Tipologie di lavoro subordinato
Il contributo analizza le disposizioni che l’art. 1 della l. 28.6.2012, n. 92 dedica al riordino delle tipologie contrattuali (flessibili e speciali) di lavoro subordinato, mettendone in evidenza gli aspetti più significativi e problematici sul piano interpretativo e ricostruttivo. Esso si sofferma, in particolare, sulla nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato e della somministrazione a termine, mettendo in luce la linea prevalentemente liberalizzante seguita dal legislatore in tale importante ambito d’intervento (linea del resto corroborata dall’art. 28 del d.l. 18.10.2012, n. 179).
Le norme che la l. 28.6.2012, n. 92, di riforma del mercato del lavoro «in una prospettiva di crescita», dedica, in particolare con i commi 9 e seguenti dell’art. 1, al riordino delle principali tipologie contrattuali flessibili e/o speciali di lavoro subordinato, rivestono un rilievo essenziale nel quadro degli obiettivi perseguiti dal legislatore. Lo si desume agevolmente dalla enunciazione esplicita che ne offre lo stesso art. 1, co. 1, della legge1, laddove – nel contesto del macro-obiettivo della realizzazione di «un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione» – viene chiarito che il perseguimento di tale finalità generale è affidato, in primo luogo, alle misure dirette a favorire «l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili, ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto “contratto dominante”, quale forma comune di rapporto di lavoro» (lett. a). Misure, queste, che le successive lett. b) e c) individuano prioritariamente, da un lato, nella valorizzazione dell’apprendistato «come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro» e, dall’altro, in una più equa ed efficiente distribuzione delle tutele dell’impiego, in primis sul versante del contrasto dell’uso «improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali» (cui fa da immediato contrappeso, nella logica di trade-off visualizzata dal legislatore, la rivisitazione della disciplina del licenziamento con la riduzione delle tutele conseguibili dal lavoratore nell’area di applicazione dell’art. 18 l. 20.5.1970, n. 300).
L’analisi e la valutazione delle misure di riordino delle tipologie di lavoro subordinato flessibile introdotte dalla l. n. 92/2012 devono dunque essere anzitutto condotte alla luce delle finalità espresse perseguite dal legislatore, tenendo naturalmente presente quella che la stessa relazione con la quale il Ministro del lavoro ha presentato le linee generali della riforma definisce «la forte e inscindibile connessione sistemica» tra le sue parti2: la rivisitazione della normativa sulla flessibilità in entrata (su entrambi i versanti dei rapporti di lavoro subordinato e autonomo); la riscrittura dell’art. 18 st. lav. e, più in generale, l’intervento sulla disciplina sostanziale e processuale del licenziamento e della cessazione del rapporto di lavoro; la complessiva revisione degli ammortizzatori sociali in collegamento con la riapertura della delega per la riforma dei servizi per l’impiego e delle politiche attive (v. Punti di forza e criticità della riforma).
L’intervento sulle tipologie contrattuali di lavoro subordinato ha un’incidenza diseguale sulle stesse. Le innovazioni di maggior impatto sono senza dubbio quelle riguardanti il contratto a tempo determinato, con effetto di trascinamento sulla somministrazione a termine3. Considerate isolatamente, tali misure appaiono tutt’altro che coerenti con l’obiettivo prioritario di fare del contratto a tempo indeterminato la forma comune di rapporto di lavoro ed, anzi, la tipologia contrattuale «dominante».
Tale giudizio critico può, peraltro, essere stemperato (senza, tuttavia, poter essere del tutto superato) in quell’ottica di valutazione sistematica cui, come detto, occorre affidare ogni più ponderata considerazione sull’effettivo grado di coerenza tra le innovazioni normative introdotte dalla legge e le finalità politico-sociali dichiaratamente perseguite dal legislatore. E in tale ottica, la promozione della instaurazione di rapporti di lavoro stabili, secondo lo schema prevalente del contratto a tempo indeterminato, può dirsi coerentemente perseguita, nell’ambito delle misure cui è dedicata questa analisi, sia dalle norme sull’apprendistato, sia da quelle sul part-time e sul lavoro intermittente. D’altra parte, tale finalità è affidata, all’interno del complessivo compromesso politico e sindacale che sorregge l’impianto della riforma, oltre che (indirettamente) all’allentamento della rigidità in uscita con la sofferta e problematica revisione dell’art. 18 st. lav.4, al significativo inasprimento delle condizioni di utilizzo del lavoro a progetto e, più in generale, delle forme di lavoro autonomo (o associato), in cui storicamente si concentrano le sacche più significative di quell’«uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità» presenti nell’ordinamento (art. 1, co. 1, lett. a), che il legislatore ha inteso per l’appunto contrastare5.
2.1 Il contratto a tempo determinato e la somministrazione
La tradizionale aspirazione delle imprese ad una radicale semplificazione e ad un conseguente ampliamento delle condizioni d’uso (quantomeno) del primo contratto a termine ha trovato espressione nella previsione dell’art. 1, co. 9, lett. b), l. n. 92/2012, che nell’aggiungere un co. 1-bis all’art. 1 del d.lgs. 6.9.2001, n. 368, introduce l’innovativa regola della a-causalità del «primo rapporto di lavoro a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi, fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato» ex art. 20, co. 4, d.lgs. 10.9.2003, n. 276. Il requisito causale e giustificativo consistente nella specifica individuazione delle ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo, quale generalmente imposto dal primo comma dell’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, non è dunque richiesto nella ipotesi di primo rapporto di lavoro a termine, ovvero in quella di prima missione nell’ambito di una somministrazione a tempo determinato, tra un (qualunque) datore (o utilizzatore) e un lavoratore, qualunque sia la categoria di appartenenza o le mansioni a questi assegnate, purché la durata del rapporto non ecceda i dodici mesi. Se tra le parti non sono intercorsi altri rapporti di lavoro (di qualsivoglia natura, stante la formula ampia e volutamente indeterminata della legge)6 e non si superi il detto termine massimo di durata, il primo contratto è validamente stipulato (naturalmente sempre in forma scritta) a tempo determinato senza alcun onere giustificativo e, dunque, senza alcuna possibilità di controllo giudiziale sulla effettiva ricorrenza di ragioni oggettive.
Il (primo) contratto a termine infra-annuale viene pertanto definitivamente liberalizzato (insieme alla prima missione di pari durata nell’ambito d’una somministrazione a tempo determinato)7, con una previsione ad amplissimo spettro applicativo che, sia pure entro i limiti indicati8, supera, una volta per tutte, l’impostazione della stessa riforma del 2001, la quale aveva voluto affidare l’allargamento delle condizioni d’uso di tale tipologia flessibile par excellence di lavoro subordinato alla causale giustificativa, generale e «atipica», delle ragioni tecnico-organizzative di natura oggettiva, peraltro subito rivelatasi fonte di incertezze e controversie interpretative9. Ora, nel novellato impianto dell’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, questa formula giustificativa rimane, sì, la regola generale (essendo la neointrodotta previsione di cui al co. 1-bis derogatoria rispetto ad essa), ma è facile immaginare che il nuovo contratto a termine a-causale non superiore a dodici mesi sia destinato a divenire lo strumento principale di accesso a tale tipologia contrattuale, lasciandosi largamente preferire anche alla ipotesi alternativa individuata, con rinvio alla contrattazione collettiva, dalla seconda parte del medesimo art. 1, co. 1-bis, così come inserito dall’art. 1, co. 9, lett. b), l. n. 92/201210.
D’altra parte, la prevedibile opzione elettiva per tale fattispecie d’ingresso del lavoratore in azienda incentiverà anche l’intensificazione dei processi di turn-over e di sostituzione, alla scadenza del contratto o della missione, dei prestatori di lavoro assunti o somministrati a tempo determinato, specie ove si tenga conto che un indiretto incentivo in tal senso deriva anche da altre innovazioni della l. n. 92/2012, pur introdotte al dichiarato fine di ridurre i fenomeni di precarizzazione e di abuso nella successione di rapporti a termine. Spingeranno, infatti, con ogni probabilità, in questa stessa direzione, sia la norma che impone di considerare, ai fini del computo del periodo massimo di 36 mesi di cui all’art. 5, co. 4-bis, d.lgs. n. 368/2001, anche i periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti svolti dal lavoratore nell’ambito di una somministrazione a tempo determinato (art. 1, co. 9, lett. i, l. n. 92/2012), sia la nuova disciplina (di cui alla precedente lett. g) sugli intervalli temporali minimi nei rinnovi contrattuali, i quali vengono sensibilmente aumentati (rispettivamente a sessanta e novanta giorni, a seconda che si tratti di contratti fino a sei mesi ovvero di durata superiore)11.
Sembra pertanto corretto ipotizzare che l’impatto complessivo di tali novità legislative consisterà, a dispetto dell’asserito intento di fare di quello a tempo indeterminato il contratto «dominante»12, in un forte incentivo, per le imprese (che lo vedono solo in parte ridimensionato dall’aumento del carico contributivo)13, all’utilizzo, in sede di prima assunzione, di tale ipotesi di contratto a termine liberalizzato, con ulteriore intensificazione delle dinamiche di turn-over (e, dunque, di precarizzazione della forza-lavoro coinvolta) al fine di massimizzare le opportunità offerte dal nuovo co. 1-bis dell’art. 1 d.lgs. n. 368/2001. Col che, potrebbe anche soggiungersi come un assetto regolativo del genere, oltre che un problema di coerenza con le finalità generali della riforma, possa sollevare, quantomeno in astratto, anche una questione di compatibilità con i vincoli derivanti dalla direttiva 1999/70/CE, cui come noto il d.lgs. n. 368/2001, come ora novellato dalla l. n. 92/2012, dà attuazione nell’ordinamento interno.
Sennonché risulta oggi difficile, alla luce della evoluzione della giurisprudenza comunitaria e nazionale14, accreditare le norme della direttiva europea (ed in particolare la clausola sulla repressione degli abusi «di successione» nell’utilizzo del contratto a termine e quella sul principio di «non regresso») di una concreta valenza preclusiva rispetto alle nuove opzioni regolative della l. n. 92/2012, qui considerate. Può infatti sostenersi che l’eventuale regresso nel livello generale di tutela già garantito dal d.lgs. n. 368/2001, che possa in ipotesi specificamente addebitarsi alla nuova fattispecie di contratto a termine a-causale introdotta con il co. 1-bis dell’art. 1, oltre che riguardare soltanto la prima assunzione a tempo determinato15, trovi comunque legittimazione16, da un lato, nelle finalità di politica sociale ed occupazionale autonomamente perseguite dal legislatore nazionale oltre le previsioni della direttiva (e in adesione, oltretutto, a raccomandazioni di policy esse stesse di provenienza europea) e, dall’altro, nel complessivo effetto di riequilibrio, e quindi di «compensazione», che – in subiecta materia – deriva dalle disposizioni con cui la stessa l. n. 92/2012 irrigidisce la normativa sul contratto a termine in chiave anti-abusiva ovvero rafforza le garanzie in favore del prestatore di lavoro assunto con tale tipologia contrattuale.
Va senz’altro annoverata in tale ultima categoria, oltre alle già viste disposizioni di cui all’art. 1, co. 1, lett. g) e i)17, l’importante previsione (contenuta nell’art. 1, co. 11, l. n. 92/2012) che innalza a centoventi giorni il termine di decadenza (prima di soli sessanta giorni) per la impugnazione stragiudiziale del termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro nei casi previsti dall’art. 32, co. 3, l. 4.11.2010, n. 18318. L’allungamento del termine per l’impugnazione stragiudiziale mette opportunamente al riparo la norma dai dubbi di legittimità costituzionale da molti prospettati alla luce degli artt. 3 e 24 Cost., in quanto sottrae il lavoratore, che abbia interesse a contestare la legittimità del termine apposto al contratto ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001, al dilemma se avanzare la relativa pretesa quando ancora il datore di lavoro possa offrirgli una riassunzione, sia pure a tempo determinato. La combinata, sensibile elevazione del termine per la prima impugnativa contrattuale in sede stragiudiziale e dell’intervallo minimo tra una assunzione a tempo determinato e l’altra sembra invero poter scongiurare i dubbi sollevati sotto questo profilo, restituendo al lavoratore una effettiva libertà di scelta in ordine alla attivazione dei mezzi di tutela garantitigli dall’ordinamento nelle ipotesi in rilievo.
Deve invece ritenersi di contenuto essenzialmente confermativo dell’assetto normativo ormai consolidatosi dopo l’intervento della Corte costituzionale, (C. cost.,11.11.2011, n. 303)19 la disposizione che – superando ogni residuo dubbio o dissenso ermeneutico in argomento (in adesione all’orientamento prevalente in giurisprudenza)20 – interpreta autenticamente il disposto dell’art. 32, co. 5, l. n. 183/2010, statuendo che esso va inteso nel senso che l’indennità forfettaria ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, incluse le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.
2.2 Il contratto a termine nelle imprese start-up
Si iscrive in una linea di sostanziale liberalizzazione del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato anche la più recente previsione di cui all’art. 28 del d.l. 18.10.2012, n. 179, recante Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese. La previsione – che costituisce una delle più significative misure introdotte al fine di favorire la nascita e lo sviluppo di imprese start-up innovative – consente infatti a queste ultime di procedere alla assunzione a termine dei propri dipendenti (potenzialmente, di tutti) per lo svolgimento di attività inerenti o strumentali all’oggetto sociale delle stesse, a prescindere dal rispetto dei presupposti giustificativi contemplati, in via generale, dall’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, oltre che in deroga ai vincoli e ai limiti stabiliti dall’art. 5 dello stesso decreto.
L’art. 28 del d.l. n. 179/2012 prevede, infatti, che, per un periodo di 4 anni dalla data di costituzione di una start-up innovativa, così come definita dal precedente art. 25, le ragioni giustificative di cui all’art. 1, co. 1, del d.lgs. n. 368/2001 si intendono sussistenti per il solo fatto che le attività dedotte nel contratto di lavoro a tempo determinato ineriscano o siano semplicemente strumentali all’oggetto sociale dell’impresa. Questo significa che i presupposti giustificativi oggettivi richiesti in generale dall’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 si considerano soddisfatti, senza possibilità di controllo del giudice in ordine alla effettiva ricorrenza di una esigenza organizzativa o produttiva di carattere temporaneo, alla sola condizione che le mansioni del lavoratore assunto a tempo determinato rientrino, anche indirettamente, nell’oggetto sociale della start-up. Con l’ulteriore conseguenza che il perimetro di tale fattispecie di assunzione a termine sostanzialmente (ancorché parzialmente) liberalizzata quoad causam andrà a coincidere con i confini della nozione di impresa start-up innovativa delineata dall’art. 25 del d.l. n. 179/2012. E poiché si tratta di una nozione piuttosto ampia ed articolata, capace di contenere una vasta gamma di attività, le potenzialità di utilizzo di questa nuova fattispecie di lavoro subordinato a tempo determinato appaiono significative.
La tecnica utilizzata dall’art. 28, co. 2, d.l. n. 179/2012 è in certo modo intermedia tra quella della pura e semplice liberalizzazione, ora prevista dal nuovo co. 1-bis del d.lgs. n. 368/2001 per il primo contratto a termine a-causale non superire ai dodici mesi, e quella della tipizzazione di un presupposto giustificativo ad hoc, riferito al settore economico o alla natura della attività dell’impresa datrice di lavoro, come avviene con la disciplina dettata dall’art. 2 dello stesso decreto per il trasporto aereo, i servizi aeroportuali e quelli postali. Il risultato è comunque assai vicino a quello di una vera e propria liberalizzazione del contratto a termine, sia pure con il limite (che è ad un tempo soggettivo ed oggettivo) derivante dalla definizione di impresa start-up innovativa (con la coerente conseguenza, prevista dal co. 9 dell’art. 28, che qualora la datrice di lavoro non possegga i requisiti prescritti dal co. 2 dell’art. 25 del d.l. n. 179/2012, il contratto di lavoro a termine da essa stipulato si considererà a tempo indeterminato, ritrovando piena applicazione le disposizioni derogate del d.lgs. n. 368/2001).
Il contratto a tempo determinato di cui all’art. 28, co. 2, d.l. n. 179/2012 può essere stipulato per una durata minima di sei mesi ed una massima di trentasei (come stabilisce espressamente il co. 3 della medesima disposizione). Entro il predetto termine di durata massima, più successivi contratti di lavoro a tempo determinato potranno essere stipulati, purché come ovvio sempre per lo svolgimento di attività inerenti all’oggetto sociale della start-up, senza l’osservanza dei termini previsti dall’art. 5, co. 3, d.lgs. n. 368/2001, essendo espressamente consentita la stipula in successione senza soluzione di continuità. Il co. 3 dell’art. 28 consente, altresì, di derogare allo stesso limite massimo di durata di 36 mesi, stabilendo che un ulteriore successivo contratto a termine tra gli stessi soggetti (sempre per lo svolgimento delle attività di cui al co. 2) possa essere stipulato per la durata residua massima di cui al co. 1 (che, come visto, è di quattro anni), alla sola condizione che la stipulazione avvenga presso la competente Direzione territoriale del lavoro.
Il superamento, per effetto d’una successione di contratti stipulati tra le stesse parti anche ai sensi del d.lgs. n. 368/2001, dei predetti termini di durata massima complessiva comporterà la trasformazione del contratto a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, secondo i comuni principi, quali peraltro opportunamente ribaditi dall’art. 25, co. 4, d.l. n. 179/2012. Anche la prosecuzione o il rinnovo oltre la durata massima indicata produrrà lo stesso effetto di trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato (che il legislatore contempla espressamente, col co. 5 dell’art. 28, pure per la diversa ipotesi in cui le parti stipulino, per aggirare i predetti limiti, contratti di collaborazione privi dei caratteri della prestazione d’opera o professionale).
2.3 L’apprendistato e il contratto di inserimento
Le poche norme che la l. 92/2012 detta in materia di contratto di apprendistato, istituto da poco organicamente riordinato nel t.u. approvato con il d.lgs. 14.9.2011, n. 16721, si lasciano più facilmente ricondurre all’obiettivo, esplicitato dalla già evocata lett. b) del primo comma dell’art. 1, di fare di questa classica tipologia speciale22 di lavoro subordinato la modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, concorrendo, in tal modo, alla più generale finalità di innalzamento dell’occupazione stabile nella forma comune del rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Qui, ancor più, forse, che per altre parti della riforma, i dubbi riguardano, piuttosto, non tanto la coerenza astratta con le finalità formalmente dichiarate dal legislatore, quanto la effettiva capacità delle nuove misure da questo introdotte di stimolare la diffusione di tale forma di impiego e, con essa, l’innalzamento del tasso di occupazione giovanile, mai così depresso, ora che il morso della crisi economica si fa sentire con tutta la sua forza lacerante sulla carne viva del tessuto sociale del Paese. Dubbi, questi, più che fondati, ove si osservino con realismo i dati disponibili23, i quali squadernano trend negativi difficilmente reversibili nel perdurare della recessione, e sui quali non si fatica a prevedere una ben scarsa incidenza delle nuove misure regolative.
La l. n. 92/2012 lascia immutata la tripartizione interna alla figura contrattuale – quale recentemente riarticolata dal t.u. in apprendistato, rispettivamente, per la qualifica e per il diploma professionale, professionalizzante e di alta formazione e di ricerca – e interviene con puntuali disposizioni, volte a incentivare o rafforzare, nelle intenzioni del legislatore, un uso virtuoso dell’istituto. Oltre che a tali misure, il potenziamento dell’apprendistato, in particolare nella sua specie dominante del contratto di mestiere, viene affidato, in via indiretta, alla abolizione della fattispecie confinante, e parzialmente concorrente, del contratto di inserimento24, l’unica tipologia di lavoro flessibile a subire una totale espunzione dall’ordinamento per effetto delle riforma25.
La prima di tali misure ripristina, a garanzia della serietà e della effettività dei contenuti formativi del contratto, una durata minima legale dell’apprendistato26, che viene fissata in sei mesi27, per tutte le tipologie di cui al t.u. (con la sola eccezione delle attività di natura stagionale)28, dall’art. 1, co. 16, lett. a), l. n. 92/2012, che introduce un’apposita lett. a-bis nel corpo dell’art. 2, co. 1, d.lgs. n. 167/2011.
Anche il secondo intervento di modifica ripristina, in buona sostanza, per l’apprendistato, una regola da tempo presente nell’ordinamento29, stabilendo che in tanto il datore di lavoro (che occupi alle proprie dipendenze almeno dieci lavoratori) è autorizzato a procedere a nuove assunzioni di apprendisti, in quanto abbia soddisfatto l’onere di mantenere in servizio almeno il 50% dei lavoratori assunti con tale tipologia contrattuale nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, proseguendo il rapporto di lavoro con gli stessi alla scadenza del relativo periodo di formazione (art. 1, co. 16, lett. d, l. n. 92/2012, che aggiunge i co. 3-bis e 3-ter all’art. 2 del d.lgs. n. 167/2011). Dal computo della indicata percentuale – che nei primi tre anni dalla data di entrata in vigore della legge viene fissata nella inferiore misura del 30% (art. 1, co. 19, l. n. 92/2012) – sono esclusi, per espresso disposto del nuovo co. 3-bis dell’art. 2, d.lgs. n. 167/2011, i rapporti di lavoro cessati per recesso durante il periodo di prova, per dimissioni ovvero per licenziamento per giusta causa (ma non, irragionevolmente, stando alla lettera della disposizione, che replica peraltro sul punto la previsione già dettata per il contratto di inserimento, quelli risolti dal datore di lavoro con preavviso per giustificato motivo soggettivo). La legge, peraltro, autorizza comunque l’assunzione di un ulteriore apprendista, sia nel caso in cui non venga soddisfatta la prescritta percentuale, sia in quello di totale mancanza di conferma degli apprendisti pregressi.
Nel caso in cui, fermo l’appena visto margine di tolleranza, il datore di lavoro non rispetti l’anzidetta percentuale, gli apprendisti assunti in violazione del limite sono considerati lavoratori subordinati a tempo indeterminato, con ordinario rapporto di lavoro, sin dalla data di costituzione del rapporto medesimo (art. 2, co. 3-bis, ultima parte, d.lgs. n. 167/2011, come aggiunto dall’art. 19, co. 1, lett. d, l. n. 92/2012). La sanzione della riqualificazione del contratto di apprendistato, che è già un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (art. 1 d.lgs. n. 167/2011), in un ordinario rapporto di lavoro soggetto alla comune disciplina (anche per gli aspetti contributivi e previdenziali) al di fuori delle speciali disposizioni di cui al t.u., è coerente con la natura del vincolo posto dalla legge.
La riforma introduce certamente un irrigidimento rispetto alla normativa previgente, riducendo di fatto – come è stato notato – la stessa libertà di licenziare ad nutum al termine del periodo di formazione30; tuttavia, il vincolo, inapplicabile ai datori di lavoro di minori dimensioni, pare modulato in termini tali da salvaguardare i margini di flessibilità richiesti dalle imprese, bilanciando in maniera equilibrata le diverse istanze in rilievo e, al fondo, le finalità, ad un tempo formative ed occupazionali, che connotano la speciale tipologia contrattuale31.
Una ratio simile32 sembra anche sorreggere la disposizione che esclude la possibilità di ricorrere alla somministrazione a tempo determinato per gli apprendisti (art. 1, co. 16, lett. c, l. n. 92/2012, che modifica in tal senso l’art. 2, co. 3, d.lgs. n. 167/2011).
Uno scopo eminentemente promozionale ha, invece, la norma che, a decorrere dall’1.1.2013, innalza, onde consentire un maggior numero di assunzioni con tale schema contrattuale, il rapporto tra apprendisti e lavoratori specializzati all’interno delle aziende di maggiori dimensioni33. Resta ferma, per i datori di lavoro che non abbiano alle proprie dipendenze lavoratori qualificati o specializzati, o che comunque ne abbiano in numero inferiore a tre, la facoltà di assumere apprendisti in numero non superiore a tre unità, mentre per le imprese artigiane continua a trovare applicazione l’art. 4 l. 8.8.1985, n. 443.
Riveste, infine, una minore valenza di chiarimento di tipo interpretativo la disposizione34, dettata dall’art. 1, co. 16, lett. b), l. n. 92/2012, che, modificando il testo del co. 1, lett. m), primo periodo, art. 2, d.lgs. n. 167/2011, precisa che, durante il periodo di preavviso di recesso dal rapporto di lavoro con l’apprendista ai sensi dell’art. 2118 c.c., continua a trovare applicazione la disciplina del contratto di apprendistato.
2.4 Il contratto a tempo parziale e il lavoro intermittente
Sostanzialmente tutte di segno riduttivo appaiono, viceversa, le modifiche apportate alla disciplina del contratto a tempo parziale e del lavoro intermittente, in quanto dirette a restringere i margini di flessibilità già ricollegati a tali tipologie contrattuali dall’ordinamento.
Sul part-time, che aveva da poco visto crescere la sfera di utilizzo flessibile del rapporto (a beneficio del datore di lavoro) con le previsioni dell’art. 22, co. 4, l. 12.11.2011, n. 183, la l. n. 92/2012 interviene – parcamente ma incisivamente – con l’art. 1, co. 20, rinnovando una tecnica regolativa già utilizzata dal testo originario del d.lgs. 25.2.2000, n. 61, prima delle modifiche introdottevi dal d.lgs. n. 276/2003. La norma interviene, infatti, sulla disciplina delle clausole elastiche e flessibili ripristinando – sia pure in forme e sotto condizioni diverse da quelle originarie35 – una facoltà di revoca o modifica del consenso ad esse prestato da parte del lavoratore (cd. ius poenitendi).
Il nuovo numero 3-bis del co. 7 dell’art. 3 del d.lgs. n. 61/2000, aggiunto dalla legge di riforma, rimanda ora in primo luogo ai contratti collettivi la fissazione di condizioni e modalità che consentano al lavoratore di richiedere l’eliminazione ovvero la modifica delle clausole flessibili ed elastiche (lett. a del co. 20 dell’art. 1). Contestualmente, la lett. b) del medesimo co. 20 dell’art. 1 (integrando il testo del co. 9 dell’art. 3 d.lgs. n. 61/2000) attribuisce direttamente un tale diritto potestativo di revoca o modifica al lavoratore studente, a quello che risulti affetto da patologia oncologica (propria o dei congiunti) ed ai prestatori di lavoro genitori, anche adottivi (ovvero affidatari), di figli disabili o minori di 13 anni.
Più incisive – sempre nel senso della riduzione della sfera di flessibilità goduta dal datore di lavoro nell’ambito di un rapporto ritenuto fortemente precarizzante36 – risultano le modifiche in tema di lavoro intermittente. L’art. 1, co. 21, lett. a), n. 1, e lett. c), l. n. 92/2012 abroga, anzitutto, le previsioni dell’art. 37, d.lgs. n. 276/2003, che consentivano senz’altro il ricorso al lavoro intermittente per prestazioni da rendersi il fine settimana ovvero nei periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie e pasquali, limitando il diritto alla percezione della indennità di disponibilità solo ai casi di effettiva chiamata da parte del datore di lavoro. D’ora in poi, starà alle eventuali previsioni dei contratti collettivi a ciò abilitati dall’art. 34 del d.lgs. n. 276/2003 contemplare questa possibilità di utilizzo della tipologia contrattuale in esame. Resta infatti in generale affidato al contratto collettivo il compito di individuare le esigenze che giustificano il ricorso al lavoro a chiamata, anche per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno (art. 34, co. 1, d.lgs. n. 276/2003)37.
La legge continua invece a regolare direttamente le ipotesi nelle quali il ricorso al lavoro a chiamata è giustificato, ratione personae, da ragioni di tipo soggettivo, attinenti, cioè, alla qualità dei prestatori di lavoro utilizzabili in tale tipo contrattuale. Anche a tale riguardo, peraltro, la l. n. 92/2012 introduce rilevanti novità, modificando profondamente la platea di soggetti impiegabili col job on call. Viene ora previsto (art. 1, co. 21, lett. a, n. 2, l. n. 92/2012, che sostituisce l’art. 34, co. 2, d.lgs. n. 276/2003), con sensibile riduzione del campo di applicazione soggettivo del lavoro intermittente, che, ai fini della stipulazione del contratto, il lavoratore debba soddisfare uno dei seguenti requisiti anagrafici: non aver compiuto i 24 anni38 ovvero avere più di 55 anni (a prescindere dal fatto che il soggetto percepisca o meno un trattamento pensionistico).
È infine ispirata ad una ratio di contrasto del lavoro nero un’ulteriore innovazione introdotta dalla l. n. 92/2012 in tema di lavoro intermittente, pure essa ascrivibile alla medesima linea di complessivo irrigidimento della relativa disciplina. L’art. 1, co. 21, lett. b), nell’aggiungere un co. 3-bis all’art. 35, d.lgs. n. 276/2003, introduce, infatti, a carico del datore di lavoro, un nuovo obbligo di comunicazione, sia pure da assolvere in forme snelle e semplificate39, alla Direzione territoriale del lavoro competente, prevedendo, in caso di sua violazione, una rigorosa sanzione amministrativa40. Si prevede, in particolare, che prima dell’inizio della prestazione lavorativa, ovvero di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a trenta giorni, il datore di lavoro è tenuto a comunicarne la durata alla Direzione territoriale del lavoro. Come chiarito dal Ministero del lavoro41, anche se effettuata lo stesso giorno in cui viene resa la prestazione lavorativa, la comunicazione deve comunque intervenire prima dell’effettivo inizio della stessa. La comunicazione, inoltre, potrà essere modificata o annullata dal datore attraverso l’invio, con le stesse modalità semplificate sopra ricordate, di una comunicazione di rettifica da inviare sempre prima dell’inizio della prestazione ovvero, nel caso in cui il lavoratore non si presenti, «entro le 48 ore successive al giorno in cui la prestazione doveva essere resa»42.
La l. n. 92/2012 rimodula la disciplina delle tipologie flessibili di lavoro subordinato introducendo un mix complesso ed internamente piuttosto articolato di misure. Se nel caso del contratto a termine (e della somministrazione a tempo determinato), anche per compensare il ridimensionamento degli iniziali propositi di drastica riduzione delle tutele contro il licenziamento sprovvisto di giustificazione (in specie oggettiva) nell’area di applicazione dell’art. 18 st. lav., il senso complessivo dell’intervento normativo è nella direzione di un significativo ampliamento delle condizioni d’uso della tipologia contrattuale, nel caso delle altre fattispecie incise dalla riforma appare invece più netta la scelta per un contenimento, più o meno significativo, degli spazi di flessibilità per le imprese, con correlata promozione delle forme «stabili» di impiego.
Il mix di incentivi e disincentivi è tuttavia complesso, e i supposti trade-off tra flessibilità e sicurezza, realizzati con il riproporzionamento e il ribilanciamento delle tutele, vanno valutati sia in una logica sistemica d’insieme, sia con riguardo alle singole tipologie contrattuali. Un giudizio complessivo non può, tuttavia, fare a meno di rilevare che la misura della flessibilità in entrata nel mercato del lavoro italiano rimane elevata, restando ampia «la possibilità per le imprese di effettuare quel vero e proprio shopping contrattuale»43, tra i diversi sottotipi legali tuttora generosamente offerti dall’ordinamento, che ha caratterizzato le dinamiche regolative del nostro sistema soprattutto nell’ultimo decennio. L’obiettivo di de-segmentare il mercato del lavoro italiano, riducendone i dualismi in una logica di maggiore inclusione nella promozione di opportunità di occupazione stabile anche per le categorie più deboli, rimane, da questo punto di vista, traguardo ambizioso, che la crisi economica che colpisce il Paese allontana sempre di più, aumentando, nell’osservatore appena disincantato, la consapevolezza che il suo ipotetico e improbabile raggiungimento non dipende che in misura assai marginale dai pregi o dai difetti della nuova riforma.
1 Caustico sul «malvezzo del legislatore di proclamare i propri fini in apposite disposizioni» Vallebona, A., La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012, 10, ove una severa critica sulla coerenza tra tali enunciazioni di scopo e le effettive scelte normative risultanti dal complesso, e a tratti involuto, articolato della legge. Si muove sul filo dell’ironia il commento di Carinci, F., E tu lavorerai come apprendista (L’apprendistato da contratto «speciale» a contratto «quasi-unico»), in WP CSDLE Massimo D’Antona. IT-145/2012, 83, il quale nota come l’adesione alla prassi d’inserire in esergo l’enunciazione espressa dei fini perseguiti, nella l. n. 92/2012, entrata in vigore nel pieno della crisi economica e sociale forse più grave del Paese dal dopoguerra a oggi, rischi, nel migliore dei casi, di apparire «declassata da programmatica a meramente propiziatoria».
2 La riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, presentata dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Prof.ssa Elsa Fornero, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, Prof. Mario Monti, al Consiglio dei ministri del 23.3.2012 e approvata dallo stesso nella medesima seduta, 4.
3 Per una compiuta analisi d’insieme ante-riforma cfr. Ciucciovino, S. Il sistema normativo del lavoro temporaneo, II ed., Torino, 2008, nonché Franza, G., Il lavoro a termine nell’evoluzione dell’ordinamento, Milano, 2010.
4 È certamente questo il profilo centrale ed anche simbolicamente qualificante della «riforma Fornero» e, insieme, quello più problematico per le tante incertezze interpretative ed applicative che si preannunciano intorno al nuovo testo dell’art. 18 st. lav.
5 È sostanzialmente assente, invece, nel disegno riformatore attuato dalla l. n. 92/2012, al di là della suggestione offerta dal richiamo al «contratto dominante», la prospettiva di riforma nota anche al largo pubblico con la evocativa formula del «contratto unico», diffusa in Italia principalmente sulla scia del successo del pamphlet di Boeri, T.-Garibaldi, P., Un nuovo contratto per tutti, Milano, 2008. Sulla ipotesi del contratto unico – anche nella variante «radicale» proposta da Pietro Ichino nel d.d.l. AS 1481 del 25.3.2009 – v., per tutte, le considerazioni critiche di Carinci, F., «Provaci ancora, Sam»: ripartendo dall’art. 18 dello Statuto, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 3 ss.
6 In tal senso anche Falasca, G., Sul contratto a termine la colpa della «precarietà», in De Cesari, M.C.-Micardi, F., a cura di, La riforma del lavoro, Milano, 2012, 12-13, che esclude la legittimità del ricorso al contratto a termine a-causale «in ogni caso in cui tra le parti sia stata in precedenza instaurata una relazione lavorativa, tramite rapporti diversi dal contratto a tempo determinato». In senso contrario v. invece Vallebona, A., La riforma, cit., 19, secondo cui il contratto a termine rimane «primo e, quindi, non richiede giustificazione, se il precedente rapporto tra le stesse parti non era a termine, come nel caso del contratto “dominante” a tempo indeterminato, anche parziale, dell’apprendistato e del lavoro intermittente» (con analoga, e parimenti non condivisibile, conclusione per il lavoro autonomo, anche parasubordinato).
7 È opportuno rammentare che una previsione di analogo segno liberalizzante era stata da poco introdotta, per la somministrazione a tempo determinato di lavoratori considerati «svantaggiati», dall’art. 4, co. 1, lett. c), d.lgs. 2.3.2012, n. 24 (che ha aggiunto un co. 5-ter all’art. 20 d.lgs. n. 276/2003). Sotto tale profilo, la l. n. 92/2012 (con l’art. 1, co. 10, lett. a e c) è piuttosto intervenuta per limitare i margini di flessibilità delle imprese, riaffermando un obbligo di piena parità di trattamento retributivo con i dipendenti dell’utilizzatore, per ogni tipo di somministrazione, in favore dei lavoratori svantaggiati.
8 Cui si aggiunge la preclusione della prorogabilità del contratto (art. 1, co. 9, lett. d, l. n. 92/2012, che introduce un co. 2-bis nel testo dell’art. 4 d.lgs. n. 368/2001). Occorre del resto ritenere che la contrattazione collettiva possa sempre fissare, anche per questa nuova ipotesi, i limiti quantitativi che è abilitata ad introdurre in via generale, tranne che per le ipotesi contemplate dall’art. 10, co. 7, d.lgs. n. 368/2001, alle assunzioni a tempo determinato.
9 Risolte, peraltro, dalla prevalente giurisprudenza – in una linea di sostanziale continuità interpretativa rispetto alla abrogata l. 18.4.1962, n. 230 – nel senso della perdurante «eccezionalità» della clausola appositiva del termine e, quindi, sotto pena di «conversione» in rapporto a tempo indeterminato, del necessario carattere temporaneo delle relative esigenze giustificative: cfr. Cass., 21.5.2008, n. 12985; Cass., 18.1.2010, n. 629; Cass., 23.11.2010, n. 23684; Cass., 11.5.2011, 10346.
10 Il quale demanda ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale il compito di prevedere, in via diretta a livello interconfederale o di categoria e in via (soltanto) delegata ai livelli decentrati, che, in luogo dell’ipotesi in parola, il requisito di cui al co. 1 dell’art. 1 d.lgs. n. 368/2001 non sia richiesto nei casi in cui l’assunzione a termine ovvero la missione nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato sia riferibile ad uno dei processi organizzativi sorretti dalle ragioni individuate dal nuovo testo del successivo art. 5, co. 3 (quale riformulato sub art. 1, co. 9, lett. h, l. n. 92/2012), nel limite complessivo del 6% del totale dei lavoratori occupati nell’unità produttiva. Sulla scarsa appetibilità, per le imprese, di tale ipotesi alternativa v. Vallebona, A., La riforma, cit., 20.
11 Tempera peraltro questa rigoristica innovazione la previsione di cui alla lett. h) del co. 9 dell’art. 1 l. n. 92/2012, la quale, nell’integrare il testo dell’art. 5, co. 3, d.lgs. n. 368/2001, rimette in prima battuta ai contratti collettivi (e, in mancanza di questi, a un decreto del Ministro del lavoro) la facoltà di ridurre, rispettivamente sino a venti e trenta giorni (sia pure nei casi e nei limiti contestualmente previsti), il detto intervallo minimo tra una assunzione a termine e la successiva. Tale facoltà viene ora ulteriormente estesa dall’art. 46 bis, co. 1, lett. a), d.l. 22.6.2012, n. 83 (cd. «Decreto Sviluppo»), convertito, con modificazioni, dalla l. 7.8.2012, n. 134, che rende comunque applicabili i visti termini ridotti alle attività stagionali.
12 Intento, questo, rafforzato, con disposizione peraltro priva di un effettivo valore aggiunto sul piano interpretativo rispetto alla formulazione precedente, dalla riscrittura del comma 01 dell’art. 1 d.lgs. n. 368/2001, alla cui stregua il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato viene, ora, espressamente riconosciuto come «la forma comune di rapporto di lavoro» (art. 1, co. 9, lett. a, l. n. 92/2012).
13 I contratti a tempo determinato (diversi da quelli stagionali, da quelli stipulati per ragioni sostitutive e da quelli conclusi con le pubbliche amministrazioni) sconteranno, infatti, un prelievo aggiuntivo dell’1,4%, destinato a finanziare la nuova Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi) (art. 2, co. 28 e 29, l. n. 92/2012). Anche la somministrazione a tempo determinato viene assoggettata a tale prelievo aggiuntivo, ma in tal caso l’aggravio è compensato dalla riduzione (dal 4 al 2,6 per cento) dell’aliquota contributiva che le agenzie sono tenute a versare ai sensi dell’art. 12, co. 1, d.lgs. n. 276/2003 (art. 2, co. 39, l. n. 92/2012). Onde incentivare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro, l’art. 2, co. 30, l. n. 92/2012 stabilisce che il contributo aggiuntivo venga restituito, nei limiti delle ultime sei mensilità versate dal datore, in caso di trasformazione del contratto a tempo indeterminato, una volta che il lavoratore abbia superato l’eventuale periodo di prova. Va peraltro osservato che il legislatore, sempre in sede di disciplina del finanziamento della nuova indennità di disoccupazione, ha reso onerosa, gravandola di un contributo pari al 50% del trattamento mensile dell’Aspi per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni, qualunque ipotesi di «interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato diversa dalle dimissioni» (e, deve supporsi, dalla morte del prestatore), sia pure prevedendo che nel computo di tale anzianità siano compresi i periodi di lavoro con contratto diverso da quello a tempo determinato, se il rapporto è proseguito senza soluzione di continuità o se si è comunque dato luogo alla restituzione del contributo aggiuntivo di cui all’art. 2, co. 30.
14 Per una aggiornata visione d’insieme della quale v. Brusati, S.- Pizzoferrato, A., a cura di, Il contratto di lavoro a termine. Novità applicative, Torino, 2012.
15 Con conseguente esclusione di qualunque profilo di possibile contrasto con la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva (in tema di divieto di abusi nella successione e nella reiterazione di rapporti a tempo determinato).
16 Con conseguente esclusione di ipotesi di violazione anche della clausola 8.3 della direttiva (sul divieto di regresso generalizzato del livello di tutela garantito dall’ordinamento nazionale).
17 Quelle di cui alle precedenti lettere e) ed f), che modificano l’art. 5, co. 2, d.lgs. n. 368/2001 ed inseriscono un co. 2-bis nella stessa disposizione, sono, invece, di più incerta classificazione, da tale punto di vista. Se infatti, allungando (rispettivamente a trenta e cinquanta giorni) il periodo di tolleranza nel quale, nei casi di prosecuzione di fatto del rapporto, non opera la conversione in contratto a tempo indeterminato (essendo dovuta al prestatore soltanto una maggiorazione della retribuzione), la prima disposizione riduce il livello di tutela del lavoratore – e accresce, di converso, «la protezione del datore di lavoro» (Vallebona, A., La riforma, cit., 23) –, a compensare questo effetto «regressivo» interviene, subito dopo, la seconda (ed invero discutibile) previsione, la quale grava lo stesso datore di un nuovo onere (sanzionato sul piano amministrativo), imponendogli di comunicare al Centro per l’impiego territorialmente competente, entro la scadenza del termine inizialmente fissato, che il rapporto continuerà anche dopo, indicando altresì la durata della prosecuzione.
18 Viene invece ridotto da 270 a 180 giorni, analogamente a quanto vale per le altre ipotesi contemplate dall’art. 6 della l. n. 604/1966, il successivo termine per la proposizione della impugnazione giudiziale.
19 La si veda pubblicata (tra l’altro) in Riv. it. dir. lav., 2012, II, 252 ss., con commenti di Di Paola, L., La Corte costituzionale, il contratto a tempo determinato e la singolare specialità del diritto del lavoro, e di Zappalà, L., La Consulta e la ponderazione degli interessi nel contratto a termine: stabilizzazione versus indennità risarcitoria forfetizzata.
20 Cfr., nel senso ora espressamente recepito dalla norma di interpretazione autentica qui in commento, già Cass., 31.1.2012, n. 1411 e Cass., 2.4.2012, n. 5241, e, in senso contrario (sull’assunto che l’indennità ex art. 32 del «collegato lavoro» avrebbe sostituito integralmente l’ordinario regime risarcitorio solo per il periodo dalla scadenza del termine fino al deposito del ricorso di primo grado), App. Roma, 2.2.2012, n. 267, nonché Trib. Napoli, 16.11.2011, tutte in Mass. giur. lav., 2012, 348 ss., con nota di Vallebona, A., Indennità per termine nullo: riappare il decrepito fantasma dell’uso alternativo del diritto.
21 Sul quale v. Falasca, G., Modifiche in materia di apprendistato, in Il Libro dell’Anno del Diritto 2012, Roma, 2012, 433 ss., e D’Onghia, M., Il Testo Unico sull’apprendistato, in Riv. giur. lav., 2012, I, 211 ss.
22 Sulla questione, a ben vedere di modesto rilievo pratico, se con la nuova disciplina di cui al t.u. del 2011 si sia verificata, per così dire, una «de-specializzazione» di tale tipologia contrattuale, v. Carinci, F., E tu lavorerai come apprendista, cit., 83, il quale prospetta la tesi di un «cambio dell’elemento causale da misto (formazione/retribuzione versus prestazione lavorativa) a puro (retribuzione versus prestazione lavorativa)».
23 Cfr. Varesi, P.A., Il monitoraggio dell’apprendistato: risultati e problemi aperti, in Dir. rel. ind., 2009, 949 ss.
24 V. l’art. 1, co. 14 e 15, l. n. 92/2012, che abrogano gli artt. da 54 a 59 del d.lgs. n. 276/2003, facendo salvi i contratti stipulati sino al 31.12.2012, cui continua a trovare applicazione la vecchia disciplina. L’assunzione agevolata delle categorie di soggetti svantaggiati individuate dall’art. 54, co. 1, d.lgs. n. 276/2003, cui era in buona sostanza preordinato il contratto di inserimento, risulta peraltro solo in parte assorbibile dall’apprendistato, al quale pure possono ora accedere, in forza della previsione di cui all’art. 7, co. 4, d.lgs. n. 167/2011, anche i lavoratori in mobilità, a prescindere dall’età anagrafica.
25 Che per il resto, a dispetto dei baldanzosi propositi semplificatori iniziali del Governo, finisce piuttosto per complicare la frastagliata geografia delle tipologie contrattuali flessibili.
26 Quella di due anni, già prevista per l’apprendistato professionalizzante dall’art. 49, co. 3, d.lgs. n. 276/2003, era stata come noto eliminata dall’art. 23, co. 1, l. 6.8.2008, n. 133 (di conversione del d.l. n. 112 di quello stesso anno), che aveva contestualmente elevato a sei anni la durata massima consentita.
27 Anche una durata minima così contenuta potrebbe peraltro mettere in difficoltà – come nota Carinci, F., E tu lavorerai come apprendista, cit., 85 – i settori dove è particolarmente diffuso il cd. «mini-apprendistato», di durata spesso non superiore ai tre mesi.
28 Per queste, la contrattazione collettiva nazionale è abilitata a consentire la stipulazione di contratti di apprendistato a tempo determinato (art. 4, co. 5, d.lgs. n. 167/2011).
29 V. l’art. 8, co. 6, l. 29.12.1990, n. 407, per il contratto di formazione e lavoro, e l’art. 54, co. 3, d.lgs. n. 276/2003, per quello di inserimento.
30 Per questa notazione v. Carinci, F., op. loc. ultt. citt.
31 Del resto, oneri di prosecuzione del rapporto di lavoro di una percentuale più o meno significativa degli apprendisti assunti erano già largamente presenti nei principali contratti collettivi in materia (v. la rassegna che ne offre Carinci, F., op. ult. cit., 79 ss.).
32 Più che l’esigenza di ripristinare una regola coerente con la natura di contratto a tempo indeterminato dell’apprendistato, come sostiene Vallebona, A., La riforma, cit., 27. Molto critico sulla disposizione, che lascia immutata la facoltà di impiegare gli apprendisti nella somministrazione a tempo indeterminato (v. ora anche l’art. 46 bis, co. 1, lett. b, l. n. 134/2012, che aggiunge una lett. i-ter al co. 3 dell’art. 20 del d.lgs. n. 276/2003), Falasca, G., Nelle imprese maggiori si accettano più apprendisti, in De Cesari, M.C.-Micardi F., a cura di, La riforma del lavoro, cit., 24, che la giudica addirittura «priva di senso».
33 Tale rapporto passa da 1/1 a 3/2, ex art. 1, co. 16, lett. c), l. n. 92/2012, che riscrive il co. 3 dell’art. 2 del t.u. sull’apprendistato. Tale rapporto non può tuttavia superare il 100% per i datori di lavoro che occupano un numero di lavoratori inferiore a dieci unità.
34 Così come scopo simile è ascrivibile all’art. 1, co. 17, della legge, che riformula il testo dell’art. 4, co. 2, d.lgs. n. 167/2011.
35 Sulle quali v., per tutti, anche per la critica all’intervento di cui all’art. 46 d.lgs. n. 276/2003, Voza, R., La destrutturazione del tempo di lavoro: part-time, lavoro intermittente e lavoro ripartito, in Curzio, P., a cura di, Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo 276/2003, Bari, 2004, 237 ss., spec. 245.
36 E per questo abrogato dall’art. 1, co. 45, l. 24.12.2007, n. 247, per poi essere tuttavia subito ripristinato dalla l. n. 133/2008.
37 Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con circ. n. 20/2012, ha chiarito che, ai sensi dell’art. 40, d.lgs. n. 276/2003 (non abrogato dalla l. n. 92/2012), laddove la contrattazione collettiva non sia intervenuta a disciplinare le ipotesi di cui al richiamato art. 34 dello stesso decreto, è possibile ricorrere al lavoro intermittente, in base al d.m. 23.10.2004, in relazione alle attività elencate nella tabella approvata con R.d. n. 2657/1923.
38 In tal caso si prevede, con disposizione evidentemente volta a scongiurare utilizzi abusivi, che le prestazioni contrattuali debbano essere svolte entro il venticinquesimo anno di età del lavoratore.
39 La comunicazione può infatti essere effettuata anche mediante fax, sms o posta elettronica, ovvero con le ulteriori modalità semplificate eventualmente individuate con decreto del Ministro del Lavoro, anche in funzione dello sviluppo delle tecnologie.
40 La legge precisa espressamente che non si applica, nella fattispecie, la procedura di diffida di cui all’art. 13 del d.lgs. 23.4.2004, n. 124.
41 Con circ. n. 18/2012.
42 Cosi la già citata circ. n. 20/2012, 4.
43 Carinci, M.T., Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, relazione al XVII Congresso nazionale dell’Aidlass, «Il diritto del lavoro al tempo della crisi», Pisa, 7-9 giugno 2012, 4 , Giuffrè, Milano 2013.