TINDARI (XXXIII, p. 863)
La città greca (Tyndaris) fu fondata sull'altura del capo omonimo sulla costa settentrionale della Sicilia, in un lembo del territorio di Abakainon, da Dionigi di Siracusa nel 396 a. C. come caposaldo del suo dominio sulla costa tirrenica. Pochi sono i punti noti della sua storia. Si sa che nel 344 a. C. affiancò la spedizione del corinzio Timoleonte, chiamato a restaurare la democrazia a Siracusa travagliata dalle gravi perturbazioni politiche interne e dalla minaccia cartaginese, inviandogli insieme agli Adraniti non pochi armati. Nella seconda metà del sec. 4° a. C. forse fece capo a T. una confederazione costituita da piccoli centri della costa siciliana antistante le Eolie, come proverebbe ad esempio la presenza dell'eroe fondatore di Agathyrnon nelle sue monete.
Ricordo di T. si ha quindi nell'età di Ierone II, al tempo delle sue campagne contro i Mamertini. Infatti il sovrano siracusano, dopo essersi assicurato di Tauromenion e di Ameselon, avanza su Alaisa, Abakainon e Tyndaris (270 a. C.), stringendo sempre più la cerchia attorno ai suoi nemici, che sconfiggerà nella successiva battaglia del fiume Longano. Durante la prima guerra punica si era insediato in T. un presidio cartaginese che, venuto in sospetto del favore popolare verso i Romani, trasferì quali ostaggi al Lilibeo i suoi più nobili cittadini. Ma solo dopo l'occupazione di Panormo (254 a. C.), assieme ad altri centri, T. passa spontaneamente ai Romani. Nella provincia romana di Sicilia T. fu civitas decumana.
Alla 3ª guerra punica (146 a. C.), parteciparono i Tindaritani a fianco di Scipione Emiliano, che restituì loro l'aurea statua di Mercurio già sottratta alla città dai Cartaginesi. Al termine delle guerre puniche T. è fra le 17 città siciliane alleate e fedeli a Roma autorizzate a portare una corona a Venere Ericina.
Contro la città si appuntò l'ingordigia di Verre. Tra l'altro fu da lui presa e portata nella sua villa a Messina la ricordata statua di Mercurio, per cui poi T. ebbe un posto notevolissimo nella denuncia degli arbitrî e violenze perpetrati dal propretore. Qualche anno più tardi (40 a. C.) la città fu presa da Sesto Pompeo e da lui presidiata nella lotta contro Ottaviano; ma Agrippa riuscì ad occuparla. Augusto nel 22-21 a. C. dedusse quindi in T. una colonia, registrata nelle epigrafi quale Colonia Augusta Tyndaritanorum. Forse nei primi anni del 1° sec. d. C., T. fu colpita da un disastro: il mare inghiottì una parte della città, secondo Plinio addirittura "dimidiam Tyndarida urbem": forse da questa riduzione dell'area urbana deriva la qualifica di pólisma datale da Strabone. Nessun altro fatto saliente è ricordato nell'età imperiale romana. Dal 5° sec. T. fu sede episcopale, e tale restò fino almeno al sec. 9°, quando forse fu distrutta dagli Arabi.
Gli scavi condotti nell'ultimo decennio (1950-1960) nel pianoro del colle longitudinalmente sviluppato da est ad ovest e racchiuso dalle poderose mura di difesa, nella zona compresa tra il Teatro e la "Basilica", consentono di farsi un'idea della topografia antica di T.: il suo impianto urbanistico dovette sin dall'origine, stando all'identica orientazione delle vestigia di case greche del sec. 4° a. C. e delle case ellenistico-romane, che vennero a sovrapporsi a quelle, essere basato su una regolare planimetria a reticolo risultante dall'incrociarsi ad angolo retto dei larghi decumani lastricati (se ne sono riconosciuti con sicurezza due; ma forse qualche altro se ne aggiungeva nei punti di maggior larghezza del colle), pressoché pianeggianti e correnti a diversi livelli, e dei cardines (almeno una quindicina) più stretti, assai ripidi ed attraversati lungo il loro asse dalle fognature, in modo da costituire degli isolati di abitazione longitudinalmente sviluppati da sud a nord. L'insula messa in piena luce delle cinque individuate a valle del tronco di decumano collegante i due grandi monumenti pubblici già noti, mostra come si succedesse verso monte una serie di edifici, domus private e costruzioni pubbliche, con una disposizione a terrazze. Lungo il decumano inferiore si aprono delle tabernae e magazzini; le case sono del tipo ellenistico con i vani praticati attorno ad un peristilio a colonne e pavimentati in cocciopesto (l'opus signinum) ed in qualche caso a mosaico policromo, e testimoniano del rinnovamento edilizio cui andò soggetta la città nel sec. 1° a. C.; ai restauri praticativi nella 2ª metà del secolo successivo si devono invece assegnare i bei mosaici in bianco e nero. Gli edifici pubblici di quest'insula erano prossimi al decumano superiore, fiancheggiato da una non ampia terma, cui succedeva nel terrazzo sottostante un piccolo mercato.
Il Teatro che si incontra ad occidente dello stesso decumano, adagiò la sua cavea nella parte alta del pendìo del pianoro, presso le mura meridionali, ricavando le ale estreme sui terrapieni sostenuti dai robusti muri di analemma in opera isodoma. L'armonioso koilon aperto verso il mare infinito, al cospetto delle isole Eolie, doveva comprendere non meno di 28 file di gradinate, distinte in 9 cunei dalle 10 scalette d'accesso (kerkídes) che dal piano dell'orchestra salivano sino alla sommità dei sedili senza interruzione attesa la mancanza di un diazoma intermedio. La fronte della scena monumentale, compresa tra parasceni avanzati come nei teatri di Siracusa e di Segesta, fu posta sulla tangente del cerchio dell'orchestra: la particolare sagomatura di taluni cospicui elementi architettonici superstiti, i quali ne hanno consentito al Bulle la completa ricostruzione grafica, fa pensare che il monumento sia sorto intorno alla metà del sec. 3° a. C. Come il teatro di Taormina così questo tindaritano subì in età romana una notevole trasfomazione per far sì che potesse accogliere il genere di spettacolo gladiatorio. Affondando alquanto il piano d'orchestra e sopprimendo alcune file dei gradoni inferiori fu possibile praticare una cripta, a sostegno di un alto podio per tutto l'emiciclo della cavea mentre con dei raccordi murarî curvilinei ai due lati della scena e con la soppressione del logéion si venne a completare l'ovale dell'arena.
La "Basilica", che prospetta verso il Teatro, situata com'è ad oriente del tratto di decumano superiore scoperto, e certamente attribuibile alla migliore epoca romana (metà 1° sec. a. C.), assolveva oltre alle funzioni proprie di un tale monumento anche a quelle di grandioso propileo dell'agorà, che si stendeva più ad est in parte al disotto delle casette del villaggio odierno e che guardava col suo lato sud-orientale verso l'acropoli, ora occupata dal moderno santuario della Madonna del Tindaro. L'edificio consiste essenzialmente di un grande ambiente centrale in forma di galleria a paraste fortemente aggettanti sui muri costruiti in grandi conci squadrati e reggenti già le nove arcate lapidee, cui venivano ad appoggiarsi le campate in calcestruzzo della copertura a botte. Aperto sui lati brevi, costituiva normalmente il passaggio coperto del primo tratto del decumano uscente dall'agorà: chiuso con cancelli per adempiere alle vere e proprie funzioni di una basilica, nell'occasione faceva deviare il traffico sulle due strade laterali a cielo scoperto, ma scavalcate da arcate anch'esse in grandi conci lapidei, che assolvendo da un lato ad una funzione statica di controspinta al vasto ambiente centrale contribuivano a dare una maggiore monumentalità architettonica ai prospetti dell'edificio risultanti a più fornici, mentre con motivo pratico venivano in qualche caso a costituire dei cavalcavia per accedere al ripiano superiore della Basilica. Rovinata nell'antichità stessa per il crollo del lato a valle - sulla sua regolare caduta passò infatti il muro di difesa bizantino - ridotta alla metà del secolo scorso alla sola parete a monte sostenente ancora due arcate, successivamente ancor più mutilata e destinata a subire ulteriori irreparabili danni, è stata restaurata nel 1956 risollevando il lato crollato, consolidando le parti superstiti e restituendo al prospetto occidentale pressoché completa la successione dei suoi fornici.
Ma il più superbo monumento di T. è rappresentato dai bellissimi restu delle mura urbane. Al più antico impianto dell'età di Dionigi, che, sulla scorta di qualche vestigio recentemente scoperto, risultava di una struttura ad opera incerta alternata a pilastri di blocchi, si sostituì nell'età ellenistica, probabilmente nel corso del 3° sec. a. C., come pare abbiano accertato i saggi eseguiti nel suo interno che hanno restituito monete di Iceta e di Ierone II, la superstite fortificazione: le mura sono formate da una duplice cortina di blocchi squadrati, disposti in filari isodomi contenenti un riempimento interno di opera a sacco, attraversata da alcune postierle e da numerose cloache di drenaggio. All'esterno aggettavano nei punti di maggiore interesse strategico torri quadrate, due delle quali, fiancheggiate da postierle per una difesa manovrata, erano poste all'imbocco del dispositivo a tenaglia semicircolare, al culmine del quale si apriva l'unica porta urbica di tutto il sistema. La cinta greca seguiva il rilievo del terreno mancando nel tratto verso mare della collina per i forti strapiombi, e scendeva sul lato ovest fino alla spiaggia, seguendo la cresta della Rocca Cacciatora. In età tardo-imperiale (sec. 4°-5° d. C.) T. vede modificate le sue difese col restauro di parte delle mura antiche e col completamento della cerchia anche dal lato a mare a spese degli edifici cittadini in rovina. Più tardi, in età bizantina, l'abitato si ridusse a una piccola parte dell'area antica, quando un nuovo bastione attraversò obliquameme la Basilica (appoggiandosi, come s'è visto, alle rovine di essa) e l'agorà.
T. ha lasciato importanti opere d'arte come il frammento della statua marmorea di Nike (Museo di Siracusa) rievocante quella di Paionios, lo Zeus (Museo di Palermo), la colossale testa di Augusto, conservata, insieme ad alcuni "Togati" e agli oggetti di scavo restituiti recentemente dall'area urbana e dalla necropoli, nell'Antiquarium sorto nel luogo. Vedi tav. f. t.
Bibl.: K. Ziegler, s. v. Tyndaris, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie, VII A2, col. 1776 ss.; G. Parisi, Tyndaris, Messina 1949; G. V. Gentili, in Fasti Archaeologici, V (1950), n. 1821; N. Lamboglia, Tindari, città sepolta della Sicilia, in Le vie d'Italia del T.C.I., n. 12, dicembre 1951; F. Barreca, in Fasti Archaeologici, X (1957), n. 2657, XI (1958), n. 2878; id., Tindari colonia dionigiana, in Rend. Linc., 8 s., XII (1957), pp. 125-135; L. Bernabò Brea, Musei e Monumenti in Sicilia, Novara 1958, pp. 87-91.