tirannia
Il governo del tiranno, l’esercizio della tirannide. Il problema della t. appare già ampiamente sviluppato nel pensiero politico greco, e riceve da Aristotele una formulazione di importanza decisiva. Originariamente il termine significava il governo illegittimo di uno solo, poi si allargò a significare ogni governo arbitrario (anche di una parte del popolo, o addirittura della maggioranza). Aristotele definì la t. come degenerazione della monarchia, che ha luogo quando chi governa mira all’utile proprio invece che a quello della collettività (le parallele degenerazioni dell’aristocrazia e della cosiddetta politeia sono l’oligarchia e la democrazia). Definendo in tal modo la t., Aristotele accentuava l’aspetto politico-morale (bontà dell’esercizio del potere) della valutazione, ponendone in seconda linea quello giuridico (legittimità dell’esercizio del potere). Su questa via si posero anche i pensatori romani: Cicerone fece derivare la t. dalla mancanza della «recta ratio imperandi atque prohibendi», concetto che Seneca chiarì e precisò ulteriormente. Nella temperie spirituale dell’impero si affermò l’idea che sono il comportamento personale, la capacità di governo, la dedizione completa alla cosa pubblica ciò che distingue il principe dal tiranno. D’altra parte, divenne fondamentale per la formulazione del problema della tirannide l’idea dell’esistenza dell’eminente principio giuridico della «legge naturale», la cui deliberata violazione costituisce appunto la t., contrapposta alla monarchia, che è invece governo di uno solo conformato alla legge naturale e anche (stante il forte nesso tra i due concetti nel maturo pensiero politico-giuridico romano) alla legge positiva. Tali elementi classici confluirono nella concezione cristiana: la legge naturale, derivando dal volere divino, costituisce un limite invalicabile dal potere. T. è per il cristianesimo violazione della legge naturale e quindi misconoscimento dei doveri che derivano dalla legge divina. Grande importanza assunse intanto nel primo Medioevo l’affermarsi delle concezioni giuridiche barbariche, fondate sul principio della tradizione immemoriale: tiranno è anche colui che deliberatamente viola col suo arbitrio le norme tradizionali che reggono le nazioni. Sorgeva progressivamente il problema, fondamentale nell’elaborazione del pensiero politico tardo-medievale e moderno, della posizione del cittadino di fronte alla tirannia. Una forte corrente di pensiero, fondata sul riconoscimento della origine divina di ogni potere, negava all’individuo e al popolo ogni diritto alla ribellione contro la t.; ma un’altra, fondata sull’illegittimità della t. in quanto governo «ingiusto», si affermò sostenendo la legittimità della ribellione e addirittura la sua doverosità, giungendo fino a teorizzare il tirannicidio (problema già presente nel pensiero antico). S. Gregorio e s. Isidoro avevano sostenuto rispettivamente le due tesi: nel Basso Medioevo, Giovanni di Salisbury fece propria la seconda, mentre s. Tommaso tentava una formulazione più complessa, ritenendo che in ogni caso la punizione del tiranno spetti ad autorità pubbliche. Con il pensiero politico e giuridico del primo Rinascimento (Bartolo da Sassoferrato, Coluccio Salutati), si accentuò la considerazione giuridica del problema della t. e del tirannicidio. Si distinsero due forme di t., definite, in quanto il tiranno opprima i sudditi, t. ex parte exercitio, e in quanto il suo potere manchi di titolo, t. ex defectu tituli. D’altra parte, nell’età dell’affermarsi delle signorie e dei principati e del decadere delle istituzioni comunali, si fece strada presso alcuni (sviluppando gli antichi motivi delle libertà repubblicane e delle virtù civili) un atteggiamento estremista di esaltazione del tirannicidio (Apologia di Lorenzino de’ Medici). La teoria del tirannicidio, fusa con i nuovi motivi della polemica religiosa e politica, sfociò nel maturo Rinascimento e nel Seicento nella dottrina dei monarcomachi (➔ ), i quali, sulla premessa che il principe deve esercitare il suo potere per il bene dei sudditi, concludevano che dove egli manchi a tale compito divenga tiranno e, come tale, possa essere legittimamente ucciso; il «bene dei sudditi» era ora interpretato alla luce delle conseguenze della frattura creata dalla Riforma. Elementi di dottrina monarcomaca si ritrovano in cattolici (specie gesuiti e spagnoli) come J. de Mariana, L. de Molina, F. Suárez, R. Bellarmino. Con lo svolgersi del pensiero politico nel mondo moderno, il problema della t. e del tirannicidio si svuotò sempre più di contenuto di fronte alla maggiore complessità del problema delle garanzie costituzionali, della limitazione dell’assolutismo regio, della formulazione di una concezione liberale dello Stato.