tingere (tignere; tinghe, in rima, cong. pres. II singol.)
Nessun segno del verbo nelle opere minori di D., che forse vi avvertiva un valore ‛ comico '; oltre che nel Fiore, esso è invece largamente attestato nel poema (nove occorrenze, di cui sette al participio passato e una delle due in forma finita con la nasale palatale del fiorentino antico), non senza significativa esclusione dall'ultima cantica.
Nell'accezione materiale di " colorare " e simili, applicata a oggetti o cose inanimate con variatio di preposizione nel complemento, rientra pienamente soltanto l'impiego del Fiore, nell'ensenhamen della Vecchia che rivela a Bellaccoglienza i segreti dei trucchi femminili (e diverrà termine tecnico di questo settore lessicale, con l'Alberti e s. Bernardino): CLXVI 5 Se non son bionde [le trecce], tingale in erbaggio / e a l'uovo, " con succhi d'erbe e rosso d'uovo ". Parallelamente si riscontra nell'ensenhamen di Amico ad Amante (LXV 8), dove però assume senza determinazione di complemento un tenue alone figurato - quel lusingar fa che tu 'l tinghe, " maschera astutamente " le tue adulazioni alla donna perché non appaiano sfacciate o finte -, forse suggerito dal traslato furbesco del precedente, e in rima, dipinghe (" lisci, lusinghi ad inganno ", Parodi).
Il supremo progresso attuato dal linguaggio dantesco nella Commedia si misura confrontando l'eventuale punto di partenza con If V 90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno, ove chi traducesse " imbrattammo la terra col sangue nostro e di altri " impoverirebbe un'immagine che per la sua desolata intensità sconfina in una dimensione metaforica (osserva il Momigliano: " la catastrofe è già adombrata, con un verso indeterminato che le conferisce una vastità cosmica e solleva questo che fu, a quei tempi, un fatto di cronaca, all'altezza d'un esemplare eterno di sciagura ").
Riferito a persona, col solito complemento, ma nel passivo: If IX 38 tre furïe infernal di sangue tinte, cioè (sulla falsariga di Stazio Theb. I 106-107 " suffusa veneno / … ac sanie gliscit cutis ", se non piuttosto di Virg. Aen. VI 555 " Tisiphoneque sedens palla succincta cruenta ") " asperse ", " macchiate ", " insozzate ", meno che mai " di color sanguigno ", come conferma anche la ripresa petratchesca in Rime XXXVI 11 " ne l'altrui sangue già bagnato e tinto " (ma cfr. anche XXVIII 96 e Tr. della Fama, Nel cor pien 79).
Per naturale estensione ellittica, la forma finita (nel secondo luogo che le compete, in If XXXI 2) penetra nell'area di " far colorire ", " imporporare ", " soffondere di rossore ": Virgilio con le sue parole mi tinse l'una e l'altra guancia, " mi fece arrossire per la vergogna ". Il Sapegno richiama un'immagine affine in Iacopone Laudi LVI 3-4 (" Co la lengua forcuta - m'ha fatta esta feruta: / che co la lengua ligne - e la piaga me stigne "); il Torraca, invece, i due passi complementari di If IX 1 e XXIV 132.
Al participio passato, ma con valore e funzione attributivi, si circoscrive la tastiera semantica (in D. quasi esclusiva dell'atmosfera infernale, poi con più largo registro nelle riprese trecentesche fra il Crescenzi e il Boccaccio) di " (o)scuro ", " fosco ", " buio ", " nero ", con riferimento a particolari della persona umana (If XVI 30 'l tinto aspetto e brollo, il volto " annerito " e scorticato o pelato), o più spesso a elementi del paesaggio: quell'aura sanza tempo tinta (III 29), " eternamente, e senza vicenda di giorno e notte, nera, buia " (Sapegno, che per il sintagma ‛ sanza tempo ' contamina le due principali interpretazioni relegando nell'ombra la terza, " senza intemperie ", così formulata dal Buti: " o vogliamo intendere tinto senza tempo, che l'aire era nero senza tempo che ne fusse cagione "; o quella più suggestivamente moderna del Grabher: " come se l'eterno si fondesse al colore dell'aria, a far più profonda la tenebra, e la tenebra all'eterno, per renderlo più ossessionante "); VI 10 acqua tinta, pioggia " nera, scura " (Sapegno), meglio che " sporca ", " fangosa ", " torbida ", come intendono i più (ad es. Casini-Barbi, Torraca, Grabher, ecc.); Pg IX 97 Era il secondo [gradino] tinto più che perso, di colore " piuttosto nero che scuro " (Sapegno), " quasi decisamente nero " (Grabher). Qui la sottile gradazione cromatica, discriminando, assicura una certa estensione alla gamma di t. in quanto colore imprecisato nella tonalità del ‛ cupo ' non diversamente da ‛ perso ' (Cv IV XX 2 uno colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina), prospettando insieme una tendenziale coincidenza dei due epiteti. Tanto è vero che almeno in un luogo (If XVI 104), non estraneo alle precedenti associazioni con ‛ sangue ', il nostro participio viene ad assumere (in contrappunto a ‛ perso ', v.) la sfumatura " rosso sangue ", " di colore rosso cupo ", in quanto adibito (quell'acqua tinta) alla corrente sanguigna del Flegetonte (l'acqua rossa di XIV 134; e cfr. rossore, XIV 78) che precipita in cascata verso l'ottavo cerchio. Nella stessa orbita, ma con stupenda estensione al piano metaforico, in Pg XXXIII 74 giunge più o meno a significare " offuscato ", " obnubilato " nell'animo, se non addirittura " depravato " (Pasqualigo, citato dal Petrocchi, ad l.): io veggio te ne lo 'ntelletto / fatto di pietra, e, impetrato, tinto, / sì che t'abbaglia il lume del mio detto, cioè (Sapegno) oltre che pietrificato dai pensieri vani, anche " oscurato e macchiato " dal piacere di quei pensieri.