TERZANI, Tiziano Livio
TERZANI, Tiziano Livio. – Nacque il 14 settembre 1938 a Firenze, in casa, in via Pisana 147, da Gerardo e da Lina Venturi.
I Terzani erano originari di Malmantile, a una quindicina di chilometri in direzione di Empoli, dove per generazioni avevano fatto i cavatori di pietre. Il nonno Livio si era trasferito a Firenze a fare il muratore. Il padre Gerardo era diventato tornitore e aveva aperto con un amico un’officina. Lì aveva incontrato Lina, figlia di un cuoco della famiglia dei marchesi Gondi, che faceva la cappellaia. Si erano sposati nel 1936. Tiziano dormiva in un lettino accanto a quello dei genitori, essendo la casa costituita da soggiorno, camera e cucina, con un tavolo in marmo che fu la sua scrivania fino a quando ebbe 18 anni.
Tra il 1944 e il 1945, fece la prima elementare dalle monache del convento di S. Pietro a Monticelli. Una prima maestra lo trattava male perché figlio di un ‘comunista’. Completò le elementari nel 1949 alla Giovanni Battista Nicolini, dove il maestro Cavalli chiamò i genitori per raccomandare che lo facessero studiare. Al termine delle medie il professor Cremasco consigliò che lo mandassero al ginnasio. Conseguita la maturità classica al liceo Galileo, nel 1957, si classificò secondo nel concorso di ammissione alla Normale di Pisa, dove si laureò con lode in giurisprudenza. Lo stesso anno conobbe a una festa a casa di una compagna di liceo una ragazza tedesca, Angela, nata a Firenze il 9 aprile 1939, figlia del pittore Hans-Joachim Staude, detto Anzio, e dell’architetta Renate Moenckeberg, di buona famiglia amburghese, e sorella di Jakob, detto Jacopo, futuro astrofisico dell’istituto Max Planck di Heidelberg. Si sposarono nel 1962, l’anno in cui Tiziano fu assunto alla Olivetti di Ivrea («Scoprii che se ci sposavamo anche lei era assicurata contro le malattie e le pagavano i viaggi con me», La fine è il mio inizio, Milano 2006, p. 53). Non si sarebbero più lasciati. Senza di lei, donna bellissima, intelligente e paziente, senza il suo contributo nei momenti decisivi, non sarebbe forse esistito il ‘fenomeno Terzani’. Ebbero due figli, Folco, nato a New York nel 1969, e Saskia, nata a Milano nel 1971. Da toscano, Terzani aveva nel sangue il senso antico della famiglia patriarcale. Nel 1966 avrebbero iniziato la costruzione della casa di Orsigna, il punto fermo in una vita raminga in giro per il mondo, il rifugio sicuro dove Tiziano sarebbe tornato a vivere i suoi ultimi giorni e a morire, dopo aver finito di dettare al figlio Folco i materiali per il libro postumo La fine è il mio inizio.
Tiziano Terzani fu, come ebbe lui stesso a dire in diverse occasioni, un «uomo molto fortunato». ‘Uomo’ nel senso completo che al termine attribuiva Terenzio (Homo sum, humani nihil a me alienum puto), con tutti i pregi e pure molti difetti dell’umanità, cioè non un ‘superuomo’. ‘Fortunato’, nel senso che riuscì sempre a fare, tra i mestieri e le possibilità di carriera che gli si aprivano, quello che aveva sempre voluto fare: il giornalista, viaggiare, vedere il mondo, scrivere, conoscere gli altri, farsi riconoscere dagli altri. Ma anche nel senso che ebbe la fortuna e la capacità di trovarsi quasi sempre al momento giusto, nel posto giusto, in compagnia delle persone giuste.
A Bologna nel 1966, mentre partecipava a un ciclo di conferenze alla Johns Hopkins University esternò le critiche della sua generazione alla guerra in Vietnam, attirando l’attenzione del professore britannico Gorley Putt che reclutava talenti, «futuri leader europei», per soggiorni nelle università americane: gli valse una fellowship per frequentare per due anni (dal 1967 al 1969, gli anni di massima effervescenza nelle università americane, della protesta nera e contro la guerra) i corsi di affari internazionali alla Columbia e di lingua cinese alla Stanford University. A New York incontrò Ugo Stille che lo segnalò a Il Giorno, l’allora ‘scoppiettante’ giornale milanese di proprietà dell’ENI, voluto da Enrico Mattei, nella cui redazione iniziò a lavorare al ritorno dall’America. Date le dimissioni quando l’allora direttore Italo Pietra, alla richiesta di essere mandato a fare il corrispondente in Cina, gli rispose che «l’unico posto libero è a Brescia», si propose a tutti i principali giornali italiani ed europei. Ne ottenne una valanga di dinieghi, finché nel dicembre del 1971 ad Amburgo, dopo aver conosciuto il direttore amministrativo della rivista Der Spiegel, Michael Nesselhauf, a una serata a poker, riuscì a essere presentato l’indomani al proprietario della pubblicazione, Rudolf Augstein. Il giovane italiano, che i tedeschi chiamavano spregiativamente ‘spaghetti’, sedusse con il suo brio gli interlocutori e ottenne un contratto da corrispondente dall’Asia. Fu l’inizio di una collaborazione stabile, in marchi (all’epoca una delle valute più forti al mondo), che gli permise di lavorare e vivere con la famiglia in Asia per i successivi trent’anni. Prima a Singapore, da cui coprì la guerra in Indocina, poi a Hong Kong, porta per la Cina, a Pechino dal 1980 al 1984, nuovamente a Hong Kong, poi a Tokyo, a Bangkok e infine a Nuova Delhi. Scriveva in inglese o in un tedesco che lui stesso definiva ‘maccheronico’, mentre Angela traduceva e sistemava in tedesco. Nel corso dei decenni Terzani collaborò a numerose testate italiane (ancora Il Giorno, di cui nel frattempo era diventato direttore Gaetano Afeltra, la RAI dove lavorava Furio Colombo, Il Messaggero dove ritrovò Pietra, l’Espresso, La Repubblica fondata da Eugenio Scalfari e infine il Corriere della sera. Gli facevano buoni contratti, gli pagavano i contributi INPGI (Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani) per la pensione e l’assicurazione con la Casagit, l’allora ottima e assai generosa Cassa dei giornalisti italiani, ma nessun giornale italiano lo assunse, nemmeno quando era diventato una firma importante e un personaggio famoso. Fu per lui un motivo di cruccio, quanto la disattenzione che, specie all’inizio della sua carriera (ma non solo), alcune di queste testate mostravano per gli articoli da lui proposti e, soprattutto, per gli argomenti che gli stavano più a cuore.
Terzani ebbe la fortuna di non trovarsi in Cambogia al momento della caduta di Phnom Penh per mano dei khmer rossi il 17 aprile 1975 (toccava quel giorno a lui fare il ‘piccione’ viaggiatore, portare a Bangkok i dispacci dei colleghi da trasmettere ai rispettivi giornali). La circostanza gli consentì di sopravvivere (si contavano già 9 giornalisti stranieri morti e 23 scomparsi nella guerra cambogiana). Ancora fortunato fu quando cercò di forzare la mano alla sorte traversando il confine via terra, facendosi catturare da una pattuglia khmer e sfuggendo per un pelo alla fucilazione. Ma la fortuna più grande fu che il fatto di non poter coprire la Cambogia gli consentì di trovarsi a Saigon al momento dell’ingresso in città dei nordvietnamiti, il 30 aprile 1975. Al ritorno in Italia scrisse a Orsigna, per Feltrinelli, il suo primo libro di grande successo: Giai Phong! La liberazione di Saigon (Milano 1976). Seguiva Pelle di leopardo. Diario vietnamita di un corrispondente di guerra 1972-1973, scritto, sempre per Feltrinelli, tre anni prima.
Fu continuamente ripubblicato negli anni, in diverse lingue e Paesi, con titoli che cambiavano con il progredire della percezione degli avvenimenti: all’inizio era la ‘liberazione’, poi divenne ‘caduta di Saigon’. Cambiavano anche le sue opinioni. Era di quelli che non avevano paura di dire: «Mi sono sbagliato», per quanto l’ammissione potesse essere dolorosa. Ma ci fu chi per questo lo rimproverò.
La fama, e l’apertura della Cina dopo la morte di Mao e la fine della Rivoluzione culturale, convinsero Der Spiegel ad aprire, primo settimanale occidentale, un ufficio a Pechino nel 1980, e gli consentirono di realizzare il sogno per cui si era preparato per anni, sogno che si sarebbe interrotto brutalmente nel febbraio del 1984, quando, di ritorno a Pechino da Hong Kong, dove aveva già trasferito moglie, figli, il cane Baolì, e portato dalla Toscana anche il vecchio padre malato, venne arrestato, poi rilasciato ai domiciliari dopo l’intervento delle autorità diplomatiche italiane, sottoposto a defatiganti sessioni di autocritica per iscritto, infine giudicato «inadatto a vivere in Cina».
L’episodio rimane ancora inspiegato. L’accusa che gli venne formalizzata era aver acquisito illegalmente antichità cinesi. Non regge, così come non regge l’ipotesi che ce l’avessero con lui per quello che scriveva. Non era il solo ad amare le antichità cinesi, né il solo a scrivere e pubblicare cose sgradite. Tutti sapevano, in base all’esperienza passata, che poteva essere qualsiasi altra scusa, a piacere della polizia e dei servizi: dallo spionaggio all’attività ‘controrivoluzionaria’, dal traffico di droga alla violenza carnale. Negli anni Cinquanta un italiano, Antonio Riva, un tedesco e un giapponese erano stati fucilati, altri, come il facente funzione di nunzio apostolico monsignor Tarcisio Martina e il celebre editore francese Henri Vetch, erano stati condannati a dure detenzioni che li portarono alla follia e sull’orlo del suicidio in base ad accuse assurde e inesistenti, tipo aver progettato un attentato contro Mao in piazza Tienanmen.
Terzani se la cavò con una multa e l’espulsione (sarebbe tornato in Cina nel 1989, via Shanghai con un visto turistico, per coprire la strage di piazza Tienanmen). Lui, che era stato così innamorato della Cina, si sentì tradito e non perdonò mai l’affronto subito. Ma riuscì a trasformare la più grave e penosa sconfitta della sua vita professionale in un blessing in disguise, una benedizione sotto mentite spoglie (l’espressione è sua). Fu torchiato per chiarimenti, e assolto con formula piena, dalla redazione di Der Spiegel. Raccolse in volume gli articoli che aveva scritto in quegli anni per il settimanale, compresi gli straordinari reportage sulla distruzione di Pechino e il Tibet, nonché il resoconto, di pugno di Folco e Saskia, ancora neppure adolescenti, della loro esperienza nelle scuole cinesi. In italiano vennero pubblicati nel 1984 da Longanesi con il titolo La porta proibita.
Non sarebbe mai riuscito a innamorarsi del Giappone, la sua successiva destinazione, come lo era stato della Cina, del Vietnam e della Cambogia. Il Giappone non si limitava a respingerlo, il che avrebbe rappresentato una sfida a conquistarlo. Lo deprimeva, cosa a cui non c’era rimedio. Ma non aveva perso l’abitudine, fondamentale per un giornalista, di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Assistette alla rivolta contro la dittatura di Marcos nelle Filippine, al passaggio dalla dittatura all’elezione a presidente dell’ex prigioniero politico Kim Dae Jung in Corea del Sud, alla resistenza di Aung San Suu Kyi alla dittatura dei militari in Birmania. Riuscì a trovarsi invitato nel 1991 a una spedizione lungo l’Amur (o Heilongjiang, fiume del Drago nero, per i cinesi) che segna il confine tra la Siberia e la Cina. Era l’agosto del 1991, l’estate del golpe contro Gorbačëv e della di poco successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica. Decise di raggiungere dalla Siberia Mosca, attraversando l’intera Asia centrale sovietica. Non poteva scrivere articoli perché Der Spiegel aveva già un corrispondente a Mosca. Scrisse invece su quel viaggio un libro, dichiaratamente modellato sui resoconti dei viaggiatori ottocenteschi o del primo Novecento di cui era piena la sua biblioteca personale raccolta nel corso di decenni: Buonanotte, signor Lenin, pubblicato nel 1992 da Longanesi e corredato da «47 fotografie dell’autore», scattate con la sua inseparabile Leica.
Un altro incontro decisivo era stato, nel 1981, quello con Mario Spagnol, direttore editoriale della Longanesi, che andò a trovarlo durante la vacanza estiva a Orsigna. Era stato incaricato da Luciano Mauri di rilanciare la casa editrice con nuovi autori. Non riuscì allora a convincere Terzani a lasciare il giornalismo per fare lo scrittore, ma lo inseguì per telefono e di persona, in Cina, in Giappone, e poi fino in India, e da allora in poi Longanesi pubblicò tutti i suoi libri. Dal monito a non viaggiare in aereo nel 1993 nacque Un indovino mi disse (Milano 1995). Nell’estate del 1998 tutte le librerie d’Italia erano tappezzate da una sagoma di cartone riproducente a grandezza naturale una foto di Teizani per il lancio della raccolta In Asia. Del 2002 è Lettere contro la guerra, dopo che Terzani, già pensionato e malato (gli era stato diagnosticato nel 1997 un cancro allo stomaco), interruppe il suo eremitaggio presso l’antica stazione climatica dei coloni inglesi sull’Himalaya per accorrere a coprire, per il Corriere di Ferruccio de Bortoli, la guerra americana in Afghanistan. Del 2004 è Un altro giro di giostra, in cui raccontò la sua malattia, e ne fece pretesto di nuovi viaggi di esplorazione e di introspezione. L’unico libro che non riuscì a promuovere di persona, incontrando i lettori in tutte le città, in tutti i festival letterari, su tutti gli schermi e teleschermi, è La fine è il mio inizio, che può essere considerato l’ultima sua fatica, prima di ‘lasciare il suo corpo’ il 28 luglio 2004 nella gompa tibetana che si era costruito nel giardino della casa di Orsigna.
Dal 2012 gran parte della biblioteca privata (6000 volumi su Cina, Giappone, India e Indocina) è stata donata dalla famiglia alla Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, assieme all’archivio personale, ai faldoni con i ritagli degli articoli pubblicati, a manoscritti, taccuini (oltre 400), floppy disk, migliaia di foto e altro materiale in via di catalogazione.
Fonti e Bibl.: I libri e una scelta dei primi articoli pubblicati in vita sono contenuti nei due volumi di Tutte le opere, I, 1966-1992, e II, 1993-2004, a cura di À. Loreti, con un saggio introduttivo di F. Cardini, collana Meridiani della Mondadori, Milano 2011. La ‘cronologia’ di Loreti contenuta nel primo di questi volumi, poi ampliata e pubblicata a sé nel 2014 in un Oscar Mondadori, è il lavoro più completo e rigoroso sulla biografia di Terzani. Àlen Loreti, che pure non ha mai conosciuto Terzani di persona, ha avuto accesso a tutto il pubblicato e non pubblicato, compresi le foto, gli appunti, i floppy disk, i video, le registrazioni conservate nella casa fiorentina dei Terzani e a Orsigna. Sempre a sua cura è la pubblicazione di una scelta dei diari inediti, conservati in dattiloscritti e poi in formato elettronico: T. Terzani, Un’idea di destino, prefazione di A. Staude Terzani, Milano 2014. Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia, che contiene i testi sul massacro cambogiano, è stato pubblicato nel 2008 da Longanesi, con uno scritto di Angela Staude Terzani. Nel 2017 è stata pubblicata per TEA la raccolta di testimonianze, molte niente affatto agiografiche: Diverso da tutti e da nessuno. Tiziano Terzani sul campo nella testimonianza di amici e colleghi. Troppo numerosi gli altri contributi e ricordi perché in questa sede li si possa anche solo elencare. Loreti aggiorna periodicamente una bibliografia. Un mondo che non esiste più, fotografie e testi scelti da F. Terzani, Milano 2010, riproduce una selezione delle foto scattate in Asia. C’è anche una nutrita filmografia, oltre alle innumerevoli interviste in televisione: Hôtel Continental. C’era una volta Saigon (1995) di L. Manfrini (documentario, Svizzera, 57’); Anam il senzanome. L’ultima intervista a Tiziano Terzani (2005) di M. Zanot; Tiziano Terzani. Il kamikaze della pace (2009) di L. Manfrini - W. Baggi; Das Ende ist mein Anfang (2011; La fine è il mio inizio) di J. Baier, scritto da F. Terzani - U. Limmer; Tiziano Terzani. Una vita sopra le righe (2015) di M. Bernardi.