Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I climi europei vengono descritti riferendoli a pochi tipi fondamentali, riconosciuti soprattutto in base agli ambienti vegetali determinati dai climi in assenza d’intervento umano. In particolare sono qui descritte alcune possibilità che i rispettivi ambienti offrono all’azione umana, dal punto di vista dell’attività agro-pastorale tradizionale.
Le ricerche degli ultimi tre decenni hanno dimostrato che il clima al quale è soggetta l’Europa ha presentato delle variazioni apprezzabili anche su un arco di tempo relativamente ristretto, vale a dire in età storica. In particolare il Cinquecento è il secolo in cui ha inizio un periodo plurisecolare di relativo raffreddamento (1550-1880 ca.) definito “piccola età glaciale”. Tuttavia in primo luogo va osservato che si tratta di un periodo non unitario, bensì caratterizzato da sottoperiodi in controtendenza. In secondo luogo che si tratta di oscillazioni modeste, in genere non superiori a un grado centigrado di temperatura media annua. È vero che un grado può essere la media risultante di oscillazioni stagionali più marcate, e sono documentate le conseguenze pesanti di tali oscillazioni sulla sussistenza di società rurali tecnicamente fragili, come sono in genere quelle dell’Europa del Cinquecento almeno fino al Settecento. È però anche vero che, nell’ambito di un complessivo inquadramento climatico-ambientale dell’Europa, si deve tenere conto, assai più che di queste variazioni, di quelle differenziazioni macroscopiche e sostanzialmente stabili dello spazio continentale, attribuibili alla diversa latitudine delle singole regioni europee e alla loro diversa posizione rispetto alle grandi masse continentali e oceaniche. È per questo che dalla seguente descrizione di regioni climatico-ambientali dell’Europa risulterà lo sfondo fisico della storia del continente come fosse un quadro immobile (sebbene poi del tutto immobile non sia). Lo sfondo fisico dunque, che si può considerare valido anche per le vicende dei secoli seguenti, fino alla rottura (ma anch’essa graduale nel tempo e diseguale nello spazio) della rivoluzione industriale.
Il clima può essere definito come “l’ambiente atmosferico costituito dalla serie degli stati dell’atmosfera al di sopra di un luogo nella loro successione abituale” (Maximilien Sorre). È facile verificare che l’Europa sperimenta una notevole varietà di climi. L’elemento comune ravvisabile in questa varietà è forse il non grande scostamento da caratteri “medi” che – tranne nelle plaghe più settentrionali e orientali (Russia, Finlandia) – attenua il rischio di eventi estremi (rigori, siccità, inondazioni) rispetto ad altre parti del mondo e quindi il rischio di carestie. Tra le molte classificazioni possibili dei climi europei, interessano qui quelle più attente alle conseguenze che essi comportano nel definire le differenze ambientali con cui le popolazioni europee si confrontano. In prima fila fra tali differenze vi sono quelle riguardanti la vita dei vegetali che sono tramite per la vita umana da più punti di vista. Le piante erbacee spontanee e l’eventuale stagionalità della loro crescita definiscono le possibilità dell’allevamento brado. La differente presenza e capacità di riproduzione delle singole specie di alberi e di arbusti spontanei definisce le disponibilità e le qualità tecniche del legno, materia essenziale. Infine, la coltivazione di differenti specie di piante, sia arboree che erbacee, individua la possibilità di diversi sistemi agricoli e di allevamento; a parità di livello tecnico dell’agricoltura, implica quindi diverse capacità produttive di essa e diversi regimi alimentari. L’insieme della vegetazione, spontanea e coltivata, dà luogo a diversi possibili modi di vita materiale. Procediamo dunque a una ripartizione dell’Europa secondo grandi famiglie di climi e insieme di ambienti (in primo luogo vegetali) cui essi danno luogo. Tale ripartizione rende quasi inevitabili le semplificazioni, poiché i climi e gli ambienti sfumano impercettibilmente gli uni negli altri, configurando di rado linee di demarcazione così nette come quelle che per scopi didascalici si è costretti a suggerire.
La facciata occidentale del continente è sottoposta per effetto della legge di Coriolis allo spirare semipermanente di venti tiepidi e umidi da sud-ovest, nonché al corrispondente flusso della corrente del Golfo; entrambi i fenomeni moderano le temperature fino a latitudini molto alte. Nella fascia centrale della facciata atlantica – corrispondente alla Spagna settentrionale, alla metà ovest e all’orlo costiero settentrionale della Francia, nonché a tutte le isole britanniche – tale influenza permette di riconoscere i climi e gli ambienti definiti appunto “temperati dei venti occidentali”. Estati fresche (media di luglio sotto i 20 - 21°C), inverni miti (media di gennaio sopra i 2°C), tempo molto variabile – con pioggia non necessariamente abbondante ma ripartita su un gran numero di giorni e su tutte le stagioni, con prevalenza nel semestre invernale – favoriscono qui una vegetazione erbacea in crescita praticamente durante tutto l’anno, in quanto il periodo vegetativo comincia generalmente a 4°C. Quanto al rigoglio della vegetazione forestale (in prevalenza di latifoglie), può essere grande, ma può essere anche decisamente ostacolato dall’eccessiva umidità e/o dai venti troppo impetuosi. È il caso di ampie aree dell’Irlanda, della Scozia, della Bretagna, dove la foresta non sussiste o, una volta tagliata, non ricresce da sola e lascia il posto a formazioni di brughiera. La fascia più fresca di questo ambiente – corrispondente alla maggior parte delle isole britanniche (ma il fenomeno è presente anche nella Norvegia costiera) – è stata ambito privilegiato di un sistema di agricoltura tradizionale che, per l’adattamento che esprime all’ambiente stesso, illustra bene le potenzialità per l’azione umana. Si tratta del sistema cosiddetto infield - outfield, che consiste nel coltivare con continuità la limitata estensione di terreni più favorevoli all’agricoltura (infield) in genere prossimi all’insediamento – riservando agli altri (outfield) – la coltura a lunghi intervalli e la maggior quota del pascolo brado. L’avena - e in subordine l’orzo - è il cereale privilegiato per le semine, data la sua breve stagione vegetativa che mantiene libero il pascolo nell’intero semestre invernale. La presenza costante dell’umidità favorisce inoltre la crescita di erbe a stelo lungo e quindi - specie nelle isole britanniche - la diffusione e la permanenza più a lungo che altrove di tetti costruiti in paglia. Nella fascia più meridionale dell’ambiente atlantico, l’effetto congiunto della buona distribuzione stagionale dell’umidità e delle più elevate temperature estive è l’inserzione – fra quelli tradizionalmente coltivati – di altri generi, sensibili a queste caratteristiche: è il caso del mais nella Galizia e nelle Asturie, diffusosi qui nel corso dell’età moderna. In luoghi come l’Aquitania in cui alle temperature più elevate si coniugano le minori precipitazioni per la mancanza di barriere montuose costiere che intercettano l’umidità oceanica, possono darsi condizioni favorevoli alla crescita della vite. È noto infatti che questa pianta, sebbene presenti il massimo di vitalità nel clima mediterraneo, possa portare a maturazione i suoi frutti anche in altri luoghi, magari in autunno inoltrato e nelle zone meglio esposte.
Altro e ben diverso clima temperato europeo è quello subtropicale di tipo mediterraneo, che nelle sue varie versioni riguarda quasi tutte le terre immediatamente a settentrione del mare omonimo (con l’importante eccezione della Pianura Padana) e inoltre quasi tutto il Portogallo, la maggior parte della Spagna non atlantica e, nel Mar Nero, un lembo della penisola di Crimea. I tratti comuni sono un semestre invernale umido e mite, almeno quanto può esserlo nel clima dei venti occidentali (media di gennaio superiore a 4°C), nonché un’estate ovunque più calda (media di luglio superiore a 20 - 21°C), per effetto della vicinanza all’area dei massimi termici della terra: il Sahara. Infine, oltre che calda, l’estate è asciutta. L’alternanza fra periodo umido e secco è dovuta all’estensione sull’area rispettivamente del regime dei venti occidentali e del regime anticiclonico dei tropici asciutti. La lunghezza del periodo secco estivo è peraltro assai variabile, e cresce procedendo da nord a sud e da ovest a est: in Catalogna, per esempio, è di due mesi, e di cinque o sei nel Peloponneso. Inoltre nella fascia settentrionale dell’area mediterranea il culmine delle piogge è in autunno più che in inverno. La coincidenza della stagione calda con quella secca induce nella vegetazione spontanea particolari meccanismi di difesa dalla severa evapo-traspirazione: prevalgono le piante adattate alla siccità (xerofile) con espedienti come le foglie coriacee (sclerofille) o aghiformi. Si tratta di piante arboree – come le querce a foglie persistenti (leccio, sughero, quercus coccifera) –, alcune specie di pini (marittimo, domestico, d’Aleppo), e soprattutto arbustive – ginestra comune (spartium junceum), oleastro, mirto, lentisco, erica ecc. – componenti della macchia mediterranea nelle sue varie versioni. Questa, probabilmente originaria in alcuni ambiti costieri e più meridionali, è stata molto diffusa dall’azione umana, in quanto le condizioni climatiche impediscono spesso a un’eventuale vegetazione arborea eliminata di ricostituirsi spontaneamente. Da ciò la scarsità di legno da lunga data, che può spiegare la mancanza di dispositivi fissi per il riscaldamento domestico in larghe aree (complice il clima non molto freddo), oppure le coperture delle abitazioni senza uso di travi (“trulli”, “dammusi”). L’effetto congiunto di tale difficoltà di ricostituzione degli alberi, dell’assenza o della scarsa efficienza della copertura erbacea nel periodo estivo, e della frequente violenza delle precipitazioni è la peculiare esposizione dell’ambiente mediterraneo ai rischi di erosione meccanica e di distruzione della frazione organica del terreno, e quindi una sua particolare fragilità nel contesto europeo. Fragilità che tende ad accentuarsi naturalmente con l’intensificazione delle attività agro-pastorali. Altra peculiarità dell’ambiente mediterraneo è la sua spiccata predisposizione – date le elevate temperature estive – a ospitare nelle sue acque stagnanti l’agente patogeno della malaria, veicolato dalla zanzara anofele: ciò ha reso a lungo quasi impraticabili per buona parte dell’anno molte aree pianeggianti.
Il sistema agrario tradizionale più diffuso nelle aree mediterranee coltivate con continuità è la rotazione biennale: a un anno di semina si alterna un anno di riposo (eventualmente occupato da semine parziali di leguminose). La semina avviene in autunno poiché, data la siccità estiva, non è possibile la generalizzazione di un sistema a semina primaverile e raccolto autunnale. Certamente non esclusivo, il frumento è comunque il cereale principe dell’agricoltura tradizionale mediterranea, poiché trova in questo clima le condizioni migliori per la sua vegetazione. Date inoltre le favorevoli condizioni termiche, è tradizionale la coltivazione anche di piante perenni, come la vite, l’ulivo e vari alberi da frutto o da foglia (i gelsi).
Ove poi la siccità stagionale viene vinta dall’apporto di acqua, è possibile lo sviluppo di coltivazioni tropicali che la esigono. Alcune, annuali, ammettono anche la presenza di gelo (riso, cotone); altre lo escludono (agrumi, canna da zucchero) e perciò si localizzano, o si sono localizzate in passato, nelle propaggini più meridionali della fascia (Andalusia , Sicilia, Peloponneso) o comunque più riparate (Liguria).
A nord del Mediterraneo, cioè alle medie latitudini del continente europeo – all’incirca fra il 45° e il 60° parallelo, da Bologna a Stoccolma – prevale, via via che ci si allontana dall’Atlantico, il clima subcontinentale o continentale che dà luogo all’ambiente definito “delle latifoglie decidue”. Il principale carattere distintivo sia del clima dei venti occidentali che del clima mediterraneo è l’inverno più freddo: si può assumere come limite della fascia la media di gennaio inferiore a 4°C, media che si abbassa salendo in latitudine ma, soprattutto, procedendo da ovest a est, dalla Borgogna agli Urali meridionali. Altri caratteri di tale clima sono il numero di mesi freddi – cioè con medie sotto i 10°C – sempre inferiore a otto, e un’estate relativamente calda. In effetti la media del mese più caldo supera in ogni caso i 15°C, temperatura alla quale le piante trovano in genere le migliori condizioni di accrescimento; nella fascia più meridionale – Pianura Padana, bacino del medio e basso Danubio – supera anche i 20°C. La continentalità comporta una forte influenza degli anticicloni invernali e quindi precipitazioni relativamente minori, ma che comunque non mancano in questa stagione, mentre in estate i venti marittimi portano più facilmente la pioggia. Anche in questo caso la fascia meridionale si distingue perché la contiguità del Mediterraneo sposta il massimo delle piogge dall’estate alla primavera, con un altro massimo – in genere secondario – in autunno.
Quest’ultima caratteristica e il maggior calore estivo contribuiscono a fare sì che questa fascia più meridionale venga definita “a clima mediterraneo degradato”. D’altronde una fascia così ampia trova la sua unità nel fatto che i suoi caratteri climatici favoriscono la foresta di latifoglie decidue (cioè con perdita stagionale delle foglie). La foresta qui non solo vegeta ma – a differenza della maggior parte dei troppo umidi e ventosi ambienti atlantici e dei troppo asciutti ambienti mediterranei – una volta eliminata, tende in genere a riprodursi senza eccessive difficoltà. Da questo punto di vista, anche nelle postazioni più orientali della fascia gli effetti dei rigori invernali sono neutralizzati dal relativo calore dell’estate, che è decisivo nel favorire la crescita degli alberi. D’altra parte tale foresta, per quanto rigogliosa, conta un numero relativamente basso di specie, più basso, ad esempio, che nelle corrispondenti aree climatiche dell’Asia orientale e dell’America settentrionale. Il fenomeno viene in genere messo in relazione con la presenza del mar Mediterraneo, barriera estesa in longitudine, che ha impedito durante l’ultima glaciazione il rifugiarsi degli alberi a latitudini più meridionali dalle quali partire alla riconquista dell’Europa, con l’addolcirsi del clima (dopo il 10.000 a.C.).
Le specie arboree prevalenti sono alcune querce a foglie caduche, specialmente farnie (quercus pedunculata) e roveri (quercus petraea); e poi faggi, olmi, aceri, tigli, carpini (carpinus betulus); e, ampiamente diffusi dall’uomo, i castagni. I faggi, che richiedono maggiore umidità, tendono a diminuire via via che si procede da ovest verso est fino a sparire poco oltre la Vistola, dove ormai l’influenza atlantica è molto attenuata. Tale ripartizione è comunque indicativa e la prevalenza delle latifoglie decidue – dettata dai limiti termici appena indicati – può attenuarsi a vantaggio delle conifere ove si presentano suoli di mediocri qualità edafiche (cioè nutritive), sfavorevoli alle più esigenti latifoglie. Un importante ruolo originario del pino silvestre è denunciato, ad esempio, dalle ricerche paleobotaniche, in larghissimi settori delle pianure polacche e di quelle tedesche a est dell’Elba, favorito dai suoli spesso magri e sabbiosi. E la constatazione vale anche se non si tiene conto dei rimboschimenti degli ultimi secoli – che nell’Europa centrale hanno appunto privilegiato le conifere –e dell’ampia fascia di transizione ai margini settentrionali dell’area, mista di conifere e latifoglie. Per quanto riguarda le piante coltivate, questo vasto spazio è stato l’area privilegiata del sistema di rotazione triennale (anche se la biennale non è certo assente). Tale sistema che contempla comunque un numero indefinito di varianti consiste nella successione su uno stesso appezzamento di piante a semina autunnale (per lo più segale o frumento), piante a semina primaverile (in genere avena), e riposo.
La siccità estiva poco pronunciata o mancante permette il successo delle piante a semina primaverile, mentre solo in Russia l’inverno si fa troppo freddo per consentire la pratica della semina autunnale. Dato il minor tempo a riposo della terra, la rotazione triennale permette, a parità di superficie coltivata, una maggiore produttività rispetto alla rotazione biennale, rendendo più agevole rispetto all’ambiente mediterraneo il sostentamento, oltre che degli uomini, degli animali di grossa taglia; questo, a sua volta, aumenta la produttività del lavoro dei campi e arricchisce la dieta di proteine e grassi. La stessa foresta di latifoglie offre nutrimento alla selvaggina e a un animale a lungo semidomestico come il maiale. Altre piante coltivate, la cui vegetazione è ottimale nell’ambiente delle latifoglie decidue, sono la rapa e diverse altre crocifere, varie – da foraggio e non – e la patata. Vegetano bene pure orzo e grano saraceno, ma la loro importanza diminuisce nel corso del tempo.
Come e più che nell’ambiente dei venti occidentali, il maggiore calore estivo della fascia più meridionale – detta “a clima mediterraneo degradato” – permette in essa la vegetazione ottimale di una più ampia gamma di piante coltivate che si sommano a quelle comuni all’insieme della fascia climatica. Anche qui è dunque possibile il successo di piante erbacee tropicali cui è sufficiente l’estate calda, come il mais e – dove vi è grande disponibilità di acqua – il riso. Il calore estivo fa anche sì che dal Mediterraneo sconfinino ampiamente in questa fascia le aree di vegetazione ottimale della vite (Francia centrale, Italia settentrionale, Ungheria) e di alberi da frutto esigenti in tal senso, come albicocchi e peschi (mentre altri, come meli, ciliegi e susini, adatti anche a estati meno calde, sono coltivabili con profitto praticamente su tutta la fascia delle latifoglie decidue). Da ciò risulta una condizione alquanto privilegiata di questa fascia meridionale, che su buona parte della sua superficie somma ai vantaggi dei climi con discreta distribuzione stagionale dell’umidità – vantaggi che spesso possono essere accresciuti mediante un’irrigazione relativamente agevole – quelli dei climi a estate calda, assicurando allo stesso tempo abbondanza delle produzioni e loro varietà.
L’ambiente delle praterie è analogo all’ambiente delle latifoglie decidue quanto agli estremi termici stagionali ma con decisive differenze nella piovosità (che arriva fino a 500 mm annui o poco più): distese di graminacee spontanee, con inframmezzati pochi alberi, limitati spesso alle vicinanze dei solchi fluviali. Tale formazione occupa di regola le porzioni più lontane dall’Atlantico della fascia precedente, “ove le piogge temporalesche estive sono distribuite in un minor numero di giorni, le estati sono più calde, gli inverni più asciutti e ventosi, con improvvisi forti abbassamenti di temperatura” (Biasutti 1962).
Sono le steppe dell’Ucraina e della Russia meridionale, regno del cernoziom o terra nera: suolo di grande fertilità perché carico di humus, prodotto dalla rigogliosa vegetazione erbacea e conservato sia grazie al freddo invernale che alla non grande umidità dell’estate. Per contro, la scarsità di legno e la concomitante rigidità dell’inverno hanno posto seri problemi alle comunità qui insediate, come prova ad esempio l’adozione nel riscaldamento domestico di stufe chiuse a debole circolazione d’aria per rallentare la combustione.
Un’accentuazione dell’ambiente delle praterie, per ciò che riguarda la mancanza di vegetazione arborea e la difficoltà di introdurvela anche artificialmente, si presenta nell’ambiente definibile arido con inverno freddo (media di gennaio inferiore a 6°C), esteso nell’estremo sud-est della Russia europea attorno al mar Caspio – dove appare come l’ultima propaggine delle immense distese subaride dell’Asia centrale – e anche in qualche area interna della penisola iberica, come l’Aragona e la Mancia. Qui il fattore limitante è sempre la scarsità di precipitazioni, sia invernale che estiva, quest’ultima meno pronunciata, ma neutralizzata dalla maggiore evaporazione. In genere non si superano i 300 millimetri, per cui alla prateria subentra la vera e propria steppa, ricoprimento discontinuo del suolo in cui prevalgono le piante legnose. Nel caso della Russia l’attività agricola, oltre che dall’aridità, è resa difficile dalla connessa presenza di suoli ricchi di sali a forte reazione basica, i cosiddetti solonciàk.
Verso nord la fascia delle latifoglie decidue presenta una transizione graduale a quella “delle aghifoglie boreali”. Questa subentra in genere quando si ha la compresenza delle seguenti tre soglie climatiche: media del mese più freddo sotto i 2°C – come nel clima delle latifoglie e del prato boreale – però, diversamente da quel clima, otto o più mesi freddi (sotto i 10°C); infine, media del mese più caldo che ancora si mantiene sopra i 10°C. L’ambiente delle aghifoglie boreali si estende su gran parte della penisola scandinava e della pianura russa (dove la foresta di aghifoglie assume il nome di taiga), nella fascia a settentrione di quella delle latifoglie, con netta prevalenza su queste ultime a nord di una latitudine che a seconda dei casi va da 58°C a 60°C. Abete rosso, pino silvestre, larice sono le essenze più diffuse nell’area (è ben presente tuttavia anche una latifoglia adatta a questo clima come la betulla). Qui il fattore limitante per le attività agricole è dato, oltre che dai caratteri termici della fascia, dal suo suolo caratteristico, il cosiddetto podsol, con aspetto di cenere, a reazione acida, adatto quasi solo alla segale e alla patata. Rotazione biennale con semina primaverile e coltura intervallata da più anni di riposo sono i sistemi agrari tradizionali più praticabili. Salendo ancora più a nord, il clima adatto alla vegetazione arborea viene meno quando non vi è alcuna stagione definibile calda; ossia quando la temperatura del mese più caldo resta sotto i 10°C. Ciò avviene in Europa al suo estremo orlo settentrionale, prospiciente il Mar Glaciale Artico. Si tratta di un ambiente definito anche seminivale, la cui formazione vegetale tipica è la tundra, ossia una copertura vegetale bassa e discontinua di piante perenni – con prevalenza di muschi e licheni – il cui pascolo è possibile in maniera efficiente solo ad animali specializzati come le renne.
Come qualsiasi area elevata le catene montuose europee – per effetto della diminuzione della temperatura media con l’altitudine (circa 0,5°C ogni cento metri) – “trascinano” verso l’equatore climi e ambienti propri di latitudini più elevate. Più precisamente esse ospitano in uno spazio ristretto, e più o meno in successione altimetrica, ambienti diversi, effetto dei climi corrispondenti; tanto più che – a eccezione della penisola Iberica – in Europa mancano estesi altipiani cosicché, anche dai rilievi più energici, si scende rapidamente alle basse quote delle incisioni vallive. È tuttavia possibile, considerando come caratterizzante la formazione vegetale che prevale sulle altre, raggruppare la montagna europea in tre o quattro grandi insiemi. È così riconoscibile una montagna “meridionale”: Pirenei, Appennini, Alpi Dinariche, Balcani, Caucaso. In essa, nonostante la presenza delle conifere alle quote più elevate (in particolare nei Pirenei, nei Balcani, nel Caucaso), le condizioni climatiche prevalenti comportano – beninteso sempre in condizioni anteriori all’intervento umano – un ambiente favorevole alle latifoglie, di specie in gran parte analoga a quelle della fascia mediana dell’Europa già descritta. Ritroviamo qui dunque il faggio (in genere subito al di sotto delle conifere) e altre latifoglie decidue già ricordate; inoltre troviamo ancora il castagno, che anzi è stato diffuso soprattutto nella montagna meridionale, in cui trova l’ambiente ideale per la crescita se al clima si sposa anche un terreno favorevole (cioè povero di calcio). In caso la montagna sopporti alcune settimane di siccità – per effetto del sottostante clima mediterraneo –hanno un ruolo essenziale specie quercine come il cerro e la roverella (quercus pubescens), l’orniello (fraxinus ornus) e il carpine nero (ostrya carpinifolia). La mancanza di una fascia superiore di conifere spontanee non sempre è dovuta all’insufficiente altitudine; queste – dopo la scomparsa dovuta all’ultima glaciazione – non sembrano essere state sempre in grado di tornare alle quote loro usuali, cosicché dalla fascia del faggio si passa non di rado direttamente a quella dei pascoli montani. Nel caso dell’Appennino, particolarmente esteso in latitudine, la vegetazione xerofila mediterranea risale a quote sempre più alte via via che si procede verso sud. Il fenomeno è ulteriormente accentuato nella Sierra Nevada e in altri massicci iberici meridionali, nei quali la persistenza di un prolungato periodo secco anche a grande altezza comporta la fisionomia subarida della vegetazione fino al limite superiore degli alberi. È da tenere presente infine che la relativa contiguità fra ambienti montani e ambienti mediterranei a inverno mite permette la complementarità fra pascolo estivo in montagna e pascolo invernale alle quote basse e quindi l’instaurarsi di relazioni di transumanza. È noto peraltro che tale attività è stata praticata anche a prezzo di spostamenti di più centinaia di chilometri (Vecchia-Nuova Castiglia, Abruzzi-Puglie).
Altra grande famiglia di montagne è quella alpina, carpatica, e dell’Europa centrale in genere. Diversamente dalle montagne meridionali, la quota mediamente più elevata (come nelle Alpi occidentali e centrali) o l’ubicazione più settentrionale e più continentale insieme (come nel caso degli altri massicci e di parte delle stesse Alpi orientali) comportano qui una prevalenza delle conifere sulle latifoglie, pur essendo queste ultime presenti e anzi prevalenti in propaggini particolari; come quelle a quote inferiori e insieme più favorite dalle precipitazioni (è il caso per esempio delle Prealpi lombarde). Al contrario, nelle situazioni più asciutte, come sono quelle di diverse valli alpine centro-orientali (ma anche nel Vallese), le conifere possono prevalere anche alle quote intermedie, di solito adatte al faggio. Abete rosso e larice sono le specie più diffuse. Tale abbondanza di legname resinoso – perciò a rapida combustione – ha consigliato l’adozione nelle abitazioni di stufe chiuse a debole circolazione d’aria, simili a quelle degli ambienti di prato boreale (anche se per motivi ben diversi). Alle più alte quote la mancanza di una stagione calda comporta il venir meno della copertura arborea, analogamente a quanto avviene negli ambienti seminivali dell’estremo Nord europeo. Tuttavia qui la copertura vegetale dominante – dopo una fascia di transizione con arbusti come il pino mugo, distese di ginepro ed erica – è il prato di graminacee a steli corti e fitti, da qualche secolo oggetto di sfruttamento per il pascolo estivo (alpeggio). Per il cumularsi dell’effetto di latitudine e altitudine, i climi senza stagione calda e le distese prive di alberi che ne conseguono, caratterizzano ampie superfici delle Alpi scandinave e dei monti Urali; questi ambienti montani (definibili anche artico-alpini) possono dunque essere nel loro complesso avvicinati alla tundra (con essa del resto c’è continuità territoriale). Oltre a queste aree, sono prive di alberi anche regioni in cui la temperatura del mese più caldo è di poco superiore a 10°C ma intervengono altri fattori limitanti, come l’eccessiva umidità e/o ventosità. Questo spiega per esempio l’aspetto spoglio di rilievi anche modesti in Irlanda e in Scozia, e praticamente di tutta l’Islanda: aspetto che solo in parte può ritenersi dovuto all’azione umana. Anche qui, in luogo delle formazioni della tundra, sono presenti prati di tipo montano, atti al pascolo di ovini e bovini.