TISI, Benvenuto detto Garofalo (Benvenuto Garofalo)
‒ Figlio del «calegario» Pietro del fu Benvenuto Tisi e di Antonia Barbiani del fu Domenico (Cittadella, 1872, p. 11) – e non di Girolama Soriani, come sostenne Girolamo Baruffaldi (1697-1730 ca., 1844-1846, p. 311) –, nacque a Ferrara nel 1481, data riportata nelle Vite giuntine di Giorgio Vasari, che dichiara di essere stato accolto «amorevolmente» dal pittore nei suoi soggiorni ferraresi ed è dunque una fonte primaria (1550 e 1568, 1984). Tuttavia, nonostante dia conto di fatti del tutto verosimili, l’aretino si rivela distratto nel concatenare tra loro dati biografici molto precisi e occasioni d’incontro con significative figure di contemporanei. Vasari informa di almeno due viaggi di studio a Roma, l’uno a diciannove anni nel 1500, l’altro nel 1505, durante il quale Tisi avrebbe visto le opere di Raffaello e Michelangelo (in realtà non certo ultimate), e di un terzo soggiorno, ardentemente desiderato ma mai realizzato. La storiografia ha cercato di precisare i tempi di questi soggiorni.
Il soprannome Garofalo venne dal paese così chiamato, oggi posto sulla sponda veneta del Po, dove i Tisi possedevano certamente investiture di parte ducale ottenute fin dal 1394 dal bisavolo Tisio (Cittadella, 1872, p. 10). Non è accettabile la recente proposta di anticipazione della data di nascita di Benvenuto al 1476 o 1477 (Mattaliano, 1985, p. 170), sia per rispetto della fonte vasariana sia per considerazioni documentarie e stilistiche. È infatti ancora sottoscritta dal padre nel contratto del 30 ottobre 1497 l’iscrizione per tre anni alla bottega di Boccaccio Boccaccino (pp. 170 s.), quando Benvenuto non poteva contare più di diciotto anni, un alunnato che Vasari pone dopo una primissima formazione presso Domenico Panetti, ma in parallelo a imprese di Boccaccio troppo avanzate. Risale a questo momento un certo numero di Madonne con Bambino (tra cui la pala della Scimmia alla National Gallery di Londra) attribuibili su base stilistica proprio allo scorcio del Quattrocento. Nel febbraio del 1500 Boccaccio dovette però allontanarsi da Ferrara accusato di uxoricidio, e non si può escludere che Benvenuto fosse già partito alla volta di Roma, come vorrebbero sia Vasari sia una perduta lettera del 29 gennaio 1499 indirizzata da Boccaccio a Pietro Tisi e denunciante la possibile fuga del giovane alla volta dell’Urbe (Baruffaldi, 1697-1730 ca., 1844-1846, pp. 315 s.; Pattanaro, 1991, pp. 71 s., nota 7). Sfasate e opportunistiche appaiono le informazioni del biografo sulla morte del padre Pietro, deceduto entro l’agosto del 1501 e non negli anni inoltrati del secolo (Vasari, 1550 e 1568, 1984, p. 411); e anche l’affiancamento del giovane Benvenuto a Lorenzo Costa, ammesso dall’aretino, deve essersi svolto a Ferrara anziché a Mantova e in tempi anticipati rispetto al trasferimento di Lorenzo presso i Gonzaga alla morte di Andrea Mantegna nel 1506, come fanno intuire alcuni quadri devozionali di piccolo formato.
Cade il 31 dicembre 1505 il primo pagamento a Garofalo per opere dipinte per la corte (Franceschini, 1997, pp. 622 s.); altri ne seguirono tra il luglio e l’agosto del 1506 per tele eseguite con Ludovico Mazzolino, Michele Coltellini, Niccolò Pisano, Ettore Bonacossi e Domenico Panetti per il soffitto della Torre Marchesana, dove risiedeva Lucrezia Borgia (Venturi, 1894, doc. CXVIII, p. 305). Tisi eseguì forse tra il 1508 e il 1509 il soffitto illusionistico e le lunette della sala del Tesoro nel palazzo del giudice dei savi Antonio Costabili, ispirate al poema Anteros sive de mutuo amore di Celio Calcagnini (Schwarzenberg, 1964), dipinti in collaborazione con altri artisti, tra i quali Cesare Cesariano e Gabriele Bonaccioli, detto il Gabriletto (Pattanaro, 1994 e 2007; Fedozzi - Ghelfi, 2007), e rara testimonianza sopravvissuta di imprese perdute realizzate dallo stesso Benvenuto per la corte nel corso del 1509 (Franceschini, 1997, pp. 707 s.).
Il primo decennio del Cinquecento fu segnato da una serie fortunata di Natività su tavola rivelatrici di una progressiva adesione alla natura giorgionesca, tale da far supporre l’occasione di soggiorni di Garofalo a Venezia, prima dell’interruzione dei contatti con la Serenissima causata dalla guerra cambraica (Longhi, 1934; Bologna, 1955; Sambo, 1983; Ugolini, 1984; Ballarin, 1994-1995). Un chiaro segno di aggiornamento sulla pittura di Raffaello è stato ravvisato a partire dalla Minerva con Nettuno di Dresda (o Allegoria di Alfonso come Nettuno), datata novembre 1512, o dalla Natività di S. Francesco, del luglio del 1513, e dalla Madonna in trono fra i ss. Lazzaro e Giobbe per la parrocchiale di Argenta, dell’ottobre del 1513, così da far pensare a un possibile soggiorno romano nel corso del 1512 o nei primi anni del 1513.
Nel secondo decennio l’artista fu impegnato in molte pale d’altare per famiglie gentilizie e ordini religiosi ferraresi, oggi conservate in gran parte nella Pinacoteca nazionale di Ferrara (da S. Francesco, ancora, la pala dei Suxena, del dicembre del 1514, una data recentemente contestata da Ciammitti, 2017, p. 27; la pala Trotti, del 1517; la Strage degli innocenti, del 1519), alla National Gallery di Londra (da S. Guglielmo, la pala del Baldacchino, documentata tra il 1517 e il 1518) o ancora disseminate in collezioni pubbliche e private romane dopo la devoluzione di Ferrara alla S. Sede (la Visitazione del luglio del 1518, oggi alla Galleria Doria Pamphilj di Roma). Sopravvive anche un certo numero di dipinti religiosi destinati a sedi decentrate del territorio, come Argenta e Castellarano (datati 1513 e 1517), Ariano Polesine (del 1518, oggi a Venezia, Gallerie dell’Accademia). In tutta questa produzione si assiste a una profonda riflessione sulla tipologia della pala, attuata ponendo a confronto i contemporanei esiti di Tiziano, di Fra Bartolomeo (entrambi ingaggiati da Alfonso I fin dal 1516) e di Raffaello, con un graduale aggiornamento sulle opere di Sanzio pervenute alla corte di Ferrara in concomitanza con l’allestimento del camerino delle Pitture del duca negli anni 1517-19.
È assai probabile che Garofalo intraprendesse anche un nuovo viaggio di aggiornamento nell’Urbe intorno al 1518-19, che poté assicurargli la conoscenza diretta della Loggia di Galatea alla Farnesina e delle Logge Vaticane, opere di cui si scorge il riflesso negli affreschi di due sale, eseguiti nel 1519 e nel 1520, al piano terreno del palazzo del Seminario, un tempo abitazione del protonotario apostolico Gerolamo Sacrati, un personaggio che anche Vasari connette a un soggiorno di Benvenuto nell’Urbe, quello collocato erroneamente nel 1505 di cui si è detto più sopra. Allo stesso Sacrati si deve la commissione, nel 1520, della Resurrezione per la chiesa parrocchiale di Bondeno, oggi a Vienna (Kunsthistorisches Museum). Nel corso del 1520 Garofalo fu pagato ripetutamente anche per l’esecuzione di due opere perdute: un Cristo morto sorretto dalla Vergine, in cui venne aiutato dai garzoni Battista de Grifi e Girolamo – quest’ultimo forse Girolamo da Carpi – per la Compagnia della Morte (Cittadella, 1872, p. 38), e un quadro non identificato per la cappella del duca (Menegatti, 2002, p. 183).
Si è risolto solo di recente il problema della cronologia della pala di Costabili, già all’altare maggiore della chiesa di S. Andrea (oggi in Pinacoteca nazionale), e condotta con Dosso Dossi, come aveva bene compreso Roberto Longhi (1934, 1956, pp. 88 e 109, note 157, 158). Essa, solo avviata nel 1513 dai due pittori (Franceschini, 1995), fu poi ripensata e conclusa in forma di polittico tra il 1519-20 e il 1523, data del primo testamento redatto dal committente, morto nel 1527, tenendo forse conto delle istruzioni dell’agostiniano Antonio Meli, presente in città dopo la metà del 1520 e per tutto il 1524 (Ciammitti, 2017, p. 31). Dal settembre del 1522 Garofalo, alla presenza dello stesso Meli, fu anche incaricato di affrescare nel refettorio dell’annesso convento l’Allegoria del Nuovo e del Vecchio Testamento (ora in Pinacoteca) da Costabili, qui ritratto nella scena del Battesimo (Fedozzi, 1998): l’impresa si concluse nel 1523 e dovette assorbirlo a tal punto da lasciare il campo a Dosso nel polittico (Ciammitti, 2017, p. 49; Gheroldi, 2017, pp. 99 s.).
Una lunga serie di opere documenta il pittore in patria per tutto il terzo decennio del secolo, in costante confronto con le opere di Tiziano e di Raffaello presenti in Ferrara e fuori: nel 1522 la Crocefissione per S. Vito (oggi a Brera), nel 1523 il S. Antonio Abate fra i ss. Antonio di Padova e Cecilia per S. Maria Nuova, oggi nella Galleria nazionale di arte antica di Palazzo Barberini a Roma, nel 1524 la pala per S. Silvestro (ora in duomo) e la Preghiera nell’orto oggi a Birmingham, il S. Girolamo di Berlino e l’affresco con la Cattura nell’orto per la cappella Massa in S. Francesco.
I primi segnali del linguaggio postclassico di Giulio Romano, ormai trasferito a Mantova, si ravvisano nella Madonna del parto con il committente Lionello del Pero, per S. Francesco, del 1525-26, ispirata alla Madonna dalla coscia lunga di Raffaello, o il Sacrificio pagano della National Gallery di Londra, del 1526, la Deposizione di S. Antonio in Polesine oggi a Brera, del 1527, e l’Annunciazione di S. Bernardino nella Pinacoteca Capitolina, del 1528, anno siglato anche nel Paesaggio con processione magica della Galleria Borghese, in cui è imprescindibile la conoscenza di opere nello stile di Hieronymus Bosch e di Joachim Patinir (Turner, 1965).
Nel 1528 Benvenuto redasse anche il suo primo testamento, da cui ne apprendiamo la condizione di celibe; nel 1531 battezzò la prima figlia, Antonia, avendo nel frattempo sposato Caterina Scoperti (Cittadella, 1872, p. 41). Del 1530 è l’Apparizione della Vergine a s. Bruno per la Certosa ferrarese, oggi in frammenti a Dresda, nella quale l’artista assume suggestioni da Francesco Mazzola, detto il Parmigianino, operoso da tre anni nella vicina Bologna. È da ritenere temporanea la perdita della vista, sopraggiunta nel corso dell’anno, come confermerebbe un perduto ex voto per grazia ricevuta datato 1531 e affisso all’altare di S. Lucia nella chiesa della Ss. Trinità; l’attività proseguì in seguito per circa vent’anni, e Benvenuto fu definito «sanus corpore» nei tre successivi testamenti (Cittadella, 1872).
Nel 1531 eseguì ancora, gratuitamente, le Nozze di Cana per il refettorio del convento di S. Bernardino, presso il quale dal 1509 dimorava Camilla Borgia, nipote di Lucrezia in quanto figlia naturale di Cesare, nonché badessa dal 1545; per il cenobio Benvenuto dipinse più di sedici opere, parte delle quali confluita, al pari delle Nozze, all’Ermitage.
Nel 1532 la Madonna in trono tra i ss. Giovanni Battista, Lucia e Contardo d’Este (oggi a Modena, Galleria Estense) fu issata su un altare della chiesa di S. Agostino a Modena a celebrare il ritorno della città agli Este. Nel 1533 Benvenuto stese anche il suo terzo testamento, nel quale chiedeva di essere seppellito nella cappella familiare che stava facendo erigere in S. Maria in Vado. Per il seguito del decennio la sua attività proseguì prolifica: sono ora in Pinacoteca a Ferrara la Resurrezione di Lazzaro (1532 o 1534) da S. Francesco, l’Invenzione della vera Croce (1536) da S. Domenico, l’Adorazione dei magi (1537) da S. Giorgio, dove Garofalo affrescò vari santi entro clipei nel fregio superiore della navata, in compagnia di Girolamo da Carpi, staccati e pure oggi in Pinacoteca.
Con l’avvento al ducato di Ercole II (1534), l’artista riprese anche un’intensa attività per la corte, segnata dalla fedeltà ai modelli raffaelleschi, introdotti in città dal duca Alfonso e riletti in chiave giuliesca. Tale impegno è comprovato dalla convocazione di Garofalo nella delizia estense di Belriguardo per l’avvio di una campagna decorativa (1536) di cui oggi resta solo la cosiddetta Sala delle Cariatidi, per la quale fu pagato nell’estate del 1537 insieme a Battista Dossi, Camillo Filippi, Giacomo da Faenza, Biagio Pupini e Girolamo da Carpi (Marchesi, 2011, pp. 36-41; Pattanaro, 2011). Nello scorcio del quarto decennio Garofalo dipinse nel 1538 la Resurrezione per la chiesa di S. Paolo a Massalombarda e nel 1540 la Lapidazione di s. Stefano per la parrocchiale di Lugo (oggi a Monaco).
Tra le opere profane Garofalo datò nel 1540 il Trionfo di Bacco sopra un camino nelle «camere nuove» di palazzo ducale, oggi a Dresda (Faber, 2002), esemplato sul disegno preparatorio di Raffaello per il dipinto destinato al camerino di Alfonso I, ma mai realizzato. Nulla più resta, invece, delle figure entro riquadri affrescate nel 1541 con Girolamo da Carpi nella facciata del Casino della Montagna di Sotto (Marchesi, 2015). Si contano in questo periodo l’Annunciazione oggi in S. Lorenzo a Fondra (Bergamo), del 1541, e il Congedo del Battista dal padre per la cappella Mazzoni in S. Salvatore a Bologna, del 1542. Nelle ultime due, in particolare, si palesa nel maturo artista un’inclinazione decisamente decorativa. Per lo stesso appartamento ducale delle «camere nuove» Garofalo dipinse inoltre, all’inizio del quinto decennio, Diana ed Endimione (la Sera), in serie con il Carro dell’Aurora e la Notte di Battista Dossi, tutti oggi conservati a Dresda, e fu pagato nel 1543 per una Calunnia d’Apelle, pure ispirata a un disegno raffaellesco (Massing, 1990), e recentemente emersa in una collezione privata inglese, ma in origine posta sopra la porta di uno dei camerini della Via Coperta identificabile come lo «studio delle medaglie» (Menegatti, 2002). Dipinse in questo tempo anche l’Apoteosi di Ercole, oggi di proprietà del principe del Liechtenstein, che risulta sempre appaiata alla Calunnia negli inventari sei-settecenteschi delle collezioni estensi.
La svolta manieristica avviatasi all’inizio del decennio si conferma nell’Apparizione della Vergine ad Augusto e alla Sibilla della Pinacoteca Vaticana e nell’affresco con l’Ultima Cena del convento di S. Spirito a Ferrara, entrambe del 1544, o nella Conversione di Saulo della Borghese, del 1545. Sono perduti gli affreschi della volta della torre di Copparo, eseguiti con Girolamo da Carpi dal 1546 al 1548, ossia i ritratti di casa d’Este e il loro rifacimento per essersi poi guastati, nonché le figure a monocromo entro nicchie della facciata, e altri lavori al poggiolo (Marchesi, 2011, pp. 276-299). La suggestione delle opere dipinte da Vasari in Romagna si palesa ormai nell’Adorazione dei magi con s. Bartolomeo per S. Bartolo del 1549, oggi in Pinacoteca, che è preludio all’ultima impresa documentata, ossia l’esecuzione, insieme a Camillo Filippi, dei cartoni per otto arazzi con le Storie dei ss. Giorgio e Maurelio che furono tessuti entro il 1553 da Giovanni Karcher con i bordi su disegno di Luca d’Olanda (il contratto con i fabbricieri del duomo è del 15 ottobre 1550; Cittadella, 1868).
Morto all’età di settantotto anni, il 6 settembre 1559 (Vasari, 1550 e 1568, 1984, p. 414), fu sepolto nella chiesa di S. Maria in Vado. Furono recitate in suo onore orazioni funebri dal cavaliere Troilo Seccobien e dal canonico regolare di S. Salvatore Fausto Braccaldi. Lasciò un figlio di nome Girolamo, ritenuto da Vasari «persona molto gentile», e una figlia di nome Antonia, promessa sposa nel 1557 a Giovan Francesco figlio di Giovanni Maria Goretti (Ghelfi, 2008, p. 198). Vasari (1550 e 1568, 1984, pp. 411 s.) lo descrive come personalità mite e di condotta cortese, dedito alla pratica della scherma e del liuto, «amico» dei più significativi artisti del suo tempo, quali Giorgione, Tiziano, Raffaello e Giulio Romano.
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