Tipologie dell’iperconsumo
Il termine iperconsumo è un neologismo recentemente proposto dai media pubblicitari e dagli studi sociologici e filosofici; in entrambi gli ambiti sta a indicare una fase evolutiva della pratica del consumo. Nel primo caso, tuttavia, con l’utilizzazione del prefisso iper- i media pubblicitari intendono sottolineare l’aumento quantitativo dell’offerta commerciale: l’ipermarket è infatti un’evoluzione del precedente supermarket. Nel secondo caso, al contrario, la sociologia e la filosofia intendono dare un nome a un’evoluzione di tipo qualitativo della pratica tipica della ‘società dei consumi’; in questa seconda accezione, iperconsumo sta a indicare le consuetudini tipiche di quella che potremmo definire società del desiderio.
Questa netta duplicità di significato sembra disperdersi di fronte alla variegata ed estesissima gamma di tipologie commerciali oggi presenti sulla scena urbana: un’offerta così vasta da consentire ad alcuni autori di affermare che lo spazio commerciale non possiede più una forma o, per meglio dire, ne ha molte e nessuna (Dell’Aira 2005). Per quanto vasta ed eterogenea, questa gamma di configurazioni commerciali è tuttavia riconducibile all’iniziale duplicità di significato del termine. Possiamo cioè riconoscere, da una parte, le tipologie dell’iperconsumo dedicate all’evoluzione quantitativa della pratica del consumo (come gli ipermercati, gli shopping malls, i grandi centri commerciali extraurbani) e, dall’altra, quelle dedicate alla sua evoluzione qualitativa (come i centri commerciali urbani, i centri commerciali naturali, i concept stores, i flagship stores, gli spazi commerciali multilogo, i no-brand stores). Si tratta di forme assai differenti sul piano funzionale, su quello morfologico e su quello delle relazioni con i contesti urbani.
Nel primo caso, la principale caratteristica è quella di una sistematica tendenza alla cancellazione di ogni specifica identità dell’architettura e dei luoghi da essa configurati. L’incremento quantitativo dell’offerta e il conseguente aumento numerico dei compratori e delle merci acquistate impone a chi progetta questi edifici di adottare la strategia dell’atopia e della non-identità, con l’obiettivo di consentire a un numero molto elevato di differenti soggetti e di differenti identità di riconoscere tutto senza nulla conoscere, di essere parte di una collettività pur avendo allo stesso tempo individualità e anonimato. Luoghi privi di identità, cioè letteralmente non luoghi.
Al contrario, le tipologie dedicate allo sviluppo qualitativo del consumo appaiono fortemente caratterizzate e, a volte, persino sovraccaricate di valori identitari, e sempre connotate da attenzione ai contesti fisici e immateriali, al fine di intercettare i consumatori di nicchia, le loro tendenze, le loro identità, la loro domanda di valore aggiunto. Una condizione che ha portato recentemente alcuni commentatori a utilizzare, per analogia, il termine di iperluoghi (o superluoghi) per descrivere questi spazi sovraccarichi di senso.
Va, infine, sottolineato come la perdurante coesistenza di queste due categorie sulla scena urbana contemporanea sia prova evidente del carattere non evolutivo dell’una rispetto all’altra: ambedue risultano evoluzioni secondo linee autonome e differenti della comune e originaria struttura del grande magazzino moderno. Tipologia, quest’ultima, che è apparsa sulla scena urbana a partire dalla seconda metà del 19° sec. e che, a tutt’oggi, sopravvive e va annoverata come categoria aggiuntiva dell’iperconsumo contemporaneo.
La vocazione collettiva della città moderna
Il Selfridges Department Store (2003) a Birming-ham in Inghilterra, progettato nel 1999 dallo studio Future systems, può essere considerato come un odierno esempio dell’originaria tipologia del grande magazzino. La sua realizzazione fa parte di un più ampio intervento di riqualificazione di una grande area siderurgica dismessa al centro della città. La forma dell’edificio e la scelta del rivestimento creano un’immagine fortemente comunicativa e unitaria e, allo stesso tempo, misteriosa e distaccata dal contesto: un unico involucro bloboidale, formato da migliaia di dischi in alluminio larghi 66 cm. La superficie del rivestimento è interrotta da poche grandi aperture, che riprendono le forme bloboidali dell’involucro, e dal ponte pedonale di accesso che, al terzo piano, mette in comunicazione il centro commerciale con l’adiacente edificio del parcheggio multipiano. Lo spazio all’interno è organizzato su cinque livelli intorno a una corte centrale illuminata dall’alto. Anche qui sono continuamente riproposte le forme bloboidali che caratterizzano il volume esterno e le bucature delle finestre.
L’evoluzione quantitativa del consumo
La nascita e lo sviluppo rapidissimo delle tipologie dell’iperconsumo, successive a quelle dei grandi magazzini dei primi anni del 20° sec., vanno certamente ricondotti all’eccezionale fase di espansione che caratterizzò la storia di tutte le metropoli occidentali nel secondo dopoguerra. Le forme urbane sviluppatesi in quel periodo trovarono in queste strutture commerciali uno degli elementi caratteristici del nuovo spazio pubblico: la differenza tra un grande magazzino dei primi del Novecento e uno shopping mall suburbano della prima metà degli anni Cinquanta rappresenta in maniera sintetica, ma efficace, la differenza tra la città moderna e la metropoli contemporanea. Una differenza dimensionale, spaziale e culturale che in tutte le società a economia capitalistica caratterizza l’entrata in scena della periferia e della dimensione suburbana. Dunque, una trasformazione imponente non soltanto per le caratteristiche dimensionali della crescita urbana, ma anche per le trasformazioni strutturali del rapporto tra spazio e società delle nuove metropoli.
La forte crescita urbana portò rapidamente al primato di una tipologia commerciale peraltro già esistente. Il primo centro commerciale suburbano realizzato negli Stati Uniti era stato, infatti, il Market Square, costruito nel 1916 a Chicago da Howard Van Doren Shaw e Robert Work, e seguito da numerosi altri esempi in varie città: grandi capannoni destinati all’efficace approvvigionamento commerciale più che al sofisticato shopping urbano dei grandi magazzini. Un genere che doveva trovare piena espressione e completa funzionalità in un ambiente metropolitano di tipo diffuso, fondato sul trasporto privato e sulle grandi reti autostradali. Mentre la spesa quotidiana (e gli esercizi commerciali preposti) è infatti direttamente connessa alla dimensione pedonale della città e al suo sistema di trasporto pubblico, la spesa settimanale, alla base dell’iperconsumo quantitativo, è necessariamente connessa al trasporto privato.
Le tipologie dell’iperconsumo che si svilupparono con le espansioni metropolitane del secondo dopoguerra sono rappresentative del nuovo rapporto tra spazio e società che in quel periodo si venne a configurare, con alcune varianti, in tutti i Paesi a sviluppo terziario. Forme urbane che non hanno precedenti nella storia della città: una sconfinata e informale estensione di case spesso monofamiliari, collegate a grappolo alla grande rete infrastrutturale delle autostrade. Chilometri quadrati di territorio urbanizzato senza alcuna figura, né strutturale né urbanistica. Una tendenza all’individualismo che ha finito per caratterizzare sia i nuovi nuclei abitativi sia la struttura stessa dello spazio pubblico, il quale progressivamente ha perduto la sua identità di luogo collettivo, connotando la nuova metropoli suburbana proprio per un’inedita quanto sistematica assenza d’identità di ogni punto della sua struttura spaziale, fino a pervenire a una radicale cancellazione del concetto stesso di luogo, cioè di spazio pubblico dotato di identità. È questa trasformazione strutturale del rapporto spazio-società che ha imposto l’abbandono della dimensione collettiva e sociale del grande magazzino novecentesco a favore del nuovo paradigma individualista e atopico del mall, del supermarket, dello shopping center.
A differenza della società urbana che frequentava il grande magazzino del primo Novecento, chi utilizza queste nuove realtà del consumo non trova né cerca in esse alcuna identità, alcuna occasione di socializzazione. Si giova di un contesto sociale senza dover condividere nulla con esso, senza dover rischiare un’integrazione con le tante individualità che provvisoriamente occupano questi spazi. Dunque spazi pubblici configurati per assicurare anonimato e non identità. Se lo spazio pubblico storico è un luogo proprio grazie alla sua identità, lo spazio pubblico dello shopping mall è l’esatto opposto di un luogo. È un non luogo, e l’azione collettiva che vi si svolge resta sempre la somma di singole individualità e non arriva mai a esprimersi in una comune identità pubblica. Sul piano della spazialità urbana, il mall, in quanto non luogo, è il contrario dell’utopia: esiste ma non accoglie nessuna società organica (M. Augé, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, 1992; trad. it. 1993).
Tuttavia, anche dal punto di vista della connotazione architettonica, il mall sembra adeguarsi alla richiesta di cancellazione di ogni identità. L’imponente struttura scatolare prefabbricata, il grande contenitore architettonicamente indefinito è però regolato al suo interno dalle leggi rigorose della funzionalità del grande consumo. Magazzino, lavorazione, percorsi delle merci e delle persone, sicurezza, orientamento del consumatore e target commerciali, back office e, soprattutto, criteri e leggi dell’accessibilità carrabile, dei parcheggi, dei collegamenti con la rete locale e sovralocale. Una complessa progettualità interessata a proporre atopie che consentano però a ognuno, come detto, di riconoscere senza nulla conoscere dello specifico dei contesti. L’ambiente urbano interno così ricreato, privo di tutti i fattori negativi della città (smog, traffico, instabilità sociale), appare come la simulazione di una downtown nell’ambiente suburbano e genera frequentemente sviluppo immobiliare aggiuntivo. Da quell’iniziale prototipo possiamo catalogare un’estesa e dettagliata casistica di variazioni, prevalentemente legate al target commerciale, e la generale tendenza a un aumento qualitativo dell’offerta architettonico-spaziale, con speciale riguardo alla caratterizzazione e alla riconoscibilità su scala territoriale dei manufatti, che tendono a proporsi sempre di più come veri e propri landmarks.
È il caso, per es., dell’Europark shopping center 1 e 2 (1997 e 2005) a Salisburgo in Austria, progettato da Massimiliano Fuksas in un’area di 120.000 m2 collocata tra autostrada e aeroporto. Il centro si sviluppa su quattro piani, con 80 negozi ai primi due livelli e parcheggi situati al livello interrato (1200 posti) e all’ultimo livello (800 posti). L’edificio è caratterizzato da un involucro costituito da una doppia pelle vetrata, serigrafata con la scritta retroilluminata Europark che cambia con l’intensità della luce e si riflette in una vasca d’acqua prospiciente il lato meridionale dell’area. La trasparenza dell’involucro consente di illuminare gli spazi interni con luce naturale, anche attraverso i lucernari. La copertura è costituita da un’enorme rete metallica ondulata di colore rosso (140×320 m2), che ha la funzione di proteggere le automobili. Allo stesso tempo questo elemento evoca con il suo andamento le onde del mare e diventa il segno riconoscibile dell’intervento, un landmark appunto, che rende il centro commerciale immediatamente riconoscibile anche a distanza. Parte integrante dell’intervento è la sistemazione dell’area circostante, che crea un vero e proprio paesaggio artificiale con dislivelli e colline, percorsi pedonali, giardini e serre con vegetazione particolare, destinati all’intrattenimento.
Il supermercato M-Preis (2001) a Telfs in Austria, progettato da Peter Lorenz, è legato da uno speciale rapporto all’adiacente rete autostradale e alle retrostanti montagne. L’edificio, che si sviluppa su due livelli (800 e 1000 m2 di superficie utile), è caratterizzato dal movimento avvolgente della copertura in metallo che, come un nastro continuo, diventa il solaio intermedio fino a toccare terra. Il segno continuo e molto elegante rende l’intervento fortemente riconoscibile nel contesto in cui si inserisce. Le facciate che chiudono lo spazio interno, alte fino a 6 m, sono interamente vetrate. La facciata verso l’autostrada è invece traslucida per schermare il sole e concentrare la vista attraverso la facciata opposta, orientata verso le montagne. All’interno, le fluenti curve della superficie della copertura avvolgono e definiscono lo spazio.
Lo studio Wood & Zapata ha progettato a Miami Beach un sofisticato Publix supermarket (1998), nel quale, al contrario, è prevalentemente messo in scena lo spazio interno del centro commerciale stesso. I due architetti hanno lavorato soprattutto sull’involucro di questo grande supermercato di 5000 m2, collocato in una prestigiosa area di Miami. La facciata, lunga 80 m, è completamente vetrata, al fine di stabilire una relazione tra lo spazio esterno e il grande atrio, in cui sono collocati gli elementi di collegamento tra gli spazi commerciali e i due livelli superiori adibiti a parcheggio. Questo spazio è trattato come un elemento scultoreo, che sottolinea l’accesso privilegiato alla struttura attraverso l’automobile, uno sperone di vetro e metallo da cui i clienti possono godere, salendo, di una vista panoramica su South Beach. La facciata, dietro la quale è visibile il sistema dei nastri trasportatori inclinati che s’incrociano, si configura come un elemento scenografico che mette in scena il movimento delle persone con i carrelli, un flusso continuo e suggestivo che attrae il visitatore.
Il Sainsbury Millennium store (2003) a Greenwich presso Londra, dello studio Chetwood & associates, è invece caratterizzato da una speciale attenzione al risparmio energetico e al contenimento dell’impatto ambientale. Il supermercato è un edificio a un unico livello parzialmente interrato. Questa collocazione, insieme all’impiego di materiali fortemente isolanti per le tamponature, garantisce un notevole risparmio energetico, mentre le insegne luminose e le lampade vengono alimentate grazie all’installazione di pannelli solari e pale eoliche. Il risparmio e il riuso dell’energia è il principio fondamentale che ha guidato le scelte progettuali, dai sistemi di raffreddamento e ventilazione passivi alla copertura che consente di riciclare l’acqua piovana per innaffiare le aree verdi intorno all’edificio, sino ai lucernari a shed che illuminano con luce naturale gli spazi interni.
Infine, e in controtendenza rispetto alla dimensione e caratterizzazione territoriale, va menzionato il piccolo supermercato M-Preis 2 (2003) a Wattens in Austria, progettato da Dominique Perrault. In un’area di 5230 m2, Perrault ha organizzato varie funzioni (un supermercato, un caffè, un fiorista e un parcheggio interrato) in parallelepipedi vetrati parzialmente schermati da reti metalliche. L’edificio è improntato a un raffinato minimalismo: il volume principale è rialzato su pilotis al di sopra di un piano seminterrato di parcheggi e interrotto da corti attraversate da alberi piantati al livello dell’autorimessa. Una porzione di paesaggio penetra dunque all’interno dell’edificio come elemento d’integrazione con il contesto.
Nella categoria delle tipologie commerciali messe a punto per dare risposta all’evoluzione quantitativa del consumo vanno in ultimo menzionati gli outlet. Si tratta di strutture commerciali sorte come spacci aziendali monomarca, attraverso i quali le grandi aziende produttrici collocano sul mercato, a prezzi fortemente ribassati, la produzione scartata dalla prima scelta, ovvero il magazzino dell’invenduto dei modelli degli anni precedenti. Una strategia commerciale prevalentemente praticata dalle grandi griffe internazionali, che ha incontrato fortissimo apprezzamento da parte del grande pubblico. Gli outlet hanno cioè garantito la massificazione del prodotto commerciale di segmento più alto, aumentando la platea dei compratori e garantendo alle aziende di élite l’accesso a un livello quantitativo della produzione, precedentemente riservato soltanto ai prodotti commerciali di bassa qualità.
Dall’iniziale spaccio aziendale si è rapidamente passati agli outlet organizzati come grandi centri commerciali plurimarca. Questi complessi, a volte di notevoli dimensioni, sono costruiti a partire dall’accordo temporaneo, strategico e sinergico, di un certo numero di aziende di alto livello commerciale. In queste strutture l’architettura e gli allestimenti non possono essere direttamente collegati a nessuno dei brands presenti, ma non di meno sono chiamate a ricreare atmosfere in grado di evocare immediatamente l’alto livello qualitativo delle firme commerciali rappresentate. Per questo motivo gli allestimenti di queste cittadelle del lusso a buon mercato si fondano puntualmente su un immaginario collettivo tranquillizzante ed evocativo, costruito sull’immagine popolare del lusso e della qualità. Nel caso italiano lo spazio e le strutture architettoniche sono sempre costruite sull’iconografia di quello che potremmo definire un’approssimativa sezione di città rinascimentale; i materiali in vista sono quelli solidi dell’architettura finto antica, ogni rimando iconografico al modernismo è rigorosamente bandito. Nel mezzo della campagna o degli ambienti suburbani della metropoli diffusa, sempre più spesso ci troviamo di fronte a cittadelle della moda che cercano un diretto e ‘disneylandiano’ rapporto con le atmosfere di via Condotti o via Monte Napoleone.
I tre casi italiani di maggiori dimensioni appaiono rigorosamente rispondenti a questa generale tendenza. Gli outlet di Barberino del Mugello (Firenze, 2006), di Castel Romano (Roma, 2006) e di Serravalle Scrivia (Milano, 2005) sono tutti caratterizzati da analoghe dimensioni territoriali (tra i 14 e i 21 ha); da una notevolissima superficie di vendita (dai 23.000 ai 43.000 m2); dal medesimo progettista (Hydea s.r.l, Paolo Giustiniani, Andreij Perekhodtsev, Pietro Bruscoli, nel caso di Serravalle in collaborazione con Guido Spadolini; negli altri due con Adinolfo Lucchesi Palli).
L’evoluzione qualitativa del consumo
Come già detto, iperconsumo è un termine frequentemente utilizzato anche da sociologi e filosofi. L’iperconsumo rappresenta perciò una fase successiva e, in certa misura, evolutiva del semplice primato dell’economia dei consumi su quella della produzione: un primato indiscusso da quando, nella seconda metà del secolo scorso, il numero dei dipendenti della catena di grandi magazzini Walmart superò quello dei dipendenti della General motors. Da allora, è un’azienda con un focus business centrato sul consumo, e non più sulla produzione industriale, a essere la più grande degli Stati Uniti. Ma ben oltre questo assodato sorpasso, l’iperconsumo sta a identificare una sostanziale differenza nei modi e nella cultura dei consumi, ribaltando e, in parte, riscattando la tendenza della società dei consumi alla sua naturale deriva verso il consumismo: una terza fase, dopo quella moderna e quella postmoderna, che pervade ogni campo della vita dell’individuo, ormai trasformatosi nella società ipermoderna in ‘Homo consumericus di terzo tipo’ (Lipovetsky 2006).
L’iperconsumo è reso possibile da un capitalismo capace di sovrapporre alle tradizionali tipologie di prodotti materiali una nuova, variegata, selettiva e sofisticata gamma di prodotti immateriali, prevalentemente incentrata sui settori emozionali e persino spirituali, sovrapponendo ai beni di consumo (tradizionali e di nicchia) disponibili in un mercato tradizionale altri beni che danno valore aggiunto alle merci, come, per es., personal trainers, discipline orientali, centri benessere. La società dell’iperconsumo appare, tuttavia, paradossalmente caratterizzata da una sorta di edonismo antidionisiaco: l’iperconsumatore è insomma provvisto di uno spiccato senso del giudizio, che lo riscatta dal diretto asservimento alla logica delle multinazionali o delle grandi marche, facendone un giudice sofisticato del mercato e delle sue merci, l’interfaccia fondamentale e ineliminabile del rapporto esistente tra domanda e offerta.
In questa accezione, perciò, l’iperconsumo è l’evoluzione del consumo a partire da una differenza eminentemente qualitativa sia del prodotto, sia dell’esperienza emozionale, sia dello spazio commerciale. Alla sua origine non si rintraccia alcun necessario incremento quantitativo né dell’offerta né della domanda: per questo motivo l’iperconsumo rappresenta un’inversione di tendenza anche dello spazio commerciale disegnato per il semplice consumismo. Mentre il supermercato o lo shopping mall caratterizzano lo spazio urbano per la loro sistematica assenza di identità, ‘non luoghi’ a partire dalla loro ‘non identità’, le tipologie dell’iperconsumo sono al contrario caratterizzate dalla loro ricercata e sofisticata identità architettonica e spaziale: come si è detto, sono ‘iperluoghi’ o ‘superluoghi’ per via, appunto, della loro aumentata identità.
L’interazione di questa condizione culturale con lo spazio metropolitano, e ancor più con l’architettura, non riguarda perciò esclusivamente gli edifici destinati al commercio, ma risulta di fatto estesa a ogni tipologia architettonica e a tutti i «programmi che costituiscono il territorio dell’architettura. Così, ora abbiamo il consumo infiltrato nei musei, negli svaghi, negli aeroporti, come se fosse l’invisibile cemento della nostra condizione urbana, che fonde le attività umane in una sorta di enorme, unico amalgama» (Rem Koolhaas in Chaslin 2001; trad. it. 2003, p. 75). Realizzando per molti versi la profezia di Andy Warhol, il quale negli anni Sessanta aveva previsto che tutti i musei si sarebbero trasformati in grandi magazzini e tutti i grandi magazzini in musei.
Affiancate dunque alle tipologie nate per soddisfare un aumento quantitativo delle pratiche del consumo, quali sono i supermercati e gli shopping malls, sempre più frequentemente possiamo censire nelle metropoli contemporanee le tipologie destinate a soddisfare una domanda evolutiva di tipo qualitativo del consumo. In questo caso le strutture dell’iperconsumo, come i centri commerciali urbani, i centri commerciali naturali, i concept stores, i flagship stores, sono caratterizzate da una grande variabilità nella collocazione, non sono codificabili secondo standard dimensionali, o classificabili secondo parametri funzionali.
Si tratta di interventi a volte limitati alla scala dell’oggetto architettonico e a volte coinvolgenti intere porzioni di città (e perciò particolarmente significativi su scala urbanistica); a volte localizzati in parti centralissime della città altre volte in periferia, come volano di sviluppo e di qualità delle aree suburbane (simulated downtown in suburbia). In ogni caso, si tratta di progetti provvisti di grande attenzione ai contesti e, anzi, sempre finalizzati alla loro riqualificazione e alla messa in rilievo degli spazi pubblici preesistenti. Per queste ragioni si tratta spesso, e con maggiore frequenza di quanto non avvenga con le precedenti tipologie dell’iperconsumo quantitativo, di interventi caratterizzati da elevata qualità progettuale e da edifici con spiccata identità architettonica.
Come primo esempio tipologico va certamente preso in considerazione quello dei concept stores. Si tratta di strutture commerciali tra loro assai differenti dal punto di vista dimensionale e spaziale, ma tutte caratterizzate dalla centralità dell’atmosfera, cioè dalla messa in scena del prodotto attraverso l’allestimento e la spazialità del negozio, che invita il cliente a immergersi nell’esperienza emotivo-culturale dello shopping. Tra i primi concept stores vanno ricordati i punti vendita della catena Ralph Lauren, che sin dalla seconda metà degli anni Ottanta cominciò a veicolare i propri prodotti attorno alla suggestione e alle atmosfere di un’americanità da set cinematografico, fondata sul lusso. Nel concept store, perciò, prevale la necessità della costruzione di un percorso sensoriale, in grado di identificare e comunicare con coerenza uno stile di vita attraverso la cura di ogni dettaglio, dall’allestimento al packaging, al personale, ai servizi accessori. Il concept store perciò può essere monomarca, o veicolare differenti prodotti messi tra di loro in rapporto sulla base del valore aggiunto concettuale offerto dal negozio, o ancora può proporsi come punto vendita iperspecializzato e ipersettoriale. In questo senso rappresenta bene quel passaggio da un marketing consumistico a uno esperienziale che caratterizza appunto la cultura dell’iperconsumo.
D’altronde, tutte le tipologie nate per soddisfare una domanda evolutiva di tipo qualitativo del consumo sono caratterizzate da una certa tendenza al marketing esperienziale. Non sfuggono a questa caratteristica i flagship stores. Si tratta di complessi in rapidissima crescita, che consentono ai brands commerciali di caratterizzare la propria presenza sui mercati per mezzo di esercizi ‘portabandiera’. Nel caso delle grandi griffe internazionali, il flagship store è un piccolo ed esclusivo centro commerciale dove trovano esposizione e commercializzazione tutti i prodotti che ruotano attorno al brand. I flagship stores sono dunque punti vendita monomarca situati spesso, per importanza strategica, in edifici urbani concepiti per creare un diretto rapporto tra griffe e identità dell’architettura, alla quale viene specificamente richiesto di conferire un aggiuntivo valore immateriale ai prodotti del brand attraverso la costruzione di un immaginario spaziale, linguistico, materico, collettivamente riconoscibile e riconducibile alla griffe stessa. Per questi motivi è prassi il ricorso alle grandi firme dell’architettura internazionale che, in alcuni casi, costruiscono rapporti di esclusiva con i propri clienti.
Tra i tanti esempi vanno menzionati: Mercedes Benz Museum (2006) a Stoccarda, di UN Studio; BMW Welt (2007) a Monaco di Baviera, dello studio Coop Himmelb(l)au; Prada Epicenter (2004) a Beverly Hills, di Rem Koolhaas; Audi Motor Show Stand (2002) a Düsseldorf, dello studio Ingenhoven Overdiek und Partner; Emporio Armani (2002) a Hong Kong, di M. e Doriana Fuksas. E una serie di negozi o edifici realizzati a Tokyo: Dior (2004) a Ginza, di Kumiko Inui; Opaque (1998) e Dior (2003) a Omotesando, di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa; Maison Hermès (2001), di Renzo Piano; Prada Epicenter (2003), di Herzog & de Meuron; Comme de Garçons boutique (2004), di Future systems; Louis Vuitton a Ginza (2000) e quello a Omotesando (2002), di Jun Aoki; Tod’s (2004) a Omotesando e Mikimoto (2005) a Ginza, di Toyo Ito.
Il Prada Epicenter di Herzog & de Meuron può essere assunto come esempio paradigmatico di questo tipo di interventi. È infatti un edificio-negozio di 2800 m2 collocato nel quartiere Aoyama, una zona prestigiosa e frequentata per lo shopping. Alto sei piani, è sostenuto da una griglia strutturale di acciaio che, con la sua trama ad alveare, caratterizza la facciata, insieme ai vetri a moduli romboidali. L’alternanza di vetri curvi e piatti deforma la visione e fa vibrare la superficie esterna. Lo spazio interno offre un’esperienza tattile e visiva molto suggestiva, con l’alternanza di materiali e colori che caratterizza gli ambienti in cui sono esposti gli oggetti in vendita e l’immagine della città vista attraverso i vetri. I camerini sono oggetti a sezione romboidale sospesi tra i piani, che arrivano a toccare la facciata. La visione notturna dell’edificio illuminato dall’interno offre l’immagine di una serie di solidi – i solai e i volumi dei camerini – impigliati nell’involucro della rete.
Tutti gli esempi sin qui presi in esame sono caratterizzati da particolari necessità di localizzazione urbana: infatti fondano una parte importante della costruzione e della caratterizzazione del proprio marketing esperienziale nella centralità e, comunque, nell’identità della città esistente. La capacità di traino del commerciale qualitativo e la sua facoltà di generare ex novo atmosfere urbane vengono spesso utilizzate, in condizioni ribaltate, per estendere ai luoghi periferici della città l’identità dei luoghi storici e centrali. È il caso di quegli interventi che utilizzano il commerciale come traino della riqualificazione periferica e dello sviluppo urbano, il citato simulated downtown in suburbia.
In questa categoria va segnalato, per es., lo smisurato intervento del Namba Parks a Osaka (Giappone), progettato nel 1994-95 dallo studio The Jerde part-nership e inaugurato nel 2003. Si tratta di un’area commerciale di 297.000 m2, che comprende 100 negozi e 20 caffè, ed è organizzata come un grande parco a tema. Un edificio a gradoni di otto piani si estende lungo tutta la superficie del lotto (originariamente un campo da baseball in disuso): questa crosta artificiale è scavata da viali e grandi patii. Il viale principale, che attraversa diverse quote con ponti pedonali, si configura come un canyon su cui si aprono le superfici vetrate dei negozi e dei bar, e si divide in due percorsi dall’andamento sinuoso, articolati tra elementi naturali, come le terrazze verdi e le fontane con i giochi d’acqua, ed elementi artificiali, come le pareti di roccia colorata. L’attraversamento dell’area si configura come un’esperienza davvero avventurosa e spettacolare, stimolando l’immaginazione dei visitatori. Fa parte del complesso anche una torre per uffici di trenta piani.
Molti sono anche gli interventi a forte caratterizzazione commerciale realizzati nelle aree consolidate delle città e persino nei centri storici. Si tratta di grandi centri commerciali urbani che, a differenza di quelli realizzati nelle aree suburbane, sono chiamati a un serrato confronto con i contesti nei quali sorgono e ad accettare il quadro di vincoli derivante da una così delicata localizzazione urbanistica.
Un emblematico esempio è il Brink Centre a Hengelo (Paesi Bassi), progettato nel 1995-96 dallo studio Bolles + Wilson e inaugurato nel 1998. Realizzato nel centro della città, tra il mercato e la piazza della stazione, comprende 15.000 m2 di area commerciale e un piano interrato di parcheggi. Alla quota urbana, un basamento che contiene i negozi è attraversato da una galleria commerciale coperta a doppia altezza, che va dalla stazione alla piazza del mercato e unisce i due blocchi residenziali in cortina laterizia che s’innestano alle estremità del complesso. Lo spazio della galleria Brink è caratterizzato dai fasci di pilastri di acciaio inclinati che reggono la copertura e i volumi superiori. La piazza del mercato è invece contraddistinta dalla nuova torre, alta 44 m, che segna l’ora e con scritte luminose segnala a distanza la presenza dello spazio commerciale. Il grande magazzino Vroom & Dresmann, rivestito da un involucro scintillante di alluminio, occupa l’area della vecchia fabbrica che sorgeva sul lotto, e si affaccia sul fianco del complesso.
Altro esempio di centro commerciale urbano basato sul recupero di edifici storici è il mercato di Colón a Valencia (Spagna), progettato nel 1997 dallo studio Borgos Dance & partners (con Ove Arup & partners) insieme a Enrique Martínez-Díaz e Luis López Silgo, e terminato nel 2003. Si tratta del restauro di un edificio costruito tra il 1914 e il 1916 dall’architetto modernista Francisco Mora Berenguer, che dopo la chiusura nel 1985 versava in uno stato di degrado. Lo spazio coperto da una struttura in ferro è articolato in tre navate, una principale di 18 m e due laterali di 7,7 m. Il recupero programmato dal comune con l’AUMSA (Actuaciones Urbanas Municipales Sociedad Anónima), l’agenzia per lo sviluppo urbano di Valencia, prevedeva la realizzazione di tre piani di parcheggio interrati e un livello per le attività commerciali. Il comune ha chiamato diversi grandi architetti internazionali a elaborare proposte per il recupero dell’edificio. L’idea dello studio Borgos Dance è stata giudicata la più convincente per la sua interpretazione del mercato come grande piazza pubblica e la collocazione della maggior parte delle nuove funzioni ai piani interrati: quattro nuovi livelli che contengono funzioni commerciali e culturali e parcheggi (ognuno per circa 2250 m2). La piazza coperta a tre navate è interrotta da un taglio centrale che mette in comunicazione visiva il piano terra con i primi due livelli interrati, creando uno spazio verticale molto suggestivo. Le uniche funzioni a piano terra sono inserite in tre padiglioni cubici per ogni navata, di 7,4 m × 6,4 m, che contengono negozi, caffè e scale di sicurezza; questi volumi, rivestiti di vetro traslucido, hanno un’immagine molto leggera e, di notte, si configurano come oggetti luminosi che richiamano l’attenzione dei passanti. La nuova pavimentazione del mercato viene estesa oltre le coperture, fino alla recinzione in ferro e pietra che delimita l’area.
È inserito in un contesto storico anche il centro commerciale urbano Galeria Kaufhof a Chemnitz (Germania), progettato dallo studio Murphy/Jahn architects nel 1998 e realizzato nel 2001. L’edificio, che si trova al centro della città, si articola in due volumi trapezoidali distinti: uno grande e vetrato con i negozi, uno più piccolo e chiuso con i parcheggi. Entrambi sono posti al di sotto di un’unica copertura: nello spazio che li separa si realizza così un percorso urbano che ricorda le gallerie coperte dei grandi magazzini di inizio Novecento. Lo spazio della galleria coperta è animato da ponti sospesi a diversi livelli, che collegano i parcheggi al volume commerciale. L’involucro vetrato, trasparente, traslucido o riflettente a seconda delle parti, ripropone in maniera diversa l’immagine del vecchio mercato (Neumarkt). La copertura si estende poi sulla strada pubblica mediante una grande pensilina a sbalzo con l’insegna del centro commerciale, che protegge il marciapiede e la fermata del tram. L’organizzazione della struttura è così in grado di creare ambiti legati alla funzione commerciale ma che hanno anche una valenza urbana autonoma.
Il Fünf Höfe (2003) a Monaco di Baviera, di Herzog & de Meuron, rappresenta un punto di passaggio tra i centri commerciali urbani e quelli naturali (v. oltre). In questo caso, infatti, i progettisti hanno utilizzato la destinazione commerciale come catalizzatore di una vasta azione di riqualificazione delle aree centrali della città. Il progetto si estende su una zona del centro storico ricostruita nel secondo dopoguerra, e tende a scardinarne la monofunzionalità. L’isolato recuperato dal progetto ospita spazi commerciali per 16.600 m2, uffici per 55.000 m2, residenze (49 alloggi) per 6000 m2 e una galleria d’arte. La sua struttura, caratterizzata da piccoli cortili interni, è articolata in una sequenza di spazi pubblici che si integrano con il tessuto urbano circostante. Il percorso si sviluppa in corti e gallerie (5000 m2) animate da attività di bar e ristorazione e caratterizzate, per quanto riguarda il trattamento delle superfici, da una forte ambiguità, che le colloca a metà tra spazio interno e spazio esterno. Le ‘cinque corti’ che danno il nome all’intervento sono contraddistinte ognuna da un tema architettonico differente. È stata, invece, lasciata intatta la facciata esterna storica, tranne che in un punto, rivestito con una doppia pelle e comprendente un sistema di persiane pieghevoli in lamiera forata.
Con analoghe caratteristiche si presenta l’intervento dello studio Diener & Diener per il centro commerciale urbano Migros (2000) a Lucerna in Svizzera. Anche in questo caso il centro è localizzato in un’area centrale della città, ma che una volta ne rappresentava i margini. Il bando di concorso prevedeva la demolizione dell’hotel ottocentesco Schweizerhof per la realizzazione, in un lotto di 7620 m2, di un centro commerciale, una scuola per adulti e un nuovo albergo. Il progetto vincitore è invece riuscito a inserire le nuove volumetrie (per 30.000 m2) in un contesto urbano consolidato, salvaguardando anche la parte più antica dell’hotel, recuperato nella sua funzione originaria. Anche in questo caso si tratta di un programma funzionale di grande complessità, che mira a salvare le volumetrie storiche esistenti riarticolandole in un nuovo contesto spaziale e funzionale, sino a ottenere una sorta di centro commerciale naturale.
Si definisce centro commerciale naturale (CCN) la valorizzazione della rete del commercio diffuso già esistente all’interno di strutture urbane consolidate (Dell’Aira 2005). In questo senso il CCN è l’opposto di un centro commerciale urbano, che è sempre una struttura artificiale o pianificata. In un CCN, tuttavia, il ruolo del progetto appare non meno importante di quanto lo sia in un centro commerciale pianificato in quanto il progetto dovrà essere in grado di contraddistinguere chiaramente l’area commerciale e le sue caratteristiche e mettere in rilievo, sia funzionalmente sia identitariamente, le preesistenti strutture.
In Italia vanno menzionati almeno la Lastricata (2000) a Verona e l’intervento di via Dante (2000) a Riccione. Nel primo caso, Boris Podrecca è intervenuto sulla struttura urbana antica compresa tra via Nuova e piazza delle Erbe, con un raffinato lavoro sulle pavimentazioni, gli arredi urbani, i sistemi di illuminazione artificiali. Nel secondo caso, Italo Rota ha agito invece ‘per punti’, caratterizzando i singoli esercizi e il loro rapporto con lo spazio urbano.
Nel resto d’Europa vanno menzionati almeno il mercato di Santa Caterina (2005) a Barcellona e il nuovo City center (2000) della città di Nijmegen nei Paesi Bassi. Per il recupero del mercato di Santa Caterina, situato nella città vecchia, il progetto (1997-1999) dello studio EMBT (Enric Miralles, deceduto nel 2000, e Benedetta Tagliabue) sovrappone alle strutture esistenti un nuovo sistema di coperture che costruisce un paesaggio urbano fantasioso e suggestivo. La struttura arretra per lasciare spazio a una grande piazza su cui affacciano gli stand e gli edifici residenziali per anziani che fanno parte dell’intervento. Questa scelta consente di trasformare l’area del mercato in un centro urbano plurifunzionale in grado di accogliere la vita sociale e di rivitalizzare il contesto urbano in cui si inserisce. L’intervento è d’altronde concepito in una logica di forte integrazione con il quartiere, mediante un meccanismo di finanziamento che vede coinvolti soggetti pubblici e privati in una vasta operazione di riqualificazione degli spazi pubblici e d’introduzione di nuove attività nelle aree intorno al mercato.
L’intervento nella zona di Mariënburg a Nijmegen, progettato nel 1993 dallo studio Soeters van Eldonk Architecten, riarticola invece la spazialità dell’antica Marikenstraat su due livelli, aumentandone il tracciato e conseguentemente i fronti commerciali disponibili, e conseguendo il risultato di un’efficace rivitalizzazione di un’area urbana degradata e monofunzionale.
Le repentine trasformazioni alle quali sono andate incontro le tipologie dell’iperconsumo negli ultimi decenni rappresentano bene la progressiva trasformazione dei rapporti tra mercato, società e territorio, a partire dall’eccellente capacità adattiva del mercato a trasformare continuamente le proprie forme fisico-territoriali di fronte al continuo mutare della domanda sociale. Una trasformazione per sua natura incessante e tuttavia radicata all’interno di un orizzonte – mercato, società e territorio, appunto – del quale è bene, in conclusione, rappresentare alcuni iniziali ma già evidenti segnali di sgretolamento. Con la cancellazione del territorio e dello spazio fisico operata dall’e-commerce, sembra delinearsi un nuovo orizzonte che potrebbe, in un futuro ormai non più remoto, consegnarci sempre di più a una dimensione immateriale, ma non meno reale dell’iperconsumo.
Bibliografia
F. Chaslin, Deux conversations avec Rem Koolhaas et caetera, Paris 2001 (trad. it. Architettura della tabula rasa. Due conversazioni con Rem Koolhaas, ecc., Milano 2003).
P.V. Dell’Aira, Architetture per il commercio, Roma 2005.
G. Lipovetsky, Le bonheur paradoxal. Essai sur la société d’hyperconsommation, Paris 2006 (trad. it. Milano 2007).
La città vetrina. I luoghi del commercio e le nuove forme del consumo, a cura di G. Amendola, Napoli 2006.
M. Ilardi, Il tramonto dei non luoghi. Fronti e frontiere dello spazio metropolitano, Roma 2007.