Tiresia
Mitico indovino di Tebe, appare nella tradizione antica - già attestata nell'Odissea (X 492 ss., XI 90 ss.) - come un " profeta glorioso ", cieco e saggio, testimone e interprete delle vicende sanguinose che sconvolgono la stirpe di Edipo e compongono il cosiddetto ciclo tebano.
Nella Tebaide di Stazio, tuttavia, i lineamenti del " senior vates " (IV 443) appaiono deformati e incupiti sino a fargli assumere piuttosto la fisionomia del negromante in un ampio episodio di evocazione infernale (vv. 406 ss.), vero e proprio exploit di manierismo orrifico che ha esercitato una notevole suggestione sui lettori, almeno fino al Tasso. La cecità e le facoltà divinatorie di T., secondo Ovidio, avrebbero origine dal giudizio che egli diede in una disputa sorta fra Giove e Giunone su quale sesso provi maggior piacere nell'amore. Egli fu chiamato a decidere come arbitro perché " Venus erat huic utraque nota ": era infatti stato mutato in femmina per aver percosso con il bastone due serpenti allacciati e solo dopo sette anni, ripetendo il medesimo gesto, aveva recuperato la natura di maschio. T. diede torto a Giunone e la dea, per vendetta, lo rese cieco; Giove a sua volta lo compensò con il dono della profezia (Met. III 316-338).
T. è fra gl'indovini puniti nella quarta bolgia dell'ottavo cerchio (If XX 40-45) e Virgilio lo designa a D. come colui che mutò sembiante / quando di maschio femmina divenne, con una precisa rievocazione del racconto ovidiano.
La condanna di T. è giustificata soprattutto dalle inquietanti caratteristiche che il personaggio aveva assunto nel già ricordato episodio della Tebaide; tuttavia merita osservazione il fatto che nel presentarlo al lettore D. non faccia riferimento al luogo del poema staziano che ne documentava le arti negromantiche ma ricordi la metamorfosi chiaramente ricondotta da Ovidio a un momento anteriore alla sua attività d'indovino e non legata alla materia tebana. È possibile quindi che la disavventura di T., in apparenza non congrua con le motivazioni della sua condanna, apparisse a D. - come del resto lo stesso Ovidio suggerisce - l'evento primo e determinante di una sequenza che attraverso il curioso arbitrato e la ricompensa di Giove lo condusse alla sua colpevole carriera di negromante.
Il nome di T. compare anche in Pg XXII 113 èvvi la figlia di Tiresia, e Teti, in una perifrasi che dovrebbe indicare Manto tra altri ospiti del Limbo.
Il luogo è stato variamente cimentato nel tentativo di eliminare la contraddizione con If XX 52 ss., dove Manto risulta condannata nella bolgia degl'indovini: si è supposto fra l'altro che D. alluda a un'altra figlia di T., di cui però non sembra possa aver avuto notizia dalle fonti a lui note (e in ogni modo la perifrasi presuppone il riferimento più ovvio, al personaggio più immediatamente identificabile qual era appunto Manto). Per tacere di altri interventi (v. per essi la voce MANTO), qui basterà ricordare che coinvolge T. la proposta del Torraca, approvata dal Parodi, secondo cui il verso dovrebbe emendarsi evvi la figlia di Nereo, Teti. Questa lezione peraltro non ha il conforto della tradizione manoscritta e, considerata come pura congettura, riesce scarsamente attendibile per la difficoltà di trovare una spiegazione (paleografica o d'altra natura) al passaggio da Nereo a Tiresia. Per queste ragioni il Petrocchi, esaminata a fondo la questione (cfr. ad l.), mantiene la lezione tràdita e conserva a T. l'onore di una seconda menzione nella Commedia.