Tipologie contrattuali nell’area del lavoro subordinato
Il contributo esamina la nuova disciplina delle tipologie contrattuali subordinate (lavoro a tempo parziale, lavoro intermittente, lavoro a tempo determinato, somministrazione di lavoro e apprendistato) alla luce del d.lgs. n. 81/2015 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), situandone l’analisi all’interno della complessiva prospettiva di riforma tracciata dal cd. Jobs Act.
Il d.lgs. 15.6.2015, n. 81 ha dato attuazione a una parte consistente dell’ampia delega contenuta nell’art. 1, co. 7, l. 10.12.2014, n. 183, secondo atto del processo di riforma del mercato del lavoro italiano avviato dal Governo Renzi e noto come Jobs Act1.
La l. n. 183/2014, nell’ambito della più generale delega finalizzata da un lato a rafforzare le opportunità d’ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, e dall’altro a riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo, aveva difatti sollecitato il Governo a individuare e analizzare tutte le tipologie contrattuali esistenti, per valutarne l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e il contesto produttivo, allo scopo di semplificarle, modificarle o superarle (lett. a), promuovendo al contempo il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro e rendendolo più conveniente in termini di oneri diretti e indiretti (lett. b)2, a rafforzare gli strumenti per favorire l’alternanza fra scuola e lavoro (lett. d) e ad abrogare tutte le disposizioni in contrasto con l’introduzione del nuovo testo organico semplificato (lett. i).
Il decreto che ne è risultato contiene, fra le altre cose, un “testo unico” delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, il quale riordina – con riferimento al lavoro subordinato – gli istituti del lavoro a tempo parziale, del lavoro intermittente, del lavoro a tempo determinato, della somministrazione di lavoro e dell’apprendistato3. In termini di semplificazione gli effetti conseguiti sono stati indubbiamente positivi, principalmente poiché le previgenti discipline sono state abrogate e ricondotte, con modifiche, in un unico testo normativo, il che le rende senz’altro più agevolmente accessibili. Per quanto attiene, invece, al superamento di talune fattispecie contrattuali, i risultati raggiunti dal decreto sono stati alquanto modesti, dal momento che sotto la scure del legislatore delegato sono caduti solo il lavoro ripartito (art. 55, co. 1, lett. d)4, le collaborazioni a progetto (art. 52) e l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro (art. 53).
I principali profili di interesse del provvedimento in esame consistono nell’introduzione di modifiche, di portata anche significativa, alla disciplina delle tipologie contrattuali subordinate; all’esame di tali aspetti sarà, quindi, dedicato il prosieguo della trattazione.
2.1 Il lavoro a tempo parziale
Per quanto riguarda il lavoro a tempo parziale (artt. 412), il d.lgs. n. 81/2015 esordisce affermando (art. 4) che l’assunzione, nel rapporto di lavoro subordinato (anche determinato), può avvenire a tempo pieno (ai sensi dell’art. 3, d.lgs. 8.4.2003, n. 66) o a tempo parziale; non viene, in altre parole, riproposta la tripartizione nelle tre sottotipologie (part-time orizzontale, verticale e misto) che caratterizzava l’assetto del d.lgs. 25.2.2000, n. 61, la quale finisce quindi per perdere rilievo a fini giuridici5 (ferma restando, comunque, la possibilità che essa sia richiamata dalla prassi contrattuale).
Dopo aver confermato il principio della forma scritta ad probationem e la necessità che il contratto contenga la puntuale indicazione della durata e della collocazione della prestazione di lavoro (con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno), l’art. 5 prevede che, quando la prestazione lavorativa è articolata in turni programmati, l’indicazione dell’orario possa avvenire anche mediante rinvio ai turni programmati di lavoro, articolati su fasce orarie prestabilite; si tratta di una possibilità non prevista dalla previgente disciplina, ma che era comunque già considerata legittima dalla prevalente giurisprudenza di merito6.
Importanti modifiche riguardano anche gli elementi centrali dell’istituto, vale a dire il lavoro supplementare, il lavoro straordinario e le clausole elastiche e/o flessibili; essi possono ora essere utilizzati, anche a prescindere dal consenso del lavoratore, sia pure entro certi limiti anche in assenza di specifiche indicazioni della contrattazione collettiva (il cui ruolo nella disciplina dell’istituto risulta, quindi, fortemente ridimensionato); siamo, in sostanza, di fronte a un istituto reso più flessibile e maggiormente funzionale alle esigenze organizzative dell’impresa.
Il lavoro supplementare (vale a dire quello reso in aggiunta all’orario ridotto concordato fra le parti, e entro il limite del tempo pieno) può essere richiesto dal datore di lavoro in ogni caso, pur nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi (anche aziendali, come specificato dall’art. 51) ex art. 6, co. 12, e non più solo con riferimento a quello che in precedenza era definito part-time orizzontale. Qualora il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non disciplini l’istituto, esso può essere chiesto dal datore in misura non superiore al 25 per cento delle ore settimanali di lavoro concordate; in tale ipotesi, il lavoratore può rifiutarsi solo adducendo comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale. In ogni caso, il lavoro supplementare deve essere retribuito con una maggiorazione del 15 per cento della retribuzione oraria globale di fatto (comprensiva dell’incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti). La previgente disciplina prevedeva, invece, da un lato che il consenso del prestatore fosse comunque necessario qualora l’effettuazione del lavoro supplementare non fosse regolamentata dalla contrattazione collettiva, e dall’altro che fosse la contrattazione collettiva a stabilire l’ammontare della maggiorazione retributiva, il numero massimo di ore di lavoro supplementare effettuabili, le causali giustificatrici l’utilizzo di tali prestazioni e le conseguenze del superamento della soglia fissata. Nel d.lgs. n. 81/2015 non troviamo più tali rinvii; risulta, pertanto, ridotto il ruolo della contrattazione collettiva, ben potendosi ora far ricorso al lavoro supplementare anche in assenza di previsioni contrattuali collettive e a prescindere dal consenso prestato dal lavoratore, fermi restando il rispetto della soglia oraria massima e delle maggiorazioni retributive fissate dalla legge, e potendo il lavoratore opporsi alla richiesta di effettuare le prestazioni supplementari solo qualora ricorrano le causali espressamente previste (integrando, altrimenti, il rifiuto ingiustificato del prestatore gli estremi dell’inadempimento contrattuale).
È, inoltre, genericamente prevista la possibilità di svolgere anche prestazioni di lavoro straordinario (art. 6, co. 3), ovverosia reso oltre l’orario normale di lavoro, in precedenza circoscritto alle sole sottotipologie del parttime verticale o misto, in relazione al quale il decreto si limita a rinviare alla regolamentazione generale dettata dal d.lgs. n. 66/2003 con riferimento ai rapporti di lavoro a tempo pieno.
Per quanto riguarda le clausole elastiche (che consentono una variazione in aumento della durata della prestazione lavorativa) e flessibili (che, invece, permettono una variazione della collocazione oraria della prestazione lavorativa), il d.lgs. n. 81/2015, all’art. 6, co. 4, le ricomprende sotto l’unica definizione di clausole elastiche, generando una (evitabile) confusione, soprattutto se si considera che la contrattazione collettiva in essere continuerà a governare l’utilizzo delle modalità organizzative del part-time facendo ancora riferimento alle due distinte tipologie.
La pattuizione delle clausole elastiche deve avvenire, nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, per iscritto. Il lavoratore ha diritto a un preavviso di almeno 2 giorni lavorativi, oltre che a specifiche compensazioni, nella misura o nelle forme determinate dai contratti collettivi (art. 6, co. 5).
Rispetto alla precedente disciplina, è venuta meno la possibilità, per il prestatore, di farsi assistere – in sede di stipulazione – da un componente della RSA/RSU da lui designato. Inoltre, non figura più l’elenco degli aspetti sui quali i contratti collettivi erano chiamati a intervenire per dettare le “condizioni e modalità” in relazione alle quali il datore di lavoro poteva modificare o incrementare l’orario di lavoro, il limite massimo di tale aumento e le condizioni in presenza delle quali era possibile revocare il consenso all’applicazione di dette clausole.
Qualora, invece, il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non disciplini l’istituto, le “nuove” clausole elastiche possono essere pattuite, per iscritto, di fronte alle commissioni di conciliazione (in questo caso il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro), prevedendo le modalità con cui il datore, con preavviso di almeno 2 giorni lavorativi, può modificare la collocazione temporale o la durata della prestazione di lavoro, nonché la misura massima dell’aumento, che anche in questo caso non può superare il limite del 25 per cento della normale prestazione annua a tempo parziale. Come nel caso del lavoro supplementare, al lavoratore deve comunque essere riconosciuta una maggiorazione del 15 per cento della retribuzione oraria globale di fatto. Peraltro, il lavoratore può rifiutarsi di concordare variazioni dell’orario senza che ciò possa costituire giustificato motivo di licenziamento (art. 6, co. 8), oltre a poter revocare il consenso prestato alla clausola elastica, sia pure solo in ipotesi limitate e predeterminate (ad es. per gravi motivi di salute: art. 6, co. 7). L’ipotesi della disciplina legale alternativa alla regolamentazione contrattuale collettiva rappresenta un’altra significativa novità, dal momento che il d.lgs. n. 61/2000 consentiva di ricorrere alle clausole elastiche e/o flessibili solo qualora ciò fosse previsto dalla contrattazione collettiva applicabile e esclusivamente nel rispetto dei termini da questa stabiliti.
Il diritto alla trasformazione del rapporto da fulltime a part-time (art. 8), già previsto per i malati oncologici, è stato esteso ai lavoratori affetti da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, con diritto di tornare al tempo pieno qualora le condizioni di salute lo consentano; in casi predeterminati (ad es. per assistere i familiari affetti da tali patologie) è invece riconosciuta solo una priorità nella trasformazione del contratto da tempo pieno a tempo parziale. Qualora la richiesta di trasformazione giunge dal datore di lavoro, si ribadisce, inoltre, che il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto da full-time a part-time e viceversa non costituisce giustificato motivo di licenziamento. Il decreto prevede anche che i lavoratori che abbiano trasformato il rapporto da tempo pieno a tempo parziale abbiano una priorità in caso di nuove assunzioni a tempo pieno, purché si tratti di mansioni di pari livello all’interno della categoria legale (non dovendo più, però, le nuove assunzioni necessariamente avvenire nello stesso ambito comunale); è, invece, scomparsa l’espressa previsione che consentiva di indicare, nel contratto individuale di lavoro a tempo parziale, un diritto di precedenza in caso si assunzioni a tempo pieno per l’espletamento di mansioni equivalenti (ben potendo, comunque, le parti inserire nel contratto una clausola di tal genere). In caso di nuove assunzioni di lavoratori a tempo parziale, il datore è tenuto a darne comunicazione ai lavoratori già in servizio nello stesso ambito comunale e a “prendere in considerazione” le eventuali domande pervenute.
Una significativa innovazione consiste nel diritto del lavoratore di richiedere, per una sola volta, e anche in carenza di regolamentazione contrattuale collettiva, in luogo del congedo parentale previsto dal d.lgs. 26.3.2001, n. 151 o entro i limiti del congedo ancora spettante, la trasformazione del rapporto da full-time a part-time con un limite di riduzione dell’orario del 50 per cento (si tratta di un’ipotesi diversa da quella della fruizione oraria del congedo, di cui all’art. 32, co. 1-bis, d.lgs. n. 151/2001, peraltro difficilmente conciliabile con quest’ultima); in tal caso, il datore è tenuto a dar corso alla trasformazione entro 15 giorni dalla richiesta.
Per quanto attiene, infine, all’apparato sanzionatorio (art. 10), la conversione in rapporto a tempo pieno è prevista unicamente in difetto di prova circa la stipulazione del contratto a tempo parziale (fermo restando il diritto alla retribuzione e al versamento dei contributi previdenziali per le prestazioni rese nel periodo antecedente alla pronuncia giudiziale), ovvero qualora nel contratto non sia determinata la durata della prestazione di lavoro. Se, invece, nel contratto non è indicata la distribuzione temporale della prestazione, essa sarà determinata giudizialmente con valutazione equitativa. Al lavoratore spetterà inoltre, negli ultimi due casi sopracitati, un risarcimento del danno in aggiunta alla retribuzione dovuta per le prestazioni rese. In caso di svolgimento di prestazioni in esecuzione di clausole elastiche senza il rispetto delle condizioni, delle modalità e dei limiti previsti dalla legge o dai contratti collettivi il lavoratore avrà diritto, in aggiunta alla retribuzione dovuta, a un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno, non quantificata tuttavia dal legislatore.
2.2 Il lavoro intermittente
La disciplina del lavoro intermittente (artt. 1318) – istituto finalizzato allo svolgimento di prestazioni lavorative di carattere discontinuo, nei limiti e secondo le esigenze individuate dalla contrattazione collettiva7 o, in mancanza, nei casi di utilizzo determinati con decreto del Ministero del lavoro – presenta solo marginali modifiche rispetto a quella precedentemente contenuta negli artt. 3340 del d.lgs. n. 276/2003. L’istituto non ha subìto la stessa sorte del lavoro ripartito, nonostante che da più parti ne fosse stata auspicata la soppressione (cosa che era già avvenuta nel 2007, salvo poi reintrodurlo l’anno successivo), e ciò non tanto per lo scarso utilizzo che ne è stato fatto nella pratica, quanto piuttosto per arginare gli amplissimi margini di flessibilità che esso assicura al datore di lavoro.
In particolare, le limitate innovazioni alla disciplina dell’istituto recate dal d.lgs. n. 81/2015 riguardano principalmente:
• l’ammissibilità del contratto intermittente con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni di lavoro in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno, che viene subordinata alle determinazioni dei contratti collettivi (art. 13, co. 1);
• il divieto espresso di far ricorso al lavoro intermittente nelle pubbliche amministrazioni (art. 13, co. 5);
• il divieto di ricorrere al lavoro intermittente nelle unità produttive nelle quali si sia fatto ricorso, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi o alla CIG per lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto (art. 14, co. 1, lett. b), che in precedenza poteva essere derogato tramite accordi sindacali e che ora diviene tassativo;
• le conseguenze del rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata del datore di lavoro, nel caso in cui il lavoratore sia contrattualmente obbligato a aderire alla chiamata (art. 16, co. 5): in tale ipotesi, le uniche conseguenze possibili sono ora il licenziamento del lavoratore e la restituzione della quota d’indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto, mentre in precedenza era anche prevista l’eventualità che il lavoratore fosse chiamato a risarcire il danno causato dalle conseguenze del rifiuto di ottemperare alla chiamata.
Infine, in virtù del rinvio operato dall’art. 55, co. 3, restano in vigore, in attesa del nuovo d.m. che individui i casi di utilizzo del lavoro intermittente in mancanza di contratto collettivo, il d.m. 23.10.2004 (che elenca 46 tipologie di attività), nonché il d.m. 30.12.2004 relativo all’indennità di disponibilità, fino a quando ne sarà emanato un altro in attuazione di quanto disposto dall’art. 16, co. 6.
2.3 Il lavoro a tempo determinato
Con riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato, gli artt. 1929 del d.lgs. n. 81/2015 confermano l’impianto essenziale della disciplina contenuta nel d.lgs. 6.9.2001, n. 368, ora abrogata, come da ultimo modificata dal primo atto del Jobs Act (d.l. 20.3.2014, n. 34, conv. con mod. dalla l. 16.5.2014, n. 78)8; anche in questo caso, tuttavia, le innovazioni – anche rilevanti – non mancano.
Come è noto, la riforma del 2014 aveva portato a compimento il processo di progressiva liberalizzazione dell’istituto, arrivando a escludere la necessità della sussistenza di presupposti causali che giustificassero il ricorso allo stesso, e prevedendo essenzialmente che il contratto acausale potesse essere stipulato fermo restando l’obbligo di rispettare la durata massima di 36 mesi (con possibilità di un massimo di 5 proroghe, anch’esse acausali, con un intervallo minimo fra un contratto e l’altro di 10 o 20 giorni, a seconda che la durata del primo contratto fosse inferiore o superiore a 6 mesi) e la soglia del 20 per cento dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione.
Un primo nucleo di modifiche riguardano proprio il termine massimo di 36 mesi, da un lato, e i limiti di contigentamento, dall’altro. Anzitutto, i 36 mesi (i quali devono fare riferimento allo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, indipendentemente dai periodi di interruzione fra un contratto e l’altro) possono essere superati purché il contratto sia stipulato presso la DTL territorialmente competente, anche senza l’assistenza sindacale (che invece era richiesta dalla precedente formulazione della norma). Peraltro, la durata massima dell’ulteriore contratto è fissata dal decreto in un anno, mentre in precedenza la determinazione era rimessa agli avvisi comuni stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale (art. 19, co. 3). È comunque previsto che il tetto dei 36 mesi possa essere derogato dalla contrattazione collettiva di qualsiasi livello (non è più, in tale ipotesi, necessario che i sindacati firmatari siano quelli comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale), e sono fatte salve le attività stagionali di cui al d.P.R. 7.10.1963, n. 1525, nell’attesa che sia emanato un nuovo d.m. (art. 19, co. 2). In caso di superamento del tetto dei 36 mesi (o del diverso limite fissato dalla contrattazione collettiva), il contratto si trasforma in uno a tempo indeterminato (a tutele crescenti) dalla data di tale superamento.
Con riferimento al limite legale del 20 per cento (che non opera nel caso in cui il datore abbia alle proprie dipendenze fino a 5 dipendenti, e che, analogamente al tetto massimo dei 36 mesi, può ora essere derogato dai contratti collettivi di qualsiasi livello), l’art. 23, co. 23, prevede un elenco delle ipotesi in presenza delle quali esso non si applica; le novità, a tale proposito, consistono nella previsione della categoria dei lavoratori di età superiore a 50 anni (in precedenza si faceva riferimento a coloro che superavano i 55 anni) e nel riferimento ai contratti stipulati tra università private, istituti pubblici o enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa, o stipulati tra istituti della cultura di appartenenza statale ovvero enti, pubblici e privati derivanti da trasformazione di precedenti enti pubblici, vigilati dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (con esclusione delle fondazioni di produzione musicale) e lavoratori impiegati per soddisfare esigenze temporanee legate alla realizzazione di mostre, eventi e manifestazioni di interesse culturale9.
Inoltre, ad alcune indicazioni pratiche circa il calcolo della soglia del 20 per cento qualora la percentuale risultante presenti un decimale e la determinazione dell’assunzione quale momento per effettuare il computo (art. 23, co. 1)10 si accompagna un’importante precisazione circa la sanzione per il caso in cui tale limite percentuale sia violato. L’art. 23, co. 4, difatti, dispone che in tale ipotesi debba applicarsi solo la sanzione amministrativa introdotta dalla l. n. 78/2014 (la cui determinazione, di importo variabile in relazione al numero dei contratti, resta invariata rispetto alla previgente disciplina), restando esclusa la trasformazione del contratto interessato in uno a tempo indeterminato11; tale puntualizzazione lascia perplessi, dal momento in tal modo si finisce per “declassare” il rispetto della soglia del 20 per cento da requisito di legittimità del contratto a mero adempimento formale, la cui violazione comporta per il datore esclusivamente un aggravio del costo del lavoratore illegittimamente assunto a termine. E, come è già stato posto in evidenza, si può dubitare che tale previsione sia conforme alla dir. 99/70/CE in materia di prevenzione degli abusi derivanti dalla reiterazione di assunzioni con contratto a termine e alla giurisprudenza della Corte di giustizia sulle sanzioni per la violazione del diritto dell’Unione12.
Analogamente a quanto previsto con riferimento al lavoro intermittente, diviene tassativo il divieto di ricorrere al lavoro a termine nelle unità produttive nelle quali si sia fatto ricorso, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi o alla CIG per lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto (art. 20, co. 1, lett. b-c), non essendo più prevista la possibilità di deroga tramite accordo sindacale. È pure rilevante la disposizione di cui all’art. 24, co. 2, la quale chiarisce che, al fine della maturazione del diritto di precedenza (da esercitarsi per iscritto) a beneficio del lavoratore che abbia lavorato in azienda per più di 6 mesi per le assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi, con riferimento alle mansioni già espletate, debbano essere computati tutti i congedi di maternità di cui al capo III del d.lgs. n. 151/2001, e non più, come previsto in precedenza, il solo congedo obbligatorio di maternità di cui all’art. 16, co. 1. Inoltre, sempre con riferimento al diritto di precedenza, si dispone ora che i contratti collettivi di qualsiasi livello possano anche prevederne condizioni diverse di esercizio (art. 24, co. 1).
Per quanto riguarda, invece, i criteri di computo (art. 27), si chiarisce che, salvi i casi in cui sia espressamente previsto, si tiene conto del numero medio mensile dei lavoratori a tempo determinato, compresi i dirigenti, impiegati negli ultimi 2 anni, sulla base della effettiva durata dei loro rapporti di lavoro, ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina (legale o contrattuale) per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti (e non più, quindi, ai soli fini dell’applicabilità dei diritti sindacali di cui al Titolo III della l. n. 300/1970).
Un’ulteriore novità consiste nell’aver inserito, direttamente nel corpo del d.lgs. n. 81/2015, una norma rubricata «Decadenza e tutele» (art. 28), la quale replica, sia pur in maniera semplificata, il contenuto dell’art. 32 del cd. “collegato lavoro” (l. 4.11.2010, n. 183). La disciplina in tema di impugnazione del contratto a termine nullo e conseguenze patrimoniali della declaratoria di nullità del termine resta, quindi, sostanzialmente immutata rispetto a quella introdotta nel 2010 e modificata, da ultimo, dalla riforma Fornero (l. 28.6.2012, n. 92)13, salvo il fatto che ora si parla di “trasformazione”, e non più di “conversione” del contratto, da un lato, e che è stata superata la possibilità di far valere esclusivamente i vizi del contratto a termine espressamente contemplati dagli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001, prevedendo ora la norma l’impugnazione del termine apposto al contratto senza ulteriori specificazioni, dall’altro.
Vale anche la pena di ricordare che, in virtù di quanto previsto dall’art. 1, co. 2, del d.lgs. 4.3.2015, n. 23, che ha dato anch’esso attuazione alla delega di cui all’art. 1, co. 7, della l. n. 183/2014, introducendo il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, il nuovo regime sanzionatorio per le conseguenze del licenziamento illegittimo si applica anche «nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del (…) decreto, di contratto a tempo determinato (…) in contratto a tempo indeterminato»14; peraltro, si ritiene che la norma faccia riferimento alle sole ipotesi di conversione volontaria del rapporto, e non anche a quelle in cui l’illegittimità del contratto a termine sia accertata giudizialmente, con conseguente conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.
A ogni modo, l’introduzione del contratto a tutele crescenti rischia di ridurre ulteriormente la rilevanza dello strumento della conversione del contratto a termine (la cui importanza – al di là delle limitate ipotesi in presenza delle quali essa continua a essere invocabile: difetto di forma scritta del contratto, superamento del massimale individuale di 36 mesi, ecc. – è peraltro già destinata a perdere di rilievo nell’epoca del contratto a termine acausale, essendo molto difficile far valere la nullità di un contratto del genere), dal momento che quest’ultima comporterà d’ora in avanti l’applicazione della disciplina delle conseguenze del licenziamento illegittimo di cui al d.lgs. n. 23/2015, e quindi il passaggio a un rapporto di lavoro meno stabile rispetto a quello a tempo determinato (che, come è noto, consente il recesso ante tempus solo per giusta causa, ex art. 2119 c.c.)15.
Infine, va segnalato che è destinata a sopravvivere, sia pure per poco, la speciale disciplina per il trasporto aereo, i servizi aeroportuali e le poste, che sarà abrogata a far data dal 1.1.2017 (art. 55, co. 2), come pure che è fatto salvo l’art. 9, co. 28, del d.l. 31.5.2010, n. 78, conv. con mod. dalla l. 30.7.2010, n. 122, relativo al rapporto di lavoro a termine nel pubblico impiego.
2.4 La somministrazione di lavoro
La principale novità concernente la somministrazione di lavoro (artt. 3040) attiene alla completa liberalizzazione dell’istituto: dopo che la l. n. 78/2014 aveva imposto il superamento della previsione di causali legittimanti il ricorso alla fornitura temporanea di manodopera, in analogia con quanto disposto in materia di contratto a termine, il d.lgs. n. 81/2015 porta a compimento il percorso avviato sancendo la possibilità di ricorrere liberamente anche alla somministrazione a tempo indeterminato: non è più previsto, difatti, l’elenco tassativo delle causali legittimanti il ricorso allo staff leasing, in precedenza contenuto nell’art. 20, co. 3, del d.lgs. n. 276/2003. In pochi anni si è così passati dalla soppressione della fattispecie della somministrazione a tempo indeterminato (l. 24.12.2007, n. 247) alla sua reintroduzione (l. 23.12.2009, n. 191), per giungere da ultimo alla sua completa liberalizzazione.
Per entrambe le forme di somministrazione sono previsti dei limiti quantitativi (art. 31): mentre per quella a tempo determinato essi sono stabiliti dalla contrattazione collettiva di qualsiasi livello, e non più dai CCNL stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale16, per quella a tempo indeterminato, salva diversa previsione dei contratti collettivi applicati dall’utilizzatore, viene introdotta una clausola di contingentamento pari al 20 per cento dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto, o al momento della stipula del contratto qualora l’attività inizi nel corso dell’anno (con le medesime regole di calcolo in caso di arrotondamento introdotte per il lavoro a termine). Con una previsione dal carattere innovativo si precisa che possono, peraltro, essere somministrati a tempo indeterminato i soli lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato (pur avendo in precedenza la contrattazione collettiva di settore spesso già previsto un’analoga disposizione), mentre resta escluso dalla possibilità di ricorrere allo staff leasing il pubblico impiego.
Restano immutati i divieti di ricorso al contratto di somministrazione, con l’unica precisazione che anche in questo caso (come già visto per il lavoro intermittente e quello a termine) diviene tassativo il divieto nelle unità produttive nelle quali si sia fatto ricorso, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi o alla CIG per lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto, salvo che questo sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti o abbia una durata iniziale non superiore a 3 mesi (art. 32, co. 1, lett. b-c), non essendo più prevista la possibilità di deroga tramite accordo sindacale.
Viene confermato il requisito della forma scritta ad substantiam, anche se vengono ridimensionati gli elementi obbligatori che deve contenere il contratto di somministrazione, i quali devono comunque essere comunicati per iscritto al lavoratore (art. 33). In particolare, rispetto allo schema di decreto approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri il 20.2.2015, non è più previsto che l’utilizzatore debba comunicare alle rappresentanze sindacali i motivi di ricorso alla somministrazione, oltre al numero dei lavoratori da somministrare17.
Quanto alla disciplina del rapporto, si rinvia (art. 34) – come già previsto dal d.lgs. n. 276/2003 – a quella generale in materia, rispettivamente, di lavoro a tempo indeterminato (eventualmente come da ultimo modificata dal d.lgs. n. 23/2015) o determinato, a seconda che il rapporto di lavoro intercorrente fra l’agenzia di somministrazione e il lavoratore assunto sia a tempo indeterminato o determinato (con l’aggiunta, nel primo caso, della determinazione dell’indennità mensile di disponibilità, e con l’esclusione, nel secondo, delle disposizioni concernenti la durata massima, la proroga e il rinnovo del contratto, nonché il numero complessivo dei contratti a termine).
Vengono altresì confermati (art. 35): il principio di parità di trattamento fra lavoratori somministrati e dipendenti dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte; il vincolo di solidarietà tra somministratore e utilizzatore con riferimento ai trattamenti retributivi e contributivi (salvo il diritto di rivalsa del secondo verso il primo), che risulta rafforzato rispetto a quanto previsto dal d.lgs. n. 276/2003, pur non figurando più fra gli elementi obbligatori che deve necessariamente contenere il contratto di somministrazione; la ripartizione dei poteri datoriali tra somministratore e utilizzatore (in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, però, è stata inserita una diposizione che consente di delegare all’utilizzatore la gestione della formazione e l’addestramento sui rischi generici, purché ciò sia indicato nel contratto di somministrazione18); la previsione della nullità della clausola che sia diretta a limitare l’assunzione da parte dell’utilizzatore del lavoratore al termine della sua missione (l’utilizzatore è, peraltro, tenuto a informare i lavoratori somministrati circa i posti che si siano resi vacanti nella sua azienda, mentre viene confermata la mancata estensione, ai lavoratori somministrati a termine, dei diritti di precedenza nelle assunzioni garantiti ai lavoratori a tempo determinato). Innovativa è, invece, la possibilità per l’utilizzatore di adempiere all’obbligo di riserva previsto dalla normativa a tutela dei lavoratori disabili (art. 3, l. 12.3.1999, n. 68) mediante l’utilizzo dei medesimi con contratto di somministrazione di lavoro, sempre che le missioni abbiano una durata non inferiore a 12 mesi (art. 34, co. 3).
Con riferimento ai diritti sindacali e alle garanzie collettive (art. 36), rispetto alla precedente disciplina viene mantenuto l’obbligo, gravante sull’utilizzatore, di comunicare ogni 12 mesi alle RSA/RSU il numero e la durata dei contratti di somministrazione conclusi, nonché il numero e la qualifica dei lavoratori interessati; non è, invece, più previsto l’obbligo di comunicare il numero e i motivi di ricorso alla somministrazione, in coerenza con il superamento del regime delle causali.
Rispetto al regime sanzionatorio (artt. 3840) si ribadisce che in caso di mancanza di forma scritta è prevista la nullità, e di conseguenza i lavoratori sono considerati alle dipendenze dell’utilizzatore, mentre nelle ipotesi di somministrazione irregolare19 è rimessa al lavoratore la facoltà di chiedere al giudice, anche solo nei confronti dell’utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dall’inizio della somministrazione. Resta ferma, comunque, la valenza, nei riguardi dell’utilizzatore, degli atti e dei pagamenti compiuti dal somministratore.
Con particolare riferimento all’ipotesi del superamento del limite percentuale, peraltro, mentre nella somministrazione essa comporta la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze dell’utilizzatore, nel lavoro a termine, come si è visto, la trasformazione è esclusa, dandosi così luogo a un’irragionevole differenza di trattamento a fronte di due situazioni che presentano forti tratti di affinità20.
L’azione per far valere l’irregolarità della somministrazione è sottoposta al termine di decadenza (60+180 giorni) previsto per l’impugnazione del licenziamento (art. 6, l. 15.7.1966, n. 604), con decorrenza dal momento della cessazione della somministrazione nei riguardi del lavoratore. In caso di accoglimento della domanda, il giudice condanna, altresì, il datore di lavoro al risarcimento del danno nei confronti del lavoratore, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa fra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, avuto riguardo dei criteri indicati dall’art. 8 della l. n. 604/196621.
Infine, non è più previsto il reato di somministrazione fraudolenta (posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore), forse perché essa era stata raramente accertata in giudizio a causa della difficoltà di provare il dolo specifico che rappresentava un elemento caratterizzante della fattispecie, mentre vengono introdotte nuove sanzioni di carattere amministrativo, di natura pecuniaria, a carico del somministratore e dell’utilizzatore.
2.5 L’apprendistato
La nuova disciplina dell’apprendistato – contratto a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani – è contenuta negli artt. 4147 del d.lgs. n. 81/2015, i quali sostituiscono integralmente il T.U. di cui al d.lgs. n. 167/2011, anch’esso rivisto, da ultimo, dalla l. n. 78/2014.
Tali disposizioni intervengono tanto sulla disciplina generale dell’istituto, ridimensionando il ruolo attribuito alla contrattazione collettiva, quanto sulle singole tipologie di apprendistato; con particolare riferimento a queste ultime, si prevede un ampliamento delle finalità dell’apprendistato del primo tipo (che ora consente non solo di conseguire la qualifica e il diploma professionale, ma anche il diploma d’istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore) e un conseguente ridimensionamento delle finalità di quello del terzo tipo, destinato all’alta formazione e alla ricerca (e non più anche all’acquisizione dei titoli d’istruzione secondaria superiore), mentre resta pressoché immutato quello di secondo tipo, cd. professionalizzante (con riferimento al quale semplicemente viene meno il riferimento al “contratto di mestiere”).
Il legislatore delegato sottolinea, inoltre, la funzione propria dell’apprendistato, in particolare del primo e del terzo tipo, finalizzati a integrare organicamente, in un sistema duale, formazione e lavoro (art. 41).
Per quanto concerne la disciplina generale dell’istituto (art. 42), le principali novità consistono nella specificazione che il contratto deve essere stipulato in forma scritta ad probationem e contenere, seppure in forma sintetica, il piano formativo individuale (la cui predisposizione spetta all’istituzione formativa di provenienza, con il coinvolgimento dell’impresa, nel caso di apprendistato del primo e terzo tipo); nell’applicabilità delle sanzioni previste dalla normativa vigente (ivi compreso, quindi, il d.lgs. n. 23/2015) per il licenziamento illegittimo (con l’ulteriore precisazione che il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi, attestato dall’istituzione formativa di provenienza, da parte degli apprendisti assunti con contratto del primo tipo costituisce giustificato motivo di licenziamento); nella modifica, in caso di recesso ex art. 2118 c.c., del dies a quo di decorrenza del termine di preavviso, il quale coincide ora con il termine del periodo di apprendistato, e non più con la fine del periodo di formazione22; nella delimitazione (e questa è probabilmente l’innovazione di maggior rilievo) dei compiti attribuiti alla contrattazione collettiva in materia, cui sono affidati solo i profili di disciplina generale diversi da quelli attinenti il piano formativo, la durata minima del contratto, la normativa in caso di licenziamento illegittimo e il recesso dal contratto, i quali in precedenza erano a essa affidati e ora risultano, invece, rimessi alla fonte legale; nella limitazione dell’applicazione dell’onere di stabilizzazione, introdotto dalla l. n. 92/2012 per i datori di lavoro che occupano almeno 50 dipendenti, alla sola ipotesi in cui si proceda all’assunzione di apprendisti con contratto del secondo tipo.
La definizione degli standard formativi per tutte le tipologie di apprendistato è demandata a un emanando d.m. (art. 46), mentre in precedenza – con riferimento all’apprendistato professionalizzante e a quello di ricerca – essa era affidata alla contrattazione collettiva. La registrazione sul libretto formativo della formazione effettuata resta di competenza del datore, per l’apprendistato del secondo tipo, mentre per le altre due tipologie è rimessa all’istruzione formativa di appartenenza dello studente, alla quale è pure affidata la certificazione delle competenze acquisite (in questo caso, per tutte e tre le tipologie di apprendistato), la cui disciplina invece era in precedenza rimessa alle regioni e province autonome.
Con particolare riferimento all’apprendistato del primo tipo (art. 43), la cui regolamentazione è rimessa alle regioni e province autonome o, in carenza, alla decretazione ministeriale23, le principali innovazioni ruotano attorno allo stretto legame fra la formazione conseguita in azienda e quella erogata dall’ente formativo. Anzitutto, il datore di lavoro che intende stipulare questo contratto deve sottoscrivere con l’istituzione formativa alla quale lo studente è iscritto, secondo uno schema definito da un emanando d.m., un apposito protocollo che stabilisce il contenuto e la durata degli obblighi formativi del datore, nonché i criteri generali per lo svolgimento dei percorsi di apprendistato; la formazione esterna all’azienda deve svolgersi nell’istituzione formativa alla quale lo studente è iscritto, e non potrà essere superiore al 60 per cento dell’orario ordinamentale del secondo anno e al 50 per cento per gli anni successivi (co. 6). Per le ore di formazione svolte nell’istituzione formativa il datore è esonerato da ogni obbligo retributivo, mentre all’apprendista è riconosciuta – salva diversa previsione contrattuale collettiva – una retribuzione pari al 10 per cento di quella che gli sarebbe dovuta per le ore di formazione in azienda (co. 7); la norma previgente riconosceva, invece, in maniera sicuramente più generosa per il lavoratore, il diritto alla retribuzione con riferimento ad almeno il 35 per cento del monte ore complessivo della formazione a carico del datore.
È, inoltre, prevista la possibilità di una proroga annuale del periodo di formazione a beneficio dei giovani qualificati e diplomati al fine di acquisire ulteriori competenze tecnico-professionali e specialistiche, o qualora al termine del periodo di formazione l’apprendista non abbia conseguito il titolo (co. 4), nonché la possibilità di stipulare il contratto (con durata non superiore a 4 anni) da parte di giovani iscritti al quarto e quinto anno degli istituti tecnici e professionali per il conseguimento di ulteriori competenze tecnico-professionali rispetto a quelle previste dai regolamenti scolastici (co. 5).
Poche sono le novità concernenti l’apprendistato professionalizzante (art. 44): esse consistono principalmente nella qualificazione professionale cui è finalizzato il contratto, che è determinata dalle parti in base ai profili o qualificazioni professionali previsti per il settore di riferimento dai sistemi di inquadramento del personale di cui ai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale24; nel riferimento alla durata minima del periodo di apprendistato (che non può essere superiore a 3 anni, 5 per gli artigiani), mentre in precedenza si faceva riferimento alla durata minima della sola componente formativa del contratto; nell’esclusione, dal novero dei criteri dei quali tener conto per la disciplina dell’offerta formativa pubblica da parte delle regioni e province autonome, sentite le parti sociali, del riferimento all’età dell’apprendista (mentre resta il riferimento al titolo di studio e alle competenze dell’apprendista); nella possibilità di assumere, senza limiti di età, non solo i lavoratori beneficiari di indennità di mobilità, come già in precedenza, ma anche coloro che godono di un trattamento di disoccupazione (art. 47, co. 4).
Infine, per l’apprendistato di alta formazione e ricerca (art. 45), non più idoneo, come si ricordava, al conseguimento di un diploma d’istruzione secondaria superiore, sono previste disposizioni analoghe a quelle dettate per l’apprendistato del primo tipo in materia di sottoscrizione, da parte del datore, del protocollo con l’istituzione formativa alla quale lo studente è iscritto e di obblighi retributivi. Oltre a ciò, si segnala che la formazione esterna all’azienda deve essere svolta nell’istituzione formativa alla quale lo studente è iscritto e non può, di norma, eccedere il 60 per cento dell’orario ordinamentale.
Quella volta al riordino dei rapporti di lavoro rappresenta certamente una delle deleghe più significative che la l. n. 183/2014 ha conferito al Governo, ed il cui esito, rappresentato dal testo organico semplificato di cui al d.lgs. n. 81/2015 (le cui disposizioni dovranno, però, essere ulteriormente integrate, stante il sistematico rinvio ad una successiva decretazione o alle previsioni della contrattazione collettiva), presenta sin da una prima lettura vari profili problematici, solo ad alcuni dei quali è possibile far cenno in questa sede.
Anzitutto, un primo elemento degno di nota è rappresentato dalla distonia fra la volontà di rilanciare il contratto a tempo indeterminato, ora nella forma del contratto a tutele crescenti, come forma comune d’impiego (volontà che si è concretizzata essenzialmente nell’allentamento dei vincoli al licenziamento individuale e collettivo, dovuti proprio all’introduzione del contratto a tutele crescenti, e nella misura di esonero contributivo contenuta nella legge di stabilità per il 2015), da un lato, e il mancato irrigidimento della disciplina delle tipologie contrattuali flessibili, specie di quelle a termine, dall’altro.
L’introduzione di un contratto unico a tutele crescenti, in una qualsiasi delle molte versioni che sono state prospettate, presupporrebbe difatti un contenimento degli spazi applicativi delle tipologie contrattuali flessibili25. Il Jobs Act, invece, ha seguito una strada diversa. In particolare, all’incremento della flessibilità in uscita non ha fatto da contraltare
– come sarebbe stato lecito attendersi – una riduzione della flessibilità in entrata che, anzi, se possibile è stata incrementata ancor di più: si pensi – solo per fare qualche esempio – alla completa liberalizzazione del ricorso alla somministrazione di lavoro, o all’ampliamento dei margini di ricorso alle clausole elastiche e al lavoro supplementare e straordinario nel part-time.
In secondo luogo, dalla lettura del d.lgs. n. 81/2015 si ricava anche un generale ridimensionamento del ruolo attribuito alla contrattazione collettiva, specie con riferimento al parttime (si pensi alla possibilità di ricorrere alle clausole elastiche anche in assenza di una regolamentazione per via contrattuale collettiva) e all’apprendistato (il riferimento è alla riduzione dei margini di intervento delle parti sociali nella definizione della disciplina dell’istituto e dei relativi standard formativi). Nei casi in cui si prevede ancora un rinvio alla contrattazione collettiva, si ampliano i margini di manovra riconosciuti alla contrattazione decentrata: ad es., buona parte della disciplina della somministrazione, e in parte anche di quella del contratto a termine, può ora essere definita dal contratto collettivo aziendale.
Infine, è necessario segnalare che l’opera di riordino compiuta dal Governo ha anche comportato, in una significativa gamma di ipotesi, un sensibile indebolimento dei diritti dei lavoratori (si pensi ancora alle clausole elastiche o al lavoro supplementare e straordinario nel part-time, che ora possono essere utilizzati anche a prescindere dal consenso del lavoratore, o alla consistente riduzione della retribuzione da corrispondere all’apprendista), che solo di rado è stato compensato da disposizioni volte a incrementarne, peraltro solo marginalmente, il preesistente bagaglio di tutele (come nel caso del diritto alla trasformazione del rapporto da full-time a part-time per i lavoratori affetti da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti o in luogo del beneficio del congedo parentale).
1 Sulle linee direttrici dell’ampia riforma di cui al Jobs Act cfr. Speziale, V., Le politiche del lavoro del Governo Renzi: il Jobs Act e la riforma dei contratti e di altre discipline del rapporto di lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 233/2015.
2 La promozione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato al momento si fonda, in via pressoché esclusiva, nella misura, peraltro di carattere temporaneo, di esonero contributivo contenuta nell’art. 1, co. 118124, l. 23.12.2014, n. 190.
3 Il provvedimento, oltre che al riordino (e alla revisione) delle tipologie contrattuali flessibili di lavoro subordinato, delle quali ci occuperemo in questa sede, è anche dedicato al superamento delle collaborazioni a progetto (ma non anche delle collaborazioni coordinate e continuative) di cui agli artt. 61 ss. d.lgs. 10.9.2003, n. 276 (art. 2), alla stabilizzazione – mediante assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – dei collaboratori (anche a progetto) e dei soggetti titolari di partita IVA (art. 54) e alla revisione della disciplina delle mansioni, di cui all’art. 2103 c.c. (art. 3). Per un primo commento al decreto cfr. Tiraboschi, M., Prima lettura del d.lgs. n. 81/2015 recente la disciplina organica dei contratti di lavoro, in ADAPT Labour Studies e-Book series, 2015, 45; Fezzi, M.Scarpelli, F., a cura di, Guida al Jobs Act, in I quaderni di Wikilabour, 2015, 2; Fiorillo, L.Perulli, A., a cura di, Tipologie contrattuali e la nuova disciplina delle mansioni, Torino, 2015; Carinci, F., a cura di, Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81; le tipologie contattuali e lo jus variandi, in ADAPT Labour Studies e-Book series, 2015, 48; Ghera, E.Garofalo, D., a cura di, Contratti di lavoro, mansioni e misure di conciliazione vita-lavoro nel Jobs Act 2, Bari, 2015. Ma sul tema v. già Zoppoli, L., Il “riordino” dei modelli di rapporto di lavoro tra articolazione tipologica e flessibilizzazione funzionale, in Dir. rel. ind., 2015, 76 ss.; Treu, T., In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2015, 155 e ss.
4 Ciò non toglie, come rileva Alessi, C., Flessibilità del lavoro e giovani, in Riv. giur. lav., 2015, I, 316, che sarà comunque possibile ricorrere al job sharing sulla base delle previsioni contrattuali collettive e applicando alla fattispecie la disciplina del lavoro a tempo parziale, come peraltro già avveniva in passato.
5 Di conseguenza, con essa viene meno anche la disciplina differenziata che caratterizzava le tre sottotipologie di parttime, soprattutto con riferimento al lavoro supplementare, al lavoro straordinario e alle clausole elastiche.
6 V., ad es., Trib. Milano, 16.1.2007, in Orient. giur. lav., 2007, I, 330.
7 Come è noto, l’istituto è stato regolato dalle parti sociali solo in un numero molto limitato di settori, anche a causa dell’avversione della Cgil nei confronti del lavoro a chiamata: si pensi, ad es., al CCNL degli studi professionali del 17.4.2015 (art. 57).
8 Cfr., fra gli altri, Santoro Passarelli, G., a cura di, Jobs Act e contratto a tempo determinato. Atto I, Torino, 2014; Giubboni, S., Il ridisegno delle tipologie contrattuali nel Jobs Act, Il libro dell’anno del diritto 2015, Roma, 2015, 368 ss.
9 L’art. 23, co. 3, precisa che i contratti di lavoro a tempo determinato che hanno a oggetto in via esclusiva lo svolgimento di attività di ricerca scientifica possono avere durata pari a quella del progetto di ricerca al quale si riferiscono (in deroga, quindi, al tetto massimo di 36 mesi).
10 Si tratta, peraltro, di precisazioni già contenute nella circolare del Ministero del lavoro 30.7.2014, n. 18.
11 Con riferimento alla previgente disciplina, si erano orientati nel senso di ritenere applicabile la conversione all’ipotesi de qua Zilio Grandi, G.Sferrazza, M., La storia pregressa: continuità e discontinuità nel contratto a termine, in Carinci, F.Zilio Grandi, G., a cura di, La politica del lavoro del Governo Renzi. Atto I, in ADAPT Labour Studies e-Book series, 2014, 30, 19 ss.; in senso dubitativo, fra gli altri, Magnani, M., La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato: novità e implicazioni sistematiche, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 213/2014, 8 ss.
12 In questo senso Alessi, C., op. cit., 317.
13 L’azione di nullità del termine deve essere proposta dal lavoratore entro un termine di decadenza, decorrente dalla cessazione del contratto, di 120 giorni per l’impugnazione stragiudiziale, più 180 giorni per la proposizione dell’azione in giudizio; in caso di conversione del contratto a termine illegittimo, il giudice accorda al lavoratore un’indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa fra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Cfr. Vallauri, M.L., Rapporti di lavoro a termine e strumenti rimediali, in Del Punta, R. Romei, R., a cura di, I rapporti di lavoro a termine, Milano, 2013, 323 ss.
14 Cfr. Tiraboschi, M., Conversione o semplice trasformazione dei contratti per l’applicazione delle cosiddette “tutele crescenti”, in Dir. rel. ind., 2015, 518 ss.
15 Alessi, C., op. cit., 317. Sia concesso sul punto un riferimento a Chiaromonte, W., Il recesso dai rapporti di lavoro a termine, in Del Punta, R. Romei, R., op. cit., 229 ss.
16 Sono però comunque esenti da tali limiti i soggetti collocati in mobilità, i percettori di trattamenti di disoccupazione o di ammortizzatori sociali e i lavoratori «svantaggiati» o «molto svantaggiati» ai sensi del reg. 651/2014/UE, nel novero dei quali rientrano pure gli under 25 e gli over 50, mentre incomprensibilmente non compare più l’esenzione nei casi di ricorso per stagionalità, per sostituzione di dipendenti assenti o per avvio di nuova attività. Lozito, M., Tendenze della contrattazione nazionale in materia di contratto a termine, parttime e apprendistato professionalizzante (parte I), in Riv. giur. lav., 2014, I, 575 ss., segnala che molti contratti collettivi già prevedono tetti massimi di ricorso alla somministrazione.
17 Tiraboschi, M., Prima lettura del d.lgs. n. 81/2015 recente la disciplina organica dei contratti di lavoro, cit., 14.
18 Lazzari, C., Prime osservazioni a proposito di revisione delle forme contrattuali e sicurezza sul lavoro, in I WP di Olympus, n. 41/2015, 9.
19 Ovverosia senza il rispetto dei limiti quantitativi, in violazione di uno dei divieti di ricorso alla somministrazione, senza indicazione nel contratto degli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore, del numero dei lavoratori da somministrare, della presenza di eventuali rischi per la salute e la sicurezza del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate o della data di inizio e della durata prevista della somministrazione.
20 Alessi, C., op. cit., 316317.
21 Nel medesimo senso cfr. Cass., sez. lav., 1.8.2014, n. 17540.
22 Sulla precedente formulazione della norma cfr. Chiaromonte, W., Il recesso dai rapporti di lavoro a termine, cit., 245.
23 Si segnala che è venuta meno la necessità di un apposito accordo in sede di Conferenza permanente e del preventivo parere delle parti sociali, e che sono stati eliminati i principi e criteri direttivi dettati dall’art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 167/2011, e ai quali la disciplina di secondo livello doveva conformarsi.
24 Diversamente da quanto previsto dal t.u. del 2011, si parla ora di assunzione per l’ottenimento di una qualificazione, e non di una qualifica, il che comporta la possibilità di assumere un lavoratore già qualificato per consentirgli di conseguire una qualificazione ulteriore.
25 Cfr. per tutti Casale, G.Perulli, A., Towards the Single Employment Contract. Comparative Reflections, Oxford-Portland (Oregon), 2014, spec. 4, 35 e 55.