando i pellegrini cominciarono ad affluire nelle convalli himalāyane, in parte fusi sul luogo. Tuttavia nella statuaria più nota non c'è dubbio che lo stile nepalese predomina; ma nelle opere sicuramente più antiche, attraverso il modello nepalese, si ritrova sempre la primitiva ispirazione indiana: la vita molto sottile, le membra arrotondate, e una certa grazia femminile anche nelle deità maschili, tutti elementi che sono caratteristici della migliore arte indiana: poco alla volta le facce si ingrossano, le figure si appiattiscono, e perdono la snellezza propria del primo periodo. Subentra però un qualche elemento nuovo dovuto specialmente all'influenza dell'arte cinese ed è la tendenza al ritratto. Si possono vedere spesso nelle collezioni europee e meglio ancora tra le molte statue ammassate con grande profusione sugli altari dei templi tibetani, finissimi ritratti di lama e maestri, riprodotti con un sorprendente realismo; alcuni sono dei veri capolavori, specialmente quelli che sembrano provenire dalle fonderie della Mongolia o di Khams, vale a dire da paesi nei quali più forte si è fatto sentire l'influsso cinese
Lo spirito artistico dei Tibetani ha modo di affermarsi anche in maniera notevole nell'artigianato: dalle teiere di rame e argento che cambiano spesso di forma secondo la provincia, dai sostegni per le tazze per il tè, dai gaù, come si chiamano i monili in argento e oro in cui sono racchiuse formule e preghiere e dei quali i Tibetani non sanno privarsi, alle guaine delle spade e alle lampade sacre: in ogni oggetto non si sa se ammirare di più la grazia del disegno o la maestria del lavoro: motivi indiani e cinesi concertati con somma abilità: ora sono gli otto simboli di buon augurio, ora meandri e draghi, ora i mostri marini (makara), ora caratteri cinesi stilizzati.
V. tavv. CI-CIV.
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