TIP (Tax-based Income Policy)
TIP (Tax-based Income Policy) Politica dei redditi basata sull’uso della fiscalità, teorizzata negli Stati Uniti negli anni 1970 (in particolare da H. Wallich e S. Weintraub), per moderare la dinamica salariale e l’inflazione.
Le politiche economiche tradizionali suggeriscono di rallentare la crescita dei prezzi con politiche fiscali o monetarie restrittive. Tali politiche, pur contrastando l’inflazione generale, producono il contemporaneo aumento del tasso di disoccupazione (➔ disoccupazione, tasso di) e risultano essere socialmente inaccettabili. La TIP assume il mantenimento dei posti di lavoro come obiettivo primario del sistema economico, per raggiungere il quale si rende necessario un patto sociale, in cui lo Stato coordini le politiche di moderazione salariale, limitando l’incremento delle retribuzioni a un tasso minore di quello dell’inflazione. Per spingere gli operatori a rispettare le politiche retributive, si utilizza lo strumento fiscale che, incrementando le aliquote impositive sugli operatori economici inadempienti, costringe all’internalizzazione dei costi sociali prodotti dall’inflazione. La politica fiscale restrittiva, quindi, è selettivamente applicata agli agenti economici che contribuiscono ad alimentare l’inflazione. Le modalità applicative della TIP, in sintesi, prevedono: la determinazione centrale di un tasso di crescita delle retribuzioni (in misura pari al tasso d’inflazione desiderato, comunque minore dell’inflazione reale); la previsione di un gettito tributario aggiuntivo, ottenuto con l’inasprimento delle aliquote, tendenzialmente pari al costo sociale dell’inflazione. Se le retribuzioni effettive aumentano in misura maggiore del tasso d’inflazione desiderato, lo Stato innalza l’aliquota d’imposta; in caso contrario può riconoscere alcuni benefici di natura fiscale.
Tale politica economica è stata in parte perseguita anche in Italia, nei primi anni 1990, per fare fronte alla crisi finanziaria e occupazionale di quel periodo. Il 23 luglio 1993, infatti, fu firmato il protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione tra i maggiori sindacati (CGIL, CISL e UIL), la Confindustria e il governo presieduto da C.A. Ciampi (cosiddetto ‘protocollo di luglio’). L’accordo abolì la scala mobile (➔) e parametrò le retribuzioni al tasso d’inflazione programmato, introducendo, al contempo, due livelli di contrattazione sindacale: il primo, per settori produttivi a livello nazionale; il secondo, per le singole imprese. Il primo livello di contrattazione doveva risultare coerente con il tasso d’inflazione programmato centralmente: ogni quadriennio i sindacati potevano contrattare le condizioni lavorative (accordo normativo) e ogni biennio era consentita la negoziazione delle condizioni economiche (accordo economico). Il secondo poteva collegare gli incrementi salariali con la produttività dell’impresa, a prescindere dall’indice d’inflazione programmata. Sebbene, in linea generale, il protocollo di luglio abbia contribuito a ridurre l’inflazione e l’incidenza del lavoro sul costo complessivo dei prodotti (Costo del Lavoro per Unità di Prodotto, ➔ CLUP), analisi empiriche hanno messo in evidenza come l’aumento della produttività sia stato eroso dal consolidamento di rendite oligopolistiche.