Tifo
"Giovinotti, non esageriamo!
(E sia detto anche alle ragazze)"
(Achille Campanile)
Spettatori e/o tifosi
di Nicola Porro
14 aprile
Una circolare del capo della Polizia Gianni De Gennaro, emanata dopo un vertice d'urgenza convocato al Ministero dell'Interno a seguito di ripetuti episodi di violenza durante e dopo incontri di calcio, prescrive la massima severità nei confronti degli ultrà. Da più parti si sollecita l'adozione di misure efficaci che, come è accaduto in altri paesi, restituiscano lo spettacolo sportivo alla fruizione dei 'veri' tifosi.
Stili di partecipazione sportiva
Una riflessione sul tifo sportivo deve preliminarmente sottrarsi a due stereotipi. Il primo riguarda l'equazione tifo-violenza. Il secondo l'identificazione corrente, soprattutto in paesi come l'Italia contemporanea, fra tifo sportivo e tifo propriamente calcistico.
La premessa serve a spiegare perché questo articolo si concentrerà soprattutto sulla partecipazione sportiva del pubblico - impropriamente definita passiva - e sugli stili di partecipazione. In questa ipotesi, la violenza costituisce una modalità della partecipazione stessa, fenomeno capace di generare attenzione e persino allarme sociale, ma dalle dimensioni obiettivamente ridotte. Affrontare la questione degli stili di partecipazione implica perciò la capacità di indagare la funzione politica, il ruolo sociale e la composizione dei pubblici o delle tifoserie.
Nell'epoca dello sport spettacolo a dominanza televisiva e a raggio planetario, ciò impone un'ulteriore distinzione fra il pubblico sconfinato, ma anonimo, degli spettatori televisivi e quello, più ristretto, fisicamente presente sui campi di gara. Questo secondo tipo di pubblico costituisce un attore sportivo dell'evento di primaria importanza. Più della indistinta platea del pubblico televisivo, esso presenta caratteri peculiari, legati all'intensità del sentimento di appartenenza e/o alla competenza tecnica.
Questi caratteri aiutano a differenziare sottouniversi di spettatori-tifosi in base alle discipline e al tipo di eventi preferiti.
Gli stessi pubblici televisivi, del resto, non costituiscono un universo omogeneo e possono addirittura dar vita a forme di mobilitazione diretta.
È il caso di quelle liturgie laiche che accompagnano o seguono i grandi appuntamenti calcistici, con l'ostentazione di simboli identitari (le bandiere nazionali alle finestre) o gli strombazzanti caroselli automobilistici dopo una vittoria della Nazionale: riti propri delle tifoserie espressive, anche se celebrati fuori delle curve degli stadi calcistici o degli altri luoghi deputati. Anche il consumo televisivo si sta peraltro modificando per effetto dell'innovazione tecnologica, nel passaggio dalla pay TV alla pay per view, sino a disegnare una modalità di fruizione digitale e virtualmente interattiva, propria di un pubblico diverso da quello analogico, composto di puri fruitori.
Escludendo dall'analisi i pubblici a distanza, come quello televisivo o radiofonico, si può azzardare una tipologia degli spettatori fisicamente presenti che incroci due variabili: una riguarda la distinzione fra competizione individuale e gioco di squadra, l'altra quella fra attività che comportano contatto fra giocatori e specialità che non lo prevedono.
Se ne ricava la seguente quadripartizione delle attività: a) sport individuali in assenza di contatto fisico fra gli atleti in competizione. È il caso di discipline come l'equitazione, il golf, il tennis, tutte le discipline natatorie, l'atletica leggera, lo sci, le specialità di tiro, il ciclismo e le specialità motoristiche, il pattinaggio di velocità ecc. Appartengono per analogia a questo raggruppamento le prove individuali di concorso, in cui il risultato agonistico è valutato discrezionalmente da giurie, come nelle ginnastiche, nei tuffi, nel pattinaggio di figurazione o nel nuoto sincronizzato. Queste prove individuali possono dar vita a classifiche combinate per squadre o a esibizioni di gruppo di tipo coreografico, che non ne inficiano il profilo modellistico; b) sport individuali che prevedono il contatto fisico, come nelle discipline di combattimento; c) giochi di squadra in assenza di contatto fisico, come nella pallavolo, nel cricket e nel baseball; d) giochi di squadra che prevedono il contatto fisico.
È il caso del calcio, del rugby, della pallanuoto, dell'hockey e dello stesso basket, in cui il contatto fra avversari è sanzionato ma appartiene alla logica del gioco.
La tipologia a) può essere ulteriormente differenziata per quanto riguarda il profilo degli spettatori.
Nelle prove di concorso con giuria, dove non esiste competizione diretta e simultanea, prevalgono modalità di partecipazione meno passionali ed è particolarmente gratificata la competenza tecnica, che consente allo spettatore di apprezzare la qualità del gesto. Al polo opposto, le prove a competizione individuale su strada o circuito, come nel caso di ciclismo e motoristica, possono mobilitare forme di coinvolgimento emozionale assai intense. Quello che accomuna contesti tanto differenziati è che raramente danno origine a manifestazioni di aggressività o di violenza ai danni di atleti o di altri tifosi. L'aggressione armata di uno squilibrato alla tennista Monica Seles, nel 1993, colpì gli appassionati della specialità proprio per la sua eccezionalità. Con un po' di cinismo, l'episodio andrebbe incluso fra i rischi professionali cui è esposto lo star system più che fra le 'degenerazioni' del tifo sportivo.
Le specialità individuali che prevedono il contatto, comprendenti le pratiche di combattimento e la scherma - che non implica impatto fisico, ma usa il corpo dell'avversario come bersaglio -, possono stimolare una partecipazione empatica molto calda. Nemmeno esse, però, danno vita a manifestazioni incontrollate da parte degli spettatori.
Il coinvolgimento del pubblico, che nel caso della boxe può essere eccitato dalle scommesse, si esprime piuttosto in forme di sostegno vocalmente calorose e in altre manifestazioni espressive.
Per molti aspetti, i giochi di squadra che non prevedono il contatto fisico fra avversari in campo si avvicinano alla tipologia di pubblico descritta a proposito delle prove individuali a prevalente componente tecnica. Malgrado la potenza evocativa e il simbolismo identitario che alimentano il tifo per la squadra, sono rarissimi i casi di incidenti di una certa gravità provocati da spettatori nel corso di incontri di pallavolo o di baseball. Fra gli anni Settanta e Ottanta, Dolf Zillman e Allen Guttmann, due fra gli studiosi che hanno inaugurato, da diverse angolature scientifiche, la ricerca sul comportamento delle tifoserie sportive, hanno particolarmente sottolineato questo aspetto. I tifosi, ai loro occhi, rappresentano personalità generalmente capaci di gestire efficacemente le proprie emozioni. Consapevoli di partecipare a un rito collettivo e di produrne il significato, essi riescono a governare dinamiche psicologiche elaborate. Nella maggior parte dei casi, un'intensa partecipazione emozionale è seguita da un 'rientro' alla quotidianità rapido e indolore. La manifestazione sportiva produce nel suo svolgersi una sorta di sospensione del tempo, ma tanto l'euforia per una vittoria quanto l'elaborazione del lutto collettivo per una sconfitta vengono poi generalmente ricondotte senza traumi nell'alveo della quotidianità, governate psichicamente senza insidiosi contraccolpi. Per Zillman e collaboratori (1979) il coinvolgimento nella più emozionante delle partite non modifica le condotte quotidiane degli spettatori più dell'assistere a un concerto rock o a un film di azione.
È però la categoria d), quella che associa l'impatto emotivo dell'appartenenza alla squadra al contatto fisico fra giocatori, che richiede un'attenzione privilegiata. In essa ricadono, infatti, gli sport più popolari nell'ambito della cultura agonistica occidentale, dal calcio al football americano, dalla pallanuoto al basket, alle diverse varianti dell'hockey. Sono gli unici sport in cui la figura dello spettatore violento, e non solo espressivamente aggressivo, possiede un'evidenza empirica, configurandosi in qualche caso come una modalità di azione strategica messa in atto da tifoserie organizzate.
Norme comportamentali e modelli sociologici
Come ogni altro sottosistema sociale anche quello sportivo produce ed esige norme comportamentali. Esse inducono negli attori sociali, individui o gruppi, comportamenti più o meno dotati di congruenza, che variano in relazione a differenti tipologie. In particolare, le tifoserie sperimentano un impatto emozionale tanto più forte quanto maggiore è l'identificazione in una squadra. Questa identificazione può rafforzare o surrogare sentimenti di appartenenza comunitaria, con importanti effetti sociali. L'emotività del pubblico si scatena più facilmente se il gioco consente il contatto fra giocatori, mettendone virtualmente a rischio l'integrità fisica. Dinamiche di azione-reazione, capaci di innescare comportamenti aggressivi, non costituiscono tuttavia una risposta necessaria o automatica alla violazione percepita delle regole formali del gioco. Si può semplicemente affermare che anche le manifestazioni aggressive, non sempre violente sul piano fisico, appartengono al corredo semantico delle tifoserie. Esiste, insomma, una grammatica della partecipazione sportiva e questa è fortemente condizionata dalla tipologia del gioco. Più difficile è invece identificare una congruenza fra le tipologie di specialità, i loro pubblici e la mutevole composizione sociale di questi. Stili di fruizione e modalità comportamentali risultano infatti differenti anche all'interno di ciascuna delle quattro tipologie descritte. La sociologia dello sport britannica, e soprattutto la cosiddetta scuola configurazionale di Norbert Elias ed Eric Dunning (1986), hanno cercato di spiegare questa varietà con i profili sociologici delle tifoserie, espressione a loro volta del complesso rapporto istituitosi fra civilizzazione e sportivizzazione in un arco temporale che va dal 15° al 19° secolo.
La sportivizzazione si sarebbe intrecciata alla civilizzazione nei suoi tratti costitutivi: formazione dello Stato-nazione, industrializzazione e creazione di una civiltà delle buone maniere, capace di trasmettere rigorosi canoni comportamentali e di favorire l'interiorizzazione nella sfera soggettiva delle regole del gioco sociale. Lo sport ha rappresentato una strategia decisiva nella dinamica di costruzione di una società di classi, non più separate dalle barriere insormontabili delle caste ma capaci di generare diseguaglianze e gerarchie propriamente moderne.
Le pratiche agonistiche, e soprattutto i giochi di squadra, emancipandosi dagli antichi giochi comunitari, si sono via via specializzati.
Elaborando così diversi codici comportamentali, che valorizzavano, per esempio, la forza e la lealtà nel rugby e, al contrario, la destrezza e l'opportunismo nel calcio. In questo senso, è lecito sostenere che gli sport hanno assolto funzioni di tipo pedagogico e hanno persino agito, in qualche caso, come strumenti di controllo sociale.
Allen Guttmann (1978) ha ricostruito l'itinerario che emancipa progressivamente lo sport dalle origini ritualistico-religiose per assimilare e rielaborare via via i costrutti fondamentali della modernità, dalla secolarizzazione alla produzione di un'etica del fair play, dalla specializzazione tecnica alla razionalizzazione burocratica, dalla quantificazione industrialistica della prestazione all'idea di record.
In questa cornice analitica ha successivamente incastonato una rappresentazione dei pubblici che muovesse dalla storia delle discipline e da una ricostruzione delle loro trasformazioni nel tempo (Guttmann 1986), spiegandoci come non basti, per esempio, constatare la ricorrente prevalenza di spettatori maschi se non si ricostruisce la genesi dei modelli culturali che danno vita nel tempo, entro differenti sistemi sociali e di valori, a diversi paradigmi di sport. Né ci si può accontentare di descrivere in chiave sociografica la composizione delle tifoserie senza chiamare in causa la più complessiva stratificazione sociale e il sistema politico (Guttmann 2002).
A che serve, si chiede Guttmann, evidenziare come le classi superiori abbiano in genere partecipato di più allo spettacolo sportivo se non spieghiamo le numerose e significative eccezioni che la storia sociale ci segnala? Il calcio medievale e il pugilato britannico della Reggenza, nel secondo decennio dell'Ottocento, erano riservati a un pubblico plebeo. Le gare con l'arco nel Rinascimento e il golf del Novecento hanno sempre prevalentemente attirato un pubblico di ceto medio o medio-alto.
Tifo e violenza
Per Guttmann (2005) è necessario riposizionare nel tempo storico la nozione di sport e verificare l'influenza che esercita su questa la cultura sociale di riferimento. Ciò consente di analizzare anche la violenza sportiva senza concessioni al moralismo o all'impressionismo. È una modificata sensibilità alla visione del sangue - Elias parlerebbe di un effetto della civilizzazione -, per esempio, che differenzia i pubblici degli stadi novecenteschi da quelli che assistevano alle esecuzioni capitali sino alla fine del 18° secolo. Questa considerazione aiuta anche a capire perché siamo inclini a definire pubblico sportivo quello che assiste alle corse dei cani, ma non quello che si appassiona ai combattimenti di galli.
Guttmann ha il merito di differenziare le stesse nozioni di spettatore e tifoso (fan), definendo il secondo come "un consumatore emozionalmente coinvolto di eventi sportivi". Si può affermare, pertanto, che per la maggior parte gli spettatori siano anche tifosi e che i tifosi siano solitamente degli spettatori. Non esiste però una coincidenza necessaria fra le due figure. Il tifoso potrebbe teoricamente non aver mai assistito a un evento agonistico e lo spettatore potrebbe aver seguito centinaia di eventi senza alcun coinvolgimento emozionale. L'intensità dell'investimento emotivo è ciò che trasforma uno spettatore in un tifoso, senza connessioni automatiche con le tipologie di pratica e con la stessa composizione sociologica dei pubblici. Ma è sempre Elias a insegnarci che l'emozione generata dal coinvolgimento sportivo non è un dato casuale e astorico. Essa può essere vista, al contrario, come il prodotto di una complessa rielaborazione culturale e persino esistenziale dei significati.
Bisogna evitare, insomma, una rappresentazione destoricizzata del tifo sportivo, come suggerisce qualche psicologo sociale influenzato dalla scuola di George C. Homans. Anche le manifestazioni espressive del tifo sono mutevoli e non rispondono a dinamiche di gruppo ricorrenti, facilmente prevedibili o addirittura ricostruibili artificialmente.
Per questa ragione è particolarmente indebita l'equazione tifo=violenza.
Si tratta di fenomeni da scomporre concettualmente, distinguendo anzitutto fra violenza degli spettatori e dei giocatori. Questi ultimi possono fare un uso della violenza consentito dalle modalità agonistiche, come nel caso di un combattimento pugilistico, oppure possono far ricorso a manifestazioni apparentemente meno aggressive - come l'entrata a gamba tesa di un calciatore -, ma assolutamente proibite dalle regole del gioco. Il ricorso alla violenza fisica da parte degli spettatori, invece, non è mai legittimo.
Esso appartiene, però, al corredo simbolico delle minoranze devianti, rendendo possibili miscele socialmente pericolose: le curve dell'hooliganism contemporaneo non appaiono sostanzialmente diverse dalla plebe urbana che era solita affollare arene e ippodromi nell'età romana.
La nozione di violenza sportiva andrebbe dunque più appropriatamente definita, secondo Guttmann, "violenza di spettatori collegata allo sport". Organizzare imboscate alle tifoserie avversarie in un grill autostradale o accoltellare fan di altra fede calcistica in una stazione ferroviaria non sono invece comportamenti classificabili in questa maniera.
Essi rispondono a dinamiche che vanno ricostruite sul piano storico. In una prospettiva di lunga durata scopriamo le numerose forme con cui la violenza degli spettatori si è manifestata sin dall'antichità classica, in forme sia espressive sia strumentali. Nell'ottica della breve durata ci accorgiamo come anche un fenomeno apparentemente ben definito, come il tifo calcistico a dominanza aggressiva, vada differenziato e contestualizzato. Alessandro Dal Lago (1990), lo stesso Dal Lago e Roberto Moscati (1992) e, più di recente, Carlo Balestri e Gabriele Viganò (2004), come pure altri autori, hanno efficacemente ricostruito la distinzione fra aggressività prevalentemente simbolica e forme di calcio-squadrismo, fra azione degli hooligans e movimento ultrà. E ancora a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, Antonio Roversi (1988, 1990, 1992) ha segnalato le significative metamorfosi che, nell'arco di pochi decenni, hanno interessato l'azione espressiva delle tifoserie calcistiche in Italia e in Europa. Un approccio che trova un utile aggiornamento nel lavoro di Rocco De Biasi (You'll never walk alone 1998) e poi in quello più recente di Balestri e Roversi (1999), teso a sottolineare le profonde differenze fra movimento ultrà italiano e latino e football hooliganism britannico. Un fenomeno, quest'ultimo, che affonda radici nei modelli comportamentali di quella rough working class partorita dalla deindustrializzazione, intrisa di maschilismo e incline ad abusare di alcol ed eccitanti. Ciò non significa, sottolineano Balestri e Viganò, ignorare le somiglianze fra i due fenomeni. Tanto l'hooliganism britannico quanto il movimento ultrà italiano identificano lo stadio come l'approdo fisico e simbolico di una comunità costituitasi altrove, nei bar o nei pub, nei circoli o in centri giovanili a ispirazione politica o dopolavoristica. Sulle orme del saggio di Alessandro Salvini (1988), i due studiosi italiani individuano la curva come sede di apprendimento di una grammatica etico-normativa che consente l'ingresso in un gruppo dei pari spontaneamente poco propenso ad aprirsi. Le misure repressive e l'azione legislativa di contrasto che, fra il 1989 e il 1994, hanno fatto seguito a gravi episodi di violenza - sino all'uccisione a Genova, nel gennaio 1995, del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo - hanno però accelerato l'ulteriore trasformazione del sottosistema ultrà all'interno del sistema culturale delle tifoserie calcistiche espressive.
La crescente insofferenza per il 'calcio moderno' e l'opposizione alle pay TV affondano le radici in quella fase del movimento. Infine, come sostiene Gary Armstrong (1998), anche l'hooliganism britannico ha conosciuto un processo di dilatazione della base sociale di reclutamento che ne ha modificato l'originale profilo sociologico.
Da un'azione reattiva e sempre ambientata sugli spalti dello stadio, come una rissa fra opposte tifoserie per un rigore negato o un'espulsione discutibile, si era passati fra gli anni Settanta e gli Ottanta a episodi sempre più frequenti di violenza preordinata, sviluppata con modalità paramilitari e quasi sempre lontano dal campo di gara. A cavallo fra gli anni Novanta e il Duemila, una nuova inversione di tendenza. Lo stadio ritorna a essere il luogo nevralgico della conflittualità e si assiste a un revival di linguaggi e coreografie mutuati dall'estremismo politico.
I dati relativi all'Italia, forniti da Francesco Tagliente (2004), segnalano peraltro un parziale ridimensionamento del numero e della gravità degli incidenti occorsi nel campionato 2003-04 nelle quattro serie calcistiche maggiori, rispetto ai valori dell'anno precedente. Considerando che nell'aprile 2003 era entrata in vigore la legge nr. 88, con la contestata introduzione dell'arresto 'in flagranza differita', la tendenza potrebbe essere spiegata con l'adozione di più severe misure repressive. Analisi confermata dal fatto che a crescere sono di nuovo gli incidenti nelle immediate vicinanze degli stadi, eludendo il maggiore controllo di polizia esercitato all'interno degli impianti. Diminuiscono specularmente, invece, gli episodi di violenza preordinati che hanno per teatro luoghi molto distanti dagli stadi. In virtù, forse, di una più efficace, anche se assai onerosa, azione preventiva da parte delle forze dell'ordine. Siamo ancora lontani, peraltro, dalla sistematica e combinata strategia che ha trasformato in pochi anni il calcio britannico e che potrebbe fornire utili indicazioni non solo al legislatore, ma anche a società, club e forze dell'ordine. Quanto agli studiosi di scienze sociali, il loro compito rimane soprattutto quello di evidenziare le differenze e bandire indebite generalizzazioni che ridurrebbero un fenomeno multiforme come il tifo sportivo a un problema di ordine pubblico.
Per questo è importante osservare il calcio come uno fra i possibili oggetti del desiderio della passione sportiva. Senza negarne la particolare rilevanza sociale, ma anche senza smarrire la capacità di disaggregare analiticamente il composito universo culturale e comportamentale delle tifoserie calcistiche.
Guttmann osservava l'universo degli spettatori del baseball o del football americano fanatizzati (trasformati in fan) dall'angolo visuale degli USA degli anni Ottanta. La violenza sports-related gli appariva come una manifestazione per definizione espressiva, la risposta a bisogni insoddisfatti di identificazione. Una tesi che ha autorizzato diversi commentatori, come dimostra la fioritura di ricerche del periodo, a collegare questa violenza con l'esaurimento del ciclo di protesta degli anni Settanta. Sempre Guttmann sottolineava, peraltro, come anche una manifestazione tipicamente espressiva quale il tifo calcistico - e più in generale la partecipazione aggressiva di pubblici fanatizzati a eventi di squadra - potesse presentare un contenuto strumentale. L'ostentazione dell'aggressività, per esempio, si associa a un'idea tradizionale di mascolinità, già indagata dagli studi britannici fra gli anni Settanta e Ottanta (Marsh et al. 1980), e può agire come rito di rassicurazione per tifosi psicologicamente fragili o sessualmente insicuri. Nell'Italia delle migrazioni interne, invece, gli inurbati meridionali nelle grandi città del Nord si riconoscevano come tifosi del Milan o della Juventus prima ancora di essere accolti come cittadini milanesi o torinesi. Quasi che l'appartenenza calcistica facilitasse la conquista della cittadinanza sociale.
Le scienze sociali devono ancora approfondire l'analisi del tifo come sistema culturale e del pubblico come principale produttore del significato dell'evento sportivo, evidenziando la trama sotterranea delle trasformazioni del costume, dell'intrattenimento, della stessa percezione delle gerarchie e delle diseguaglianze sottostanti al consumo di sport. È malinconico riconoscere che, al momento, più delle ricerche socio-antropologiche sul tema, sono le rappresentazioni che delle tifoserie calcistiche inglesi ci ha consegnato la penna di Nick Hornby (Febbre a 90°), l'anatomia dei Furiosi proposta da Nanni Balestrini o gli Appunti di un tifoso del football americano, redatti con sensibilità etnografica da Frederick Exley, ad assolvere questo compito.
La violenza nel tifo calcistico
La parola tifo deriva dal greco t´yphos che ha sia il significato di "fumo, vapore", sia quello di "febbre con torpore"; quest'ultima accezione è quella passata a indicare una patologia di natura infettiva caratterizzata da febbre elevata, alternanza di fasi più o meno acute e offuscamento della coscienza, che può arrivare fino al delirio. Negli anni Venti del secolo scorso il termine cominciò a essere usato dalla stampa sportiva per designare la passione accesa ed entusiastica che soprattutto si manifesta nel parteggiare accanitamente per una squadra di calcio ("Non è fortunatamente la terribile malattia infettiva di cui vogliamo parlare ma, come ognun comprende, la malattia sportiva, onde, più o meno sono infetti in questa stagione gli appassionati del Giuoco del Calcio. Fenomeno di passione acuta a tal punto da rivestire e da assumere, in certi casi ed in certe persone, i fenomeni più strani, più patologici", Giovanni Dovara in Il Calcio di Genova, 1923).
Fu infatti negli anni Venti che la partecipazione degli spettatori agli incontri sportivi andò assumendo i caratteri di fenomeno di massa, coinvolgendo migliaia di persone. All'incontro del 15 gennaio 1922 tra Italia e Austria al Velodromo Sempione di Milano assistettero 20.000 spettatori, 55.000 a quello fra Italia e Spagna al Littoriale di Bologna il 29 maggio 1927. Sempre più numerosi erano quelli che partecipavano alle partite di club (a Roma la finalissima del campionato 1922-23 Lazio-Genoa ebbe 10.000 spettatori) e si diffuse anche l'abitudine di seguire in trasferta la squadra del cuore, che per lo più coincideva con quella della propria città; dove la fusione dei vari club di inizio secolo aveva portato alla nascita di più squadre come a Roma, Torino e Milano, i sostenitori si dividevano fra quelle; solo dopo i cinque scudetti consecutivi della Juventus negli anni Trenta si sarebbero formate tifoserie nazionali di squadre leader del campionato. Gli impianti si erano intanto moltiplicati: nel 1930 83 dei 94 capoluoghi di provincia italiani si erano dotati di uno stadio.
Non mancarono già in quel periodo episodi di intolleranza e di violenza, come la rissa scoppiata tra giocatori e pubblico durante Lucca-Parma nella stagione 1923-24 oppure nel 1925 la sparatoria alla stazione di Porta Nuova a Torino al termine del quarto incontro di spareggio per lo scudetto tra il Genoa e il Bologna. Si trattò tuttavia di fatti sporadici, dovuti in genere all'iniziativa di singole persone. Il tifo non era organizzato, i sostenitori si incontravano sugli spalti e quando la partita finiva riprendevano ognuno la propria strada.
La situazione rimase sostanzialmente immutata fino al dopoguerra quando cominciarono a sorgere numerosi club di tifosi. Gli episodi di intemperanza divennero abbastanza frequenti, soprattutto invasioni di campo, aggressioni ai giocatori (spesso della propria squadra) e all'arbitro. Negli anni Sessanta nacquero i primi gruppi di 'Fedelissimi' soprattutto allo scopo di garantire una consistente presenza di sostenitori durante le trasferte della squadra. Fu quella la prima origine dei gruppi ultrà che si affermarono poi alla fine del decennio (l'antesignano fu la Fossa dei Leoni del Milan, nata nel 1969). Si trattava per lo più di ragazzi fra i 15 e i 20 anni che adottavano un modello di tifo del tutto diverso da quello degli adulti. Raccolti nelle curve, identificate come un 'territorio' da distinguere mediante l'uso di striscioni con il nome e il simbolo del gruppo, vestiti con indumenti paramilitari comuni alle organizzazioni politiche estremiste del tempo e con l'immancabile sciarpa con i colori sociali della squadra, gli ultrà mutuavano rituali e tecniche dalle tifoserie di altri paesi: dalla torcida brasiliana l'uso di trombe e tamburi, dagli inglesi la 'sciarpata' (le sciarpe alzate e distese al di sopra della testa) e l'accompagnamento delle azioni di gioco con cori quasi ossessivi per incoraggiare i giocatori della propria squadra. Divennero comuni inoltre l'uso di articoli pirotecnici (razzi per segnalazioni marittime, candelotti fumogeni, bengala a luce colorata) e quello delle 'coreografie' colorate e scenografiche, con la partecipazione dell'intero settore della curva. In questo modo il 'fattore campo' assunse un'enorme importanza e la tifoseria divenne il 'dodicesimo giocatore'.
Con la Coppa dei Campioni, nel 1969, i cosiddetti 'ragazzi delle curve' entrarono in contatto con le tifoserie anglosassoni e con il fenomeno dell'hooliganism, le frange più violente dei supporters inglesi (il nome deriva da Houlihan, una famiglia irlandese che si distinse per gli atteggiamenti antisociali nella Londra del 19° secolo; la parola passò poi a indicare persone provenienti dai settori più bassi della scala sociale, di cui erano propri i comportamenti turbolenti). Queste erano tristemente famose per le risse fra diverse bande, per le spedizioni punitive contro i tifosi avversari e per gli atti di vandalismo e distruzione degli impianti e dei mezzi di trasporto. Gli ultrà nostrani ne emularono subito i comportamenti, subendo al contempo l'influsso dei gruppi extraparlamentari, sia di destra sia di sinistra, con i quali si realizzò una sorta di identificazione. Alcune caratteristiche dei gruppi politici estremisti, quali il senso di coesione e di cameratismo e la sfida all'autorità costituita, divennero proprie dei gruppi ultrà che in breve crebbero di numero e di dimensioni, interessando in un primo tempo le squadre del Nord e della divisione maggiore, per estendersi poi anche a Sud e nelle serie inferiori. La scelta del nome derivava prevalentemente dai due modelli di riferimento: quelli che si richiamavano agli hooligans (Eagles, Supporters, Boys, Mods, Vikings, Figthers, Rangers, Old Lions ecc.) e quelli che si riconducevano alle sigle di gruppi eversivi (Brigate, Commandos, Falange, Squadre d'Azione, Armata, Fedayn, Avanguardia ecc.).
A metà degli anni Settanta si verificarono i primi episodi gravi di violenza: risse tra tifoserie nemiche, a volte con connotazioni contemporaneamente politiche e sportive (come gli scontri fra le Red-white panthers del Vicenza, di sinistra, e le Brigate Gialloblu di Verona, di destra), devastazioni fuori dagli stadi, azioni di guerriglia, attacchi alle forze dell'ordine. Nel 1977 durante la partita Atalanta-Torino gli ultrà si affrontarono armati di spranghe di ferro, a San Siro in occasione del derby Inter-Milan Boys interisti e Brigate Rossonere si scambiarono coltellate. Le istituzioni non valutarono subito l'impatto del fenomeno e tardarono ad adottare provvedimenti adeguati.
Il 28 ottobre 1979 all'Olimpico di Roma, un'ora prima dell'inizio del derby, il tifoso laziale Vincenzo Paparelli fu colpito da un razzo nautico lanciato ad altezza d'uomo dalla curva romanista verso quella laziale. Per l'uccisione di Paparelli fu arrestato, per omicidio preterintenzionale, un gruppetto di teppisti. Durante il processo emersero particolari inquietanti: l'imputato Giovanni Fiorillo, l'ultrà romanista autore del tragico lancio, rivelò di aver comprato il razzo da segnalazione nautica senza che gli venisse chiesto nessun documento di riconoscimento e di aver introdotto all'Olimpico il tubo di lancio dell'ordigno, lungo più di un metro, e la carica del razzo, smontati, senza aver avuto nessun problema con la Polizia; gli agenti non perquisivano gli ultrà e permettevano anzi che questi, con la scusa degli striscioni da fissare e della coreografia da allestire, entrassero nello stadio molto prima dell'inizio della partita e gestissero addirittura dei depositi di materiali all'interno dell'impianto. Il fatto scosse l'opinione pubblica e vennero prese le prime misure repressive: per alcuni mesi fu proibito l'ingresso allo stadio di aste di bandiera, tamburi e persino striscioni dai nomi bellicosi.
Di uno degli episodi più drammatici, emblematico delle terribili conseguenze a cui può portare il tifo quando degenera in violenza, furono vittima i tifosi italiani. Il 29 maggio 1985 all'Heysel di Bruxelles prima della partita Juventus-Liverpool, finale della Coppa dei Campioni, morirono per schiacciamento 39 persone dopo che una massa di hooligans ubriachi aveva invaso la tribuna dove sedevano gli italiani, provocando il crollo di una transenna. In seguito a questo episodio, i club inglesi furono per alcuni anni estromessi dalle competizioni internazionali. Dopo questo e altri gravi incidenti (in particolare quello che si verificò nel 1989 nello stadio di Hillsborough a Sheffield, dove durante Liverpool-Nottingham una fiumana di tifosi senza biglietto tentò di forzare gli ingressi e nella calca 96 persone restarono schiacciate contro le recinzioni), il governo Thatcher affrontò il problema della violenza calcistica con estrema serietà. Vennero promulgate leggi molto severe e fu promosso un attento lavoro d'intelligence di Scotland Yard per infiltrare agenti nelle bande di teppisti e identificarne i capi. Grazie a questi provvedimenti la Gran Bretagna è arrivata a riportare gli stadi a essere un luogo per famiglie. Le violenze non sono finite, ma molto diminuite e si sono spostate fuori dagli impianti, dove l'intervento delle forze dell'ordine è più rapido ed efficace. Poiché i comportamenti teppistici degli hooligans continuavano in occasione di partite all'estero, il governo Blair nell'estate del 2000, al termine degli Europei disputati in Belgio e Olanda e che avevano visto vari incidenti creati dai supporters inglesi, ha fatto approvare in tempi brevissimi il Football disorder act, un pacchetto di leggi antiviolenza che ha conferito poteri enormi alla polizia, alla quale è concessa fra l'altro la facoltà di sequestrare il passaporto a una persona sospetta cinque giorni prima di una gara internazionale.
L'Italia è stata più lenta a emanare una normativa specifica, pur nel succedersi di fatti gravi. Il 29 gennaio 1995 a Genova, vicino allo stadio di Marassi, un giovane tifoso genoano, Vincenzo Spagnolo, fu ucciso a coltellate da un ultrà del Milan, fiancheggiato da un gruppo di suoi compagni altrettanto violenti, nel corso di un assalto contro i sostenitori della squadra avversaria. Sull'onda dello sdegno suscitato dagli incidenti di Genova il governo Prodi si fece promotore di diverse iniziative antiviolenza, fra le quali la creazione dell'Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, ma al Parlamento i capigruppo dei partiti non si accordarono su un disegno di legge unitario da approvare con procedura di urgenza. Nel 1998 fu presentato il disegno di legge Veltroni-Napolitano-Flick - a firma del vicepresidente del Consiglio, del ministro dell'Interno e del guardasigilli - che prevedeva l'arresto in flagranza di reato, lo specifico reato di lancio di oggetti in campo e una serie di aggravanti per chi creasse tensione e violenza allo stadio. Il disegno non venne convertito in legge ma confluì in un "Testo unificato recante norme in materia di fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive", che passò all'esame della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati nel 1999. Ancora una volta a riproporre al Parlamento l'urgenza di specifiche misure fu un incidente mortale: il 24 maggio, presso la stazione di Nocera Inferiore, lo scoppio di un fumogeno fece divampare un incendio sul treno speciale che riportava a casa i tifosi della Salernitana, dopo una partita con il Piacenza, e quattro giovani morirono carbonizzati. Tuttavia anche questo disegno non fu convertito in legge e decadde con la fine della legislatura nella primavera del 2001.
Il 2 luglio 2001 morì, dopo un'agonia di 15 giorni, il giovane Antonino Currò di 24 anni, colpito al volto da un razzo lanciato dal settore dei tifosi avversari del Catania durante la partita di ritorno dei playoff di C1 fra Messina e Catania. Fu arrestato un ultrà diciassettenne del Messina, poi rilasciato per mancanza di prove. Alcuni mesi prima aveva fatto scalpore il lancio di un motorino dal secondo anello dello stadio Meazza di Milano durante l'incontro Inter-Atalanta. La tragedia di Messina convinse il governo Berlusconi e il Parlamento della necessità di varare una legge specifica contro la violenza nel calcio prima della ripresa del campionato. Un decreto legge contro il teppismo negli stadi fu emanato il 20 agosto e rimase in vigore, dando buoni frutti, fino alla metà di ottobre. Il 17 ottobre fu convertito in legge, ma durante il dibattito in Parlamento una serie di emendamenti ne attenuarono la severità. In particolare fu prevista la possibilità di commutare in sanzioni pecuniarie le pene detentive e fu sostituita con il "fermo nelle 48 ore, previa autorizzazione del magistrato", la "flagranza di reato allargata", che nel decreto consentiva di procedere all'arresto nei due giorni successivi gli episodi di violenza, sulla base di prove televisive.
Il 21 febbraio 2003, in considerazione delle intemperanze che con sempre maggiore frequenza accompagnavano lo svolgimento degli incontri di calcio, con una media di 28 poliziotti e 8 civili feriti ogni domenica, il governo decise di adottare misure straordinarie. Il 24 febbraio fu emanato il decreto legge nr. 28, che prevedeva la possibilità di effettuare arresti in flagranza anche a distanza di 36 ore dal reato, sulla base di prove fotografiche, video e di testimonianze. Ai prefetti veniva data facoltà di disporre lo spostamento di una partita per ragioni di ordine pubblico e la chiusura fino a un mese degli impianti nei quali si fossero verificati episodi di violenza. Il 24 aprile dello stesso anno il decreto fu convertito nella legge nr. 88, senza che vi venissero apportate sostanziali modifiche.
Nel corso degli anni Novanta si era intanto manifestata una profonda crisi dell'universo ultrà. Contemporanea-mente al declino e alla mancanza di ricambio generazionale della leadership dei gruppi di curva e alla crescente precarietà dei 'gemellaggi' (cioè di quei patti di non belligeranza che consentivano di evitare lo scontro fra alcune organizzazioni), le tifoserie si frammentavano in più organizzazioni instabili e in concorrenza per la supremazia. Dopo la morte di Vincenzo Spagnolo a Genova si è verificata una dissoluzione irreversibile delle vecchie organizzazioni a favore di una nuova tifoseria sempre più incline alla violenza gratuita, al vandalismo, al razzismo e alla xenofobia. Gli scontri fra gruppi rivali sono calati di numero, mentre sono aumentati quelli con le forze dell'ordine, con le quali i tifosi si affrontano prima e soprattutto dopo gli incontri, a prescindere dai risultati, in azioni definite di 'autodifesa'. Un esempio significativo è quanto avvenuto il 21 marzo 2004 a Roma quando alcuni ultrà, facendo prima circolare la falsa notizia della morte di un bambino causata dalla Polizia, entrando poi sul campo e comunicando tale notizia ai giocatori, impedirono lo svolgimento del derby capitolino e successivamente fuori dello stadio ingaggiarono per ore azioni di guerriglia contro le forze dell'ordine.
All'inizio del 2005 la consistenza del fenomeno degli ultrà era stimata in 440 gruppi e in almeno 75.000 tifosi organizzati, per circa il 20% con una connotazione politica. Attraverso i siti Internet e le pubblicazioni specializzate, le cosiddette fanzine, i vari gruppi si accordano sulle azioni da compiere e sui luoghi dove riunirsi. La conflittualità con la Polizia è il problema centrale e non si distaccano da un atteggiamento di vittimismo-aggressività neanche quelle organizzazioni di ultrà nominalmente impegnate in programmi antiviolenza. Così, per es., il Progetto Ultrà, nato nel 1995 addirittura con un contributo finanziario della Commissione Europea e della Regione Emilia-Romagna per "contrastare i comportamenti violenti e xenofobi negli stadi", è soprattutto noto per aver pubblicato e pubblicizzato via Internet il vademecum 337/01 Istruzioni per l'uso. Manualetto per la sopravvivenza del tifoso, nel quale si suggeriscono i "comportamenti da assumere nei confronti degli esponenti delle forze dell'ordine" e i "recapiti degli avvocati esperti nel settore da consultare (anche on-line) in caso di fermo e/o denuncia".
L'ampiezza del fenomeno della violenza calcistica e la difficoltà a contenerlo con misure esclusivamente di ordine pubblico hanno fatto prendere coscienza della necessità di intervenire a livelli più ampi, sia con iniziative di carattere legislativo, sia attraverso una cooperazione tra apparati di sicurezza, organismi sportivi ed enti interessati. Questa opera di raccordo viene svolta nell'ambito del già citato Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, che opera presso il Ministero dell'Interno ed è presieduto dal direttore dell'Ufficio per l'ordine pubblico del Dipartimento di Pubblica sicurezza. Ne fanno parte funzionari del Dipartimento stesso, del Ministero per i Beni e le Attività culturali, del CONI, della FIGC, delle società sportive, delle Ferrovie dello Stato e della Società Autogrill e inoltre ufficiali dell'Arma dei Carabinieri. Le attività dell'Osservatorio consistono fra l'altro nel valutare le problematiche connesse agli incontri di calcio in programma nelle giornate successive alla seduta, attribuendo degli indici di rischio sulla base dei quali alle autorità di Pubblica sicurezza dei luoghi in cui si disputano le gare vengono impartite direttive per l'adozione delle misure necessarie a garantire il regolare svolgimento degli eventi sportivi.
L'Osservatorio pubblica annualmente un Rapporto sulla violenza degli stadi che rappresenta l'analisi più completa del fenomeno. Da quello relativo alla stagione calcistica 2003-04, emerge che gli incontri di campionato, considerando le partite di serie A, B, C e D, sono stati in totale 5724 e vi hanno assistito quasi 20 milioni di spettatori; circa un milione ha seguito la squadra del cuore anche in trasferta. Per la gestione degli eventi sono stati impegnati 280.000 elementi delle forze dell'ordine. Fra tutti gli incontri 231 sono stati accompagnati da incidenti, che hanno portato al ferimento di 931 agenti e di 282 tifosi con una riduzione rispetto alla stagione precedente del 40% del numero di tifosi feriti e del 25% di quello di poliziotti, un risultato positivo attribuito soprattutto all'adozione di una politica di prevenzione.
La comunque persistente gravità del fenomeno, palesata dal ripetersi di episodi di violenza nell'aprile 2005, ha spinto il Ministero dell'Interno a un ulteriore rafforzamento delle misure preventive, con controlli serrati sulla vendita dei biglietti e sugli oggetti introdotti negli stadi. È stato inoltre disposto che in caso di incidenti gravi, anche fuori dagli impianti, il responsabile dell'ordine pubblico possa ordinare di interrompere o di non far giocare la gara. Per parte sua la Federazione italiana giuoco calcio ha stabilito che, al primo lancio dagli spalti di petardi o oggetti idonei a offendere, le partite siano sospese con l'attribuzione dello 0-3 a tavolino a carico della società ritenuta responsabile.
riferimenti bibliografici
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