Lucrezio Caro, Tito
di Alison Brown
Il De rerum natura, l’unica opera del poeta latino epicureo (94 ca. -55 a.C. ca.), fu riscoperto e copiato da Poggio Bracciolini nel 1417; se ne erano perse le tracce almeno dall’età carolingia. Dal testo di Poggio derivano i 54 manoscritti e le 3 edizioni a stampa prodotte nel Quattrocento, compreso il ms. Vat. Rossi 884, copiato da M. (ma cfr. Reeve 1980, p. 30; 2005, p. 131). È probabile che la fonte della trascrizione di Bracciolini sia il cosiddetto Oblongus (O), che nel 1479 era conservato a Magonza, o un testo da esso derivato: O è uno dei due manoscritti del 9° sec. conservati a Leida; l’altro, il Quadratus (Q), nel 16° sec. era giunto (con annotazioni risalenti al 15° sec.) da San Bertino a Parigi, dove fu pubblicato da Lambinus nel 1563. Degli altri manoscritti lucreziani identificati come anteriori al 1417 (alcune trascrizioni del 9° sec. conservate a Vienna, con frammenti a Copenaghen, a Bobbio e a Murbach, altre trascrizioni del 12° sec. a Lobbes e Corbie), quello di Bobbio può spiegare l’influenza lucreziana che oggi si rileva nei primi umanisti padovani, oltre che in Petrarca e Boccaccio.
La trascrizione di Nicolò Niccoli (N: Laur. 35, 30) è la copia più antica del testo di Bracciolini che ci sia arrivata. Con le altre tre copie che ne derivano, tutte conservate presso la Biblioteca Laurenziana (35, 25-28), essa attesta l’interesse che il testo suscitò a Firenze e successivamente a Napoli, dove il poema fu trascritto da Antonio Beccadelli, detto il Panormita, nel 1442 (Vat. Lat. 3276; cfr. altre due copie realizzate a Napoli, Vat. Barb. Lat. 154 e BL Harl. 2694). Il Panormita aveva visto la trascrizione di Bracciolini a Firenze nel 1427 e, come fondatore dell’Accademia antoniana di Napoli (che divenne la pontaniana sotto il suo successore Giovanni Pontano), rappresenta il primo elemento della catena di diffusione dell’opera. Pontano fu tra gli studiosi del Quattrocento che dettero un decisivo impulso alle più tarde edizioni a stampa di L.; sia lui sia il Panormita influenzarono l’esule toscano Lorenzo Buonincontri, autore del poema Rerum naturalium et divinarum, che tornò per un breve periodo a Firenze per insegnare astrologia all’università intorno al 1475. Un altro studioso di testi che lavorò con il Pontano a Napoli, prima di trasferirsi a Firenze, fu il militare e studioso greco Michele Marullo, i cui commenti critici hanno influenzato i marginalia di Laur. 35, 25 e di Clm 816 (Monaco, Staatsbibliothek) per essere poi estesamente incorporati nell’edizione Giunti di Firenze del 1512. A Roma, Pomponio Leto fondò un altro centro di cultura lucreziana nella sua accademia ‘epicurea’, in seno alla quale egli stesso produsse alcune copie riviste del De rerum natura. Nel 1458 aggiunse sei righe mancanti, tratte da «un esemplare molto antico», al testo che stava copiando (Napoli BN IV E 5) e che negli anni 1487-91 prestò ad Angelo Poliziano (il quale lo utilizzò per le proprie importanti annotazioni sul Laur. 35, 29). Il successore di Poliziano presso lo Studio fiorentino, Marcello Virgilio Adriani (→) apportò delle emendazioni al libro I del Laur. 35, 32 fino al v. 1038, successivamente incluse da M. nella propria trascrizione (cfr. Bertelli 1961, p. 551).
Dopo la editio princeps (1473 circa) di Brescia e l’edizione di Verona del 1486, di cui un esemplare annotato da Pomponio Leto si trova a Utrecht presso la Universiteitsbibliotheek (X fol. 82, Rariora), la più commentata fu l’edizione del 1495 (Venezia: de Ragazonibus). L’esemplare di Londra, BL (IA 23564), riporta le emendazioni apportate da Pontano (trascritte dal suo segretario Girolamo Borgia); dei due esemplari, appartenuti a Pier Vettori, che si trovano alla Staatsbibliothek di Monaco, uno (ESIg/A lat.a.316) reca le emendazioni pontaniane, l’altro quelle di Marullo (ESIg/A lat.a.317); la copia di Piero Martelli a Parigi (BN, Rés. Yc 397) riporta le emendazioni di Pontano, di Marullo e di Leto. Queste edizioni rappresentano tutte importanti fonti del testo trascritto da Machiavelli. L’edizione aldina del 1500 di Girolamo Avanzi fu seguita dalla prima edizione fiorentina di Pier Candido, che si basava sulle emendazioni di Marullo (edizione Giunti del 1512). Una Paraphrasis in Lucretium di Raffaello Franceschi, docente di filosofia a Pisa, fu stampata nel 1504 a Bologna, dove pure uscì nel 1511 la prima edizione di Lucrezio con commento (di Giovanni Battista Pio, allievo di Filippo Beroaldo il Seniore); il commento di Lambinus che aveva utilizzato per la prima volta Q fu stampato a Parigi e Lione nel 1563 e nel 1566 fu stampato ad Anversa quello di Gifanus.
La permanenza della corte papale a Firenze negli anni 1434-44 comportò che umanisti e curialisti, come Lapo da Castiglionchio e Leon Battista Alberti, fossero tra i primi lettori del De rerum natura. Nondimeno, si dovette arrivare alla metà del Quattrocento per trovarne una sua citazione in extenso fatta dai giovani umanisti Marsilio Ficino e Bartolomeo Scala (i quali potrebbero aver avuto accesso alla copia di Cosimo de’ Medici, il Laur. 35, 27). In quel periodo Ficino scrisse i Commentariola in Lucretio, che in seguito dichiarò di aver dato alle fiamme, dedicando invece sé stesso e la propria accademia allo studio di Platone. Anche Poliziano negò di aver subito l’influenza di L., nonostante la sua analisi filologica dimostri quanto bene conoscesse il poema; allo stesso modo, la Paraphrasis di Raffaele Franceschi del 1504 era accompagnata da un’appendice sull’«immortalità dell’anima». Sei anni dopo, Bartolomeo Fonzio descrisse quanto fosse pericoloso, per chi godeva di benefici con la cura di anime (come lui stesso, Ficino e Poliziano), pubblicare opere giovanili scritte come laici, e dunque fu lasciato a umanisti che insegnavano all’università o erano funzionari della cancelleria, come Scala e Adriani, e più tardi all’allievo e collega di quest’ultimo, M., a Firenze, e a Pontano a Napoli, di sviluppare un interesse crescente per le idee trasgressive di Lucrezio. Questi godevano del sostegno di mecenati radicali: il più giovane ramo della famiglia Medici che faceva capo a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici a Firenze; e il principe di Salerno, Antonello Sanseverino, a Napoli. Entrambi appoggiarono l’invasione francese del 1494 e la successiva rivoluzione politica che favorì la divulgazione delle idee di L., in particolare grazie alle prolusioni annuali di Adriani legate alla sua attività accademica.
L’esistenza di un manoscritto lucreziano sottoscritto da M. fu resa nota agli studiosi da William A. Merrill, The Italian manuscripts of Lucretius («University of California publications in classical philology», 1929, p. 347). Studi successivi hanno permesso di identificare con sicurezza con M. il Nicolaus Maclavellus della sottoscrizione. Essendo M. allievo di Adriani, la sua trascrizione può essere con buona probabilità ricondotta alle lezioni di quest’ultimo, in particolare alla sua prolusione Nil admirari su L., del 1497, anno a cui viene fatta usualmente risalire quella trascrizione. Dal momento che essa incorpora le emendazioni di Adriani al libro I del Laur. 35, 32, è possibile che fosse parte di un progetto congiunto, o che fosse stata concepita per un’edizione a stampa: sebbene utilizzi l’edizione veneziana del 1495, la trascrizione machiavelliana tiene conto anche di altre versioni, come quelle di Leto, di Pontano e soprattutto di Marullo, così come appaiono nei manoscritti già citati e nell’edizione del 1495 appartenente a Piero Martelli ora a Parigi (dal quale sembra che M. adotti le prime emendazioni di Marullo, ma non quelle più tarde). Per di più, quando Pietro Crinito criticò le erronee emendazioni al testo di L. di «certe persone», si riferiva verosimilmente alle versioni di M. e di Marullo (Brown 2010, pp. 120-21; trad. it. 2013, pp. 132-33).
L’interesse della trascrizione machiavelliana non risiede tanto nelle emendazioni testuali, quanto negli eccezionali marginalia al libro II, che testimoniano dell’impegno personale di M. nei confronti del testo; in particolare, va notata la sua postilla a II 250-55, sulla deviazione casuale degli atomi che genera il libero arbitrio: motum varium esse et ex eo nos liberam habere mentem («dalla varietà del moto deriva il nostro avere la mente libera», Brown 2010; trad. it. 2013). Più in generale, è possibile notare come la visione lucreziana dell’umanità primitiva, nonché la spiegazione utilitaristica della genesi della giustizia e della religione, stimolino confronti con il pensiero di M., il quale per altro non cita mai di L. né il nome né i versi.
L. continuava a essere un autore pericoloso. Sebbene non comparisse nell’Index librorum prohibitorum del 1549, il De rerum natura fu proibito come lettura nelle scuole di Firenze nel 1516 e i poeti adottarono un ‘codice dissimulatorio’ nell’ammirare i versi di L. e nel deprecarne la filosofia (Prosperi 2004, pp. 97-115; Prosperi, in Cambridge companion to Lucretius, 2007, pp. 214-16), prima di andare oltre il testo in sé per assorbirne le idee sulla materia e le sue trasformazioni (Passannante 2011, p. 9). L. permeò i versi di poeti come Matteo Maria Boiardo, Bernardo e Torquato Tasso a Ferrara, e perfino gli scritti di studiosi molto circospetti come Benedetto Varchi e Pier Vettori a Firenze, che possedevano entrambi diverse copie del De rerum natura. La definizione della poesia si stava evolvendo dopo la scoperta della Poetica di Aristotele, e ciò fece sì che L. fosse ammirato per la sua originalità come filosofo, piuttosto che come poeta – un cambiamento che si rifletteva non solo nei marginalia delle copie di L. (Palmer 2012), ma anche nei dibattiti delle nuove accademie come quella degli Alterati, in seno alla quale, negli anni Ottanta del Cinquecento, L., insieme a M., divennero oggetto di discussione e approvazione (Brown, in corso di stampa).
Bibliografia: C.E. Finch, Machiavelli’s copy of Lucretius, «The classical journal», 1960-1961, 56, pp. 29-32; S. Bertelli, Notarelle machiavelliane: un codice di Lucrezio e di Terenzio, «Rivista storica italiana», 1961, 73, pp. 544-53; C. Gordon, A bibliography of Lucretius, London 1962; S. Bertelli, Ancora su Lucrezio e Machiavelli, «Rivista storica italiana», 1964, 76, pp. 774-92; S. Bertelli, Un codice lucreziano dall’Officina di Pomponio Leto, «La parola del passato», 1965, 20, pp. 28-38; S. Bertelli, La conoscenza e la diffusione di Lucrezio nei codici umanistici italiani, «Rassegna degli Archivi di Stato», 1965, 25, pp. 271-88; M. Reeve, The Italian tradition of Lucretius, «Italia medievale e umanistica», 1980, 23, pp. 27-48; C. Goddard, Epicureanism and the poetry of Lucretius in the Renaissance, tesi di dottorato, Cambridge University 1991; G. Solaro, Lucrezio. Biografie umanistiche, Bari 2000; A. Brown, Lucretius and the Epicureans in the social and political context of Renaissance Florence, «I Tatti studies», 2001, 9, pp. 11-62; V. Prosperi, “Di soavi licor gli orli del vaso”. La fortuna di Lucrezio dall’Umanesimo alla Controriforma, Torino 2004; M. Reeve, The Italian tradition of Lucretius revisited, «Aevum», 2005, 79, pp. 11564; M. Reeve, Lucretius from the 1460s to the 17th century: seven questions of attribution, «Aevum», 2006, 80, pp. 165-84; Cambridge companion to Lucretius, ed. S. Gillespie, P. Hardie, Cambridge 2007 (in partic. M. Johnson, C. Wilson, Lucretius and the history of science, pp. 131-48; M. Reeve, Lucretius in the Middle Ages and early Renaissance: transmission and scholarship, pp. 205-13; V. Prosperi, Lucretius in the Italian Renaissance, pp. 214-26); A. Brown, The return of Lucretius to Renaissance Florence, Cambridge (Mass.) 2010 (trad. it. Machiavelli e Lucrezio. Fortuna e libertà nella Firenze rinascimentale, Roma 2013); G. Passannante, The Lucretian Renaissance. Philology and the after life of tradition, Chicago 2011; A. Palmer, Reading Lucretius in the Renaissance, «Journal of the his tory of ideas», 2012, 73, pp. 395-416; A. Brown, Defining the place of academies in Florentine culture and politics, in The Italian Academies, ed. J. Everson, London (in corso di stampa).
Lucrezio in Machiavelli di Gennaro Sasso
Della trascrizione che, in un anno non precisato (e, allo stato degli atti, non precisabile) della sua giovinezza, M. fece del De rerum natura di L., in questa sede interessa piuttosto il fatto del suo essere avvenuta, che non i tempi, i luoghi, le circostanze in cui ebbe luogo. Ma ancor più interessa la presenza che il poema antico ebbe nelle sue opere: nei suoi versi, innanzi tutto, dai quali risulta che, in determinati momenti, a riaffiorare nella sua fantasia fu il ricordo di quel che aveva letto e messo su carta, e poi nelle sue opere politiche, nelle quali a contare era non tanto la letteratura quanto invece il pensiero. E qui sta veramente un nodo di difficoltà che deve essere sciolto con cura e senza impazienze, distinguendo pensieri che, letti e interpretati in modo sommario ed estrinseco, potrebbero far pensare che L. fosse stato presente dove a ispirare le idee machiavelliane erano invece, comunque gli fossero pervenuti, concetti di tutt’altra origine. In breve, fin dall’inizio, deve tenersi in mente una distinzione che, se la si trascurasse, gravi equivoci ne deriverebbero. A più riprese, e in contesti diversi, M. alluse a un’idea del mondo e degli uomini che, né quello né questi, erano, a suo giudizio, pensabili in modo che a segnarne il carattere fossero le differenze che la storia reca con sé piuttosto che non il loro persistere identici, il primo nel suo ordine, nel suo moto e nella sua potenza, i secondi nelle loro sempre identiche passioni (si ricordi il § 12 del proemio al secondo libro dei Discorsi). Certo, le situazioni storiche mutano, ma per dar luogo ad altre; gli uomini muoiono, ma per rinascere identici in un mondo che, esso, non muore e persiste nella sua identità. Se a queste asserzioni si fosse guardato, e si guardasse, con l’intento di cogliervi quel che nascondevano e non rendevano esplicito, non sarebbe stato difficile cogliervi il tratto dell’anticristianesimo che costituisce in effetti il Grundakkord del pensiero di M., per il quale Dio o gli dèi sono bensì nomi necessari a costituire il tessuto di un savio e bene ordinato discorso politico, ma, per sé stessi, non sono altro che nomi. Non c’è Dio, infatti, o figliolo di Dio, che possa far sì che gli uomini siano, con le loro passioni, diretti verso altri lidi in un mondo che, non avendo ricevuto la sua esistenza da un atto creativo della divinità, non conosce altra legge che la sua e altra possibilità di sviluppo da quella che consiste nell’impossibilità che questo abbia luogo e il mondo sia diverso da quel che è. Di qui può comprendersi perché, in un’occasione specifica, a questa idea dell’immutabile permanenza delle passioni umane nel quadro di un universo non mai diverso di ordine e di potenza da quel che sempre era stato «antiquamente», a M. riuscisse naturale conferire la forma della classica dottrina aristotelica (e averroistica) della sua eternità. Può comprendersi perché egli si risolvesse a dare ospitalità, in un capitolo (il v) del secondo libro dei Discorsi, a un pensiero come questo che – da quando in Occidente Aristotele era tornato al centro dei pensieri di filosofi e teologi – aveva costituito il terreno di elezione per le più sottili dispute e per i più grandi tormenti. Non fu, la sua, una stravaganza, l’inaspettata apertura a un orizzonte di questioni estranee alla sua competenza. Con l’accoglimento di una teoria che a lungo aveva tenuto il campo, fu piuttosto il suggello teorico dato a pensieri che, per la loro importanza e per le conseguenze che a essi erano intrinseche, richiedevano di essere resi in tutto e per tutto trasparenti a sé stessi.
La distinzione, alla quale qui su si è alluso, riguarda un luogo assai delicato del suo pensiero e, come si è detto, occorre richiamarla per evitare la confusione e l’equivoco. Il contenuto irreligioso e anticristiano che, non a torto, si indicasse in quei pensieri di M. può senza dubbio avere con il pensiero dell’epicureo L. un punto di contatto, che dev’essere tuttavia messo nel giusto rilievo perché il risultato non sia il fraintendimento dell’uno e dell’altro autore. M. non credeva né a Dio né agli dei. A differenza di L., che all’esistenza degli dei invece teneva fermo, non credeva che questi ultimi si trovassero negli spazi iperurani, e che la loro beata esistenza potesse essere turbata o interessata dalle preci che, dagli altari costruiti dagli uomini in loro onore, s’innalzassero nella direzione del cielo. È una differenza essenziale, che si svolge in senso fortemente paradossale. L. credeva negli dei, e non li rendeva oggetto della religione che, fin dalle origini, fu per lui la fonte di ogni guaio che si fosse prodotto in terra (humana ante oculos foede cum vita iaceret / in terris oppressa gravi sub religione / quae caput a caeli regionibus ostendebat / horribili super aspectu mortalibus instans, «mentre la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione, che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile aspetto incombendo dall’alto sugli uomini», I 62-65; trad. it. L. Canali, in La natura delle cose, a cura di I. Dionigi, 1990, donde sono tratte le successive traduzioni), tanto che non ci volle meno dell’ardire intellettuale di un uomo greco, Epicuro, che, non prestando fede alle vane favole, riuscì a spezzare arta / naturae primus portarum claustra («per primo le porte sbarrate dell’universo», vv. 70-71) e ad andare oltre i flammantia moenia mundi («le mura fiammeggianti del mondo», v. 73). M. non credeva agli dei, e nemmeno alla religione quando si fosse presunto e preteso che in essa si conservasse viva la voce del dio. Ma, senza credervi, vi credeva quando a interpretarla e a orientarla nella giusta direzione fosse stato il legislatore consapevole dell’insostituibile funzione, che a essa poteva essere affidata, di tenere alto il tono civile e politico delle repubbliche. Il che, sia detto fra parentesi, avrebbe certamente fatto inorridire L., per il quale, assunta nel sistema delle sue credenze, dei suoi miti, delle sue favole, la religione non era se non il contrario della verità, era la premessa dei crimini orrendi di cui la storia dell’umanità recava in sé la traccia indelebile. Questa che egli conduceva era una polemica settaria e ingiusta? Proprio al contrario:
quod contra saepius illa / religio pepertit scelerosa atque impia facta («poiché invece, più spesso, fu proprio la religione a produrre scellerati delitti», vv. 82-83).
Differenze notevoli, come si vede, tanto che sarebbe senza dubbio in errore chi ritenesse che dal poeta latino M. potesse aver ricavato elementi utili a rendere più forte la ragione che lo induceva a non credere in un dio la cui sacralità non fosse per intero spendibile in termini di utilità politica. Non c’è in L. l’idea che la religione sia lo strumento con il quale legislatori privi di scrupoli tengono sotto il loro giogo politico l’umanità, rendendola schiava: nella sua visione, la religione nasce non dall’ambizione di potere nutrita da questo o da quello, ma dall’originario timore della morte, che di ogni uomo occupa l’animo, ed è un vincolo attraverso il quale di quel timore l’umanità si rende schiava. Certo, dalla meditazione della fisica epicurea che L. esponeva e in ragione della quale negava che nel combinarsi e dividersi degli atomi che costituiscono la grande massa del mondo fosse all’opera la mano provvidente di un dio sollecito delle umane sorti, può ben darsi che, quando trascriveva il poema e poi lo faceva rifluire nella sua memoria, M. fosse stato colpito (si pensi a quel che poteva leggere a II 165 e segg.), e che anche di lì derivasse a lui l’idea che non la provvidenza, ma la fortuna è la protagonista della storia. Al di là di questo, tuttavia, non si può andare. E, in aggiunta, deve prodursi l’argomento che, per questa parte, è fra tutti il più importante. Differenze notevoli, e tali da rendere irriducibili l’una all’altra le rispettive posizioni, si sorprendono nell’idea, che M. condivise e L. no, dell’eternità del mondo. In effetti, chi ha ritenuto che nel far sua quell’idea – che, nell’accezione in cui M. l’assunse, è, come si è accennato, di compatta derivazione aristotelica e averroistica – M. avesse in mente L., ha dato luogo a una grave confusione che, per l’intelligenza dei testi, deve essere radicalmente dissolta. Ha confuso l’eternità che L. attribuisce sia all’ambito, all’immenso vuoto (to kenòn «inane») in cui si svolge la vicenda dei mondi, sia alla materia creatrice e agli atomi con le loro combinazioni e divisioni, con lo specifico destino di ciò che, dopo essersi variamente composto e accresciuto, a un certo punto cessa di crescere e soggiace al declino:
nam certe fluere et recedere corpora rebus / multa manus dandum est; sed plura accedere debent, / donec alescendi summum tetigere cacumen. / Inde minutatim viris et robur adultum / frangit et in partem peiorem liquitur aetas.
è infatti una realtà certa che le particelle elementari fluiscono e si allontanano dai corpi: ma più devono aggiungersi finché non siano pervenute al vertice della crescita. Poi a grado a grado l’età infrange le forze e l’adulta energia, e piega verso il proprio declino (II 1128-32).
Com’è detto in un passo di rara potenza, che s’incontra a V 351-79, quel che accade alle singole cose anche accade al mondo:
haud igitur leti praeclusa est ianua caelo / nec solis terraeque neque altis aequoris undis, /sed patet immani et vasto respectat hiatu
e dunque la porta della morte non è chiusa neanche al cielo, né alla terra, né al sole, né alle profonde acque del mare, e anzi li attende e li scruta con vasta e immensa voragine (vv. 373-75).
Nella rievocazione dell’eterna vicenda del nascere, crescere e morire, che per L. riguarda ogni mondo che si sia formato e per M. soltanto ciò che avviene all’interno dell’eterna cornice dell’unico mondo, l’impassibilità scientifica del poeta epicureo è tale da assumere su di sé il peso stesso del patetico, dal quale quasi si lascia sopraffare: sic igitur magni quoque circum moenia mundi / expugnata dabunt labem putris‹que› ruinas («così dunque anche le mura del vasto mondo espugnate d’attorno crolleranno corrose in rovina», II 1144-45). E ancora:
iamque adeo fracta est aetas effetaque tellus / vix animalia parva creat quae cuncta creavit / saecla deditque ferarum ingentia corpora partu
ormai la nostra età è stremata, la terra esausta produce a stento meschini esemplari, la terra che un giorno generò ogni specie e creò dal suo grembo animali dai corpi possenti (vv. 1150-52).
Senza senso, anche se umanamente comprensibile, è perciò il lamento del contadino che deplora questo stato di cose, di cui non sa darsi la ragione. Che invece c’è, ed è iscritta nella natura stessa delle cose: nec tenet omnia paulatim tabescere et ire / ad capulum spatio aetatis defessa vetusto («e non pensa che tutto man mano rovina e si avvia a morte consunto dal lungo spazio di tempo», vv. 1173-74 ).
Se, nella questione relativa all’eternità e alla mortalità del mondo, M. non seguì L. e la tradizione filosofica alla quale era stato ispirato il suo poema, ma trasse le sue convinzioni dalla fonte aristotelico-averroistica, del De rerum natura – e in particolare di alcuni luoghi del quinto libro –, tuttavia si giovò nel secondo capitolo del primo libro dei Discorsi. È ben noto che, nello scriverlo, non senza introdurvi alcune significative varianti, egli seguì da vicino la sezione costituzionale del sesto libro di Polibio, che non si sa con certezza attraverso quali tramiti fosse giunto nelle sue mani e da chi fosse stato reso accessibile a lui, ignaro di greco, ma del quale non può dubitarsi che, in latino o in volgare, l’avesse letto, studiato e capito a fondo, tanto da darne, in uno spazio relativamente ristretto, una sintesi di rara efficacia. Le varianti alle quali si è accennato non sono irrilevanti e meritano di essere sottolineate. Riguardano, infatti, il contatto che egli stabilì fra i due testi principali, Polibio, appunto, e L. (se fu adoperato, Diodoro rimase sullo sfondo), e danno segno di sé, forse, proprio nel punto in cui egli prese a trattare delle «variazioni de’ governi», le quali, disse, nacquero «a caso intra gli uomini» che, radi, com’erano agli inizi, e dispersi, vivevano «a similitudine delle bestie», privi ancora del vincolo sociale che poco alla volta li strinse insieme e li avviò sul sentiero, dapprima scosceso, del vivere civile e politico. Ebbene, che qui le nozioni di antropologia storica che Polibio aveva messe insieme nella sua descrizione dell’originaria insocievolezza e poi socievolezza del genere umano fossero, in quel capitolo, state intrecciate da M. con quelle, di tanto più efficaci, di L., è constatazione pressoché ovvia, e da tempo, comunque, acquisita agli studi. Ma, a proposito del rilievo relativo al «caso», nel cui segno le variazioni dei governi «nacquono», a quel che già fu detto quando lo si contrappose alla polibiana legge della natura (φύσεως οἰκονομία), altro occorre aggiungere. Non è improbabile, infatti, che, nel punto della connessione da lui stabilita fra i due testi che aveva a disposizione, accennando al «caso», M. si ricordasse di quel che in L. aveva letto circa l’aggregazione degli atomi che, nel costituire i corpi delle cose, obbediscono, non alla legge della necessità (ἀνάγκη) che a essi sia intrinseca, ma a quella, appunto, del caso, del libero aggregarsi e disgregarsi degli atomi per entro l’infinità dell’inane (cfr., per es., II 80 e segg.); e a quel concetto, che gli consentiva più libertà e duttilità di quelle concesse dal rigido naturalismo polibiano, egli accordò infine la sua preferenza. Lucreziana, comunque, piuttosto che polibiana, fu la veloce (per altro) descrizione dell’umanità primitiva. Che fu veloce, in effetti, perché, nel prendere dal poeta antico gli elementi essenziali, M. lasciò fuori della sua sintesi quel che, pur essendo di indiscutibile importanza, avrebbe, se lo si fosse ripreso, ritardato il determinarsi del momento politico, che a lui in modo particolare interessava. Così, della descrizione lucreziana, egli ritenne l’accenno ai finitimi che, per sfuggire al pericolo rappresentato dalla solitudine, avevano avvertita imperiosa l’esigenza di stringersi insieme in gruppi (tunc et amicitiem coeperunt iungere aventes / finitimi inter se nec laedere nec violari, «allora i vicini cominciarono a stringere di buon grado amicizia fra loro, a non arrecarsi violenza né offesa», V 1019-20). Ma, mentre per descrivere il formarsi dei concetti del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, si affidò a Polibio, da L. non raccolse né le idee relative all’origine del linguaggio né quelle riguardanti le acquisizioni tecniche che, a partire dalla scoperta del fuoco e dei suoi vari usi, consentirono all’umanità di avanzare sulla via del progresso. Non ebbe infatti, in quel capitolo, uno spazio in cui inserirle: la sua mente anticipava il momento politico. Nemmeno, del resto, dette rilievo a quello in cui, conclusa l’età dei concubiti selvaggi, ebbe inizio l’altra in cui l’uomo e la donna si conobbero in luoghi, per dir così, privati, dando luogo – per usare un’espressione di Giambattista Vico, grande estimatore di questa parte del De rerum natura – se non alla «santità dei matrimoni», almeno alla saldezza dei primissimi nuclei familiari. Di tutto questo, nella sede in cui si trovava, premuto dalla necessità di concentrare in poco spazio una materia varia e assai complessa, M. non trovò il modo di render conto. A tagliare, sfoltire, semplificare lo costringeva, come si è detto, il suo voler pervenire subito al punto essenziale che – essendo, per lui, quello politico – lo induceva a concentrare l’attenzione sulla fase presociale e prepolitica dell’umanità primitiva, la quale, dispersa com’era e priva di difese, fu indotta a darsi un capo che, per intanto, avesse forza sufficiente a tenere a freno le violenze e le ingiustizie, le prepotenze e le sopraffazioni. Il che avvenne prima che i concetti del giusto e dell’ingiusto si fossero affermati e, da quella barbarica e rozza monarchia primitiva, si passasse a una più mite e civile, in cui quei concetti nacquero e trovarono la loro prima definizione. Dopo di che fu la linea polibiana ad affermarsi: anche se non può escludersi che quanto L. aveva scritto a V 1105 e segg. si facesse avvertire e qua e là lasciasse, nella pagina machiavelliana, un segno, che si percepisce, ed è difficile tuttavia indicare con precisione.
Se questi, che si sono indicati, sono i due nuclei principali entro i quali si raccoglie la melior pars della presenza lucreziana, non sarebbe tuttavia completo il discorso che a questi soltanto si risolvesse a dar rilievo. In realtà, L. è presente nelle opere poetiche e letterarie: non, salvo errore, nelle commedie, ma, sia pure in modo discontinuo e marginale, nei componimenti poetici. Discontinuità e marginalità non possono, d’altra parte, recare eccessiva sorpresa. A spiegarle basta addurre la natura della poesia lucreziana, il cui afflato cosmico a stento poteva, o non poteva affatto, trovare ospitalità in un’opera letteraria quale fu quella machiavelliana che, oscillando fra la cronaca storico-politica dei Decennali, la riflessione morale dei Capitoli e la satira antidantesca dell’Asino, con il discorso scientifico-filosofico del De rerum natura poteva bensì entrare in contatto se il loro autore si fosse trovato a dipanare un filo di quella natura, ma non quando l’occasione di questo confronto fosse mancata. Sta di fatto che, se nei Decennali il ricordo di quel poema sembra, salvo errore, essere assente, e nei Capitoli la sua presenza si rivela, in ultima analisi, modesta, non più rilevante essa si mostra nel capitolo ottavo dell’Asino: ossia in un testo che, consacrato com’è a una pessimistica descrizione della condizione umana, avrebbe forse potuto riservare a L. un posto più significativo. Si vedrà, di qui a non molto, se quanto detto sia sostenibile e possa essere mantenuto. Ma converrà cominciare dai Capitoli. In quello “Di Fortuna”, per i vv. 121-23 («Non è nel mondo cosa alcuna eterna; / Fortuna vuol così, che se n’abbella / acciò che ’l suo poter più si discerna») è stato suggerito (da Giorgio Inglese nel commento ai Capitoli, 1981, p. 190) un riscontro lucreziano (II 1173-74; V 92-96 e 306-15) che potrebbe essere presente anche nelle parole d’esordio del primo capitolo del terzo libro dei Discorsi. Ma, per quanto concerne questi versi, e forse il citato capitolo dei Discorsi, la specificità del riscontro è troppo debole perché di reminiscenza e di derivazione possa parlarsi, essendo il tema della caducità delle cose umane uno stilema generico, dovunque ricorrente e dovunque attingibile. Per quanto concerne i versi 92-96 del quinto libro, il contesto teorico a cui essi alludono è, per contro, troppo filosoficamente impegnativo perché quelli machiavelliani possano essergli riferiti; allo stesso modo, V 306 e segg. presentano un quadro di così alta e visionaria potenza che è più che dubbio che, se li avesse avuti nella memoria, M. non li avrebbe per qualche parte registrati. Per individuare, in quel luogo del “Di Fortuna”, un’ascendenza lucreziana, si potrebbe se mai pensare a II 168 e segg., ossia ai versi nei quali, contestando che quel che accade nel mondo abbia la sua origine nella volontà degli dèi, L. insegnava nequaquam nobis divinitus esse creatam / naturam mundi («non per volere divino è stata per noi generata la natura del mondo», vv. 18081), tali e tanti essendo i mali che gli stanno dentro (tanta stat praedita culpa, «segnata da pecche così gravi»). Ma, anche qui, posto che esista, al riscontro si perverrebbe in virtù non della sua immediata evidenza, ma per via indiretta, per il tramite di un’idea, quella della fortuna che, nella sua irrazionalità, esclude la ratio intrinseca alla provvidenza.
Più stringente, per un verso, ma anche generico è il riscontro che può proporsi fra il capitolo “Dell’Ingratitudine”, vv. 4-7 e De rerum natura II 2 e seguenti. Si tratta infatti, nell’un testo e nell’altro, di un appello alle Muse, e niente che avesse un più intrinseco significato potrebbe esservi indicato. Più stringente si rivela invece il confronto fra il capitolo “Dell’Ambizione”, vv. 49 e segg.:
E [Ambizione e Avarizia] loro alta possanza demostraro / po’ che posserno far, ne’ primi tempi, / un petto ambizioso, un petto avaro, / quando li uomin vivieno e nudi e scempi / d’ogni fortuna e quando ancor non era / di povertà e di ricchezze esempi
e quel che si legge in L., V 925 e segg., salvo che il discorso risulterebbe incompleto se, nei versi di M., non si notasse l’accenno – fortemente polemico nei confronti del presente – rivolto a un mitico passato di virtuosa povertà, e non se ne rivelasse l’assenza nei luoghi corrispondenti del poeta latino. A prevalere in quest’ultimo fu infatti la rappresentazione di quella primitiva come di un’età non necessariamente cattiva, ma tuttavia violenta per necessità, e disposta, per conseguenza, alla sopraffazione:
nec commune bonum poterant spectare neque ullis / moribus inter se scibant nec legibus uti. / quod cuique obtulerat praedae fortuna, ferebat / sponte sua sibi quisque valere et vivere doctus
non potevano ancora mirare al comune vantaggio, né sapevano uso di leggi o di mutuo costume. Ognuno la preda che il caso gli offriva ghermiva per sé solo, da solo, ammaestrato a durare la vita in pienezza di forze (vv. 958-61).
Nella rapida rappresentazione che, a sua volta, dette dell’umanità primitiva, a M. questo tratto sfuggì. A prevalervi fu la nota moralistica: con un capovolgimento che, rispetto a quel che si trovava in L., non avrebbe, per questo riguardo, potuto essere più netto. Fu invece, con ogni probabilità, al ricordo di quel che leggeva in V 988 e segg. che sono ispirati i vv. 151 e segg. del capitolo “Dell’Ambizione”, fra i più vivi, forse, del componimento.
Per tentativi che abbia compiuti, e ricerche che abbia tentate, chi scrive non è riuscito a trovare nelle commedie riscontri lucreziani che vadano oltre quello, per altro più che dubbio, che può notarsi fra Mandragola IV i e De rerum natura III 1082-84. Nel momento dei dubbi e delle incertezze, che precede quello in cui l’azione diretta a far crollare la virtù di madonna Lucrezia sta per aver inizio, Callimaco si chiede se sia stata la pazzia a suggerirgli quel che ha congegnato:
Che fai tu? Se’ tu impazzato? Quando tu l’ottenga, che fia? Conoscerai el tuo errore, pentira’ti delle fatiche e de’ pensieri che hai avuti? Non sai tu quanto poco bene si truova nelle cose che l’uomo desidera, rispetto a quello che l’uomo ha presupposto trovarvi?
C’è, qui, un riscontro lucreziano? Nel luogo citato, si legge:
sed dum abest quod avemus, id exsuperare videtur / cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus / et sitis aequa tenet vitai semper hiantis
ma mentre ciò che desideriamo è lontano, ci sembra superare ogni cosa; poi quando l’oggetto della brama ci è dato, aneliamo ad altro, e un’eguale sete della vita perennemente ci affama.
Non può escludersi, certo, e può anzi ammettersi che, nell’attribuire a Callimaco quei pensieri, M. si fosse ricordato di quei versi lucreziani o – ed è, forse, ipotesi preferibile – che il loro ricordo si fosse imposto a lui che non specificamente li aveva nella memoria. Ma, se deve procedersi allo specifico confronto, è pur necessario avvertire che il pensiero di Callimaco è diverso da quello del poeta latino. Non tanto sulla parziale (o totale) delusione provocata nel desiderante dalla ottenuta cosa desiderata Lucrezio fece battere l’accento, quanto piuttosto sull’inesuasta forza del desiderio che, dopo il primo appagamento, immediatamente si dirige a un nuovo oggetto. Che è viceversa quel che Callimaco pensava e, nell’imminenza dell’azione, confidava a sé stesso. Pur inserendosi entrambi nel quadro dei problemi concernenti la natura e la fenomenologia del desiderio, la concordanza fra i due passi è, dunque, debole, e, dovendosi trattare della presenza lucreziana in M., meglio forse quel passo del De rerum natura sarebbe addotto a riscontro del complesso proemio, al secondo libro dei Discorsi:
sendo, oltre di questo, gli appetiti umani insaziabili perché, avendo dalla natura di potere e volere desiderare ogni cosa e dalla fortuna di potere consegutarne poche, ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane e uno fastidio delle cose che si posseggono; il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati e desiderare i futuri, ancora che a fare questo non fussono mossi da alcuna ragionevole cagione (§ 21).
Rispetto a quel che si legge nei versi lucreziani, il ragionamento di M. è più articolato e, soprattutto, è inserito in un contesto (il presente, il passato, l’imitazione dell’antico) che, essendo suo e soltanto suo, lo rende imparagonabile con quelli. Ma qui, meglio che nella Mandragola, la presenza di L. è avvertibile.
Deve confermarsi, e il confronto lo dimostrerà, che alcune consonanze con il De rerum natura si riscontrano nell’Asino, a cui M. cominciò a lavorare forse all’indomani della sua estromissione dalla cancelleria e che, come si ricava dalla lettera inviata a Lodovico Alamanni il 17 dicembre 1517, in quegli anni era ancora nelle sue mani. Rimasto, come si sa, incompiuto all’altezza dell’ottavo canto, il poemetto è, nella struttura letteraria e nella sostanza, una parodia impietosa della Commedia di Dante, con una differenza, che, fra le altre, richiede di essere messa in chiaro, cioè che gli animali incontrati dal protagonista nel curioso aldilà che vi è descritto erano tutti stati uomini, e vi erano stati mutati perché in tal modo scontassero i peccati commessi in vita. Il confronto era, dunque, con Dante, e quando M. scrisse questi versi L. era lontano dalla sua fantasia e dalla sua memoria. Soltanto marginalmente, quindi, di versi scritti da lui può trovarsi traccia in quelli composti dal «quondam segretario», e alla condizione, si può aggiungere, che soprattutto l’attenzione si rivolga al discorso del «porcellotto grasso», o «cignale» che si preferisca chiamarlo, con cui di fatto il poemetto si conclude, come un indiretto documento dell’irreligiosità manifestantesi nell’apologia della condizione bestiale nei confronti di quella umana. Un discorso, se lo si considera nella logica del poemetto, sul serio conclusivo e definitivo, e tale perciò – se questa piccola digressione è lecita – da rendere evidente la vera ragione per la quale, giunto a quel punto, M. avvertì che, se non materialmente, nell’intrinseco il suo poema era giunto al termine, e altro non restava da aggiungere. Chi perciò ha proposto che l’interruzione del poemetto fosse da mettere in relazione con la lettura che nel frattempo M. aveva fatta del Furioso, uscito in stampa l’anno prima, e con la presa d’atto dell’impossibilità, per lui, di competere con quel capolavoro, ha dato un bel saggio di immaginazione letteraria, ma è rimasto tuttavia nell’estrinseco, mostrando di non essersi accorto che, Ariosto o no, il cinghiale aveva messo la parola fine a un poema che, giunto a quel traguardo, non avrebbe potuto perciò andare più in là. Se, dopo la metamorfosi in forza della quale erano divenute bestie, morto e sepolto era il desiderio di tornare a essere uomini, che altro restava da dire a uno che si era proposto di guardare dentro alla condizione umana? Che, comunque, in questa parte dell’opera L. non potesse trovare posto, e questo fosse invece per intero occupato da Dante e dal rovesciamento della sua visione del mondo, non è difficile comprendere. Il rifiuto che, con fermezza, il cinghiale opponeva a proposte che gli fossero fatte di riprendere la precedente figura umana e di uscire quindi dal luogo in cui era stato collocato come prigioniero, conteneva in sé gli elementi di una netta professione di fede antireligiosa. La condanna alla condizione bestiale non era una condanna: tutto considerato, si rivelava come un privilegio, e quel particolare inferno era più lieve a sopportarsi che non fosse stata la vita. Solo in questo senso, ma per il tramite di un uso popolareggiante del verbo lucreziano, si potrebbe parlare, per il discorso del cinghiale, di epicureismo.
Certo, la machiavelliana insistenza sulla forza mediante la quale, schiettamente, gli animali si oppongono alla violenza che li circonda, il loro nascere vestiti di contro all’uomo che viene alla luce debole, indifeso e di tutto bisognevole (V 222 e segg.), la moderazione che essi rivelano nelle cose veneree di contro alla smodatezza con cui sono trattate dagli uomini, tutto questo può essere considerato come lo sfondo su cui poi M. costruì la sua provocazione anticristiana. Ma, appunto, si tratta di non più che un tema appartenente allo sfondo, e, salvo errore, riscontri puntuali non è possibile produrli al di fuori di questo che riguarda la nascita dell’uomo. Anche il tema, da ultimo toccato, delle passioni d’amore, moderate negli animali, smodate negli uomini, potrebbe essere messo in relazione con la potente rievocazione – che si legge alla fine del quarto libro del De rerum natura – delle molteplici sofferenze che questa passione accende nel cuore degli uomini. Ma se anche fosse positivamente risolto, il dubbio che di qui, o anche di qui, M. possa aver tratto quel che si legge in Asino viii, vv. 91-93, abissale resterebbe la differenza che divide quei tre versi dall’imponente, drammatico discorso che L. aveva dedicato all’amore.