Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nasce "Tiziano con la verità pittoresca nel cuore", così lo rammenta Anton Maria Zanetti il Giovane nel 1771, e tale vocazione lo conduce a penetrare con "sagace tranquillità i più alti misteri dell’arte". La "viva" e sensibile rappresentazione della natura, restituita sulla tela con un’altissima sapienza coloristica, ne fa uno dei principali protagonisti (insieme a Jacopo Tintoretto, Paolo Veronese e Jacopo Bassano) del cosiddetto "secolo d’oro" della pittura veneziana.
Da Pieve di Cadore a Venezia: gli inizi
“Tiziano veramente è stato il più eccellente di quanti hanno dipinto: poiché i suoi pennelli sempre partorivano espressioni di vita”. Così Marco Boschini ne Le ricche minere della pittura veneziana (1674) ricorda l’artista, la cui data di nascita oscilla per la critica tra il 1480 e il 1490. Da Pieve di Cadore nelle montagne bellunesi, ancora giovanissimo si trasferisce a Venezia, dove è allievo di Gentile e Giovanni Bellini. L’ambiente lagunare – dominato da Giovanni e dalla stella nascente di Giorgione – lo indirizza da subito verso una pittura naturalistica di tipo tonale, influenzata anche da transalpini come Albrecht Dürer. Fin dalla prima importante impresa in collaborazione con Giorgione – i perduti affreschi sulle facciate del Fondaco dei Tedeschi a Rialto (1508-1509) – Tiziano fornisce prova di quella sensibilità cromatica che lo avrebbe reso il “maggiore imitatore della natura nelle cose de’ colori”, secondo il giudizio di Sebastiano del Piombo riportato da Giorgio Vasari. In breve tempo egli conquista la committenza lagunare, tanto da ottenere nel 1516, alla morte di Giovanni Bellini, la prestigiosa nomina di pittore ufficiale della Serenissima.
Dopo il 1527, grazie anche all’appoggio dell’amico Pietro Aretino giunto a Venezia per sfuggire al Sacco di Roma, la sua fama si diffonde oltre i confini della Repubblica, valendogli importanti incarichi da parte di principi e sovrani italiani ed europei, di cui sa interpretare i gusti e le più intime aspirazioni, tanto con dipinti a carattere sacro che profano. Ne sono esempio le opere realizzate per Alfonso d’Este e Isabella Gonzaga, per le famiglie Della Rovere e Farnese, per l’imperatore Carlo V e per il figlio Filippo II. A quest’ultimo si deve in particolare la commissione di una serie di "poesie" mitologiche, a cui il pittore lavora dal 1550 fino alla morte, avvenuta a Venezia nel 1576 a causa della peste. Durante la sua lunga esistenza, coadiuvato da una bottega ben organizzata, egli riesce a far fronte alle numerose richieste, brillando in particolar modo nell’ambito della ritrattistica. Le opere di Tiziano appartenenti a questo genere sono apprezzate per la somiglianza fisica e per i tratti psicologici dei personaggi.
Secondo Vasari Tiziano fa propria fin dagli esordi la pittura di macchia giorgionesca, che a giudizio del biografo toscano per la prima volta non utilizza un disegno preliminare, saltando dall’ideazione all’esecuzione. Costruita "solo con i colori", tale pittura è perciò in grado di conferire alle "opere più morbidezza e maggior rilievo". Assenti il segno grafico e le ombre scure, il volume delle figure viene costruito solo grazie all’accostamento di concordi e sfumati toni di colore. Impadronitosi di tale pratica, Tiziano l’avrebbe impiegata per creare immagini particolarmente sensuali e naturalistiche, percorse da impetuosi moti di vita. Le sue monumentali figure sono fuse entro vibranti brani paesaggistici.
L’eterna pastorale veneta era destinata però a finire. Intorno agli anni trenta del Cinquecento la poetica di Tiziano si discosta da tale sereno classicismo nel tentativo di avvicinarsi alla "maniera moderna", stimolato anche dalla conoscenza di artisti giunti a Venezia dopo il sacco di Roma, come Francesco Salviati, Giorgio Vasari e Jacopo Sansovino. Durante il periodo della cosiddetta "svolta manieristica" il pittore privilegia composizioni animate da complesse direttrici diagonali, atte ad accentuare il carattere dinamico della scena. Le figure, sempre più eroiche e gigantesche, risultano percorse da tormentate ed estenuanti torsioni, mentre l’uso di luce e colore si fa sempre più audace e contrastato.
L’ultima fase di Tiziano ha inizio intorno alla seconda metà degli anni Quaranta. È un periodo caratterizzato dalla ricerca di una nuova cifra stilistica ed espressiva, che spinge il pittore a rinunciare alla definizione delle immagini. Ciò avviene in favore di un sempre più accentuato processo di dissolvimento delle forme nello sfondo, per mezzo di rapide pennellate. Frequenti sono le parti non finite, di cui il pittore si avvale per ottenere inusuali risultati espressivi. Secondo Vasari questo tipo di pittura non è concepito per essere osservato da vicino, poiché solo da lontano macchie e pennellate si ricompongono, rivelandosi in tutta la loro straordinaria essenza di realtà ricreata sulla tela. Dalle atmosfere "sfumate" della giovinezza, vicine ai modi di Giorgione, la materia pittorica giunge così a una sorta di deflagrazione, alla dissoluzione della forma nell’ambiente, paragonabile al non-finito di Michelangelo che, da premesse di fusione atmosferica di origine leonardesca, approda all’"informe" Pietà Rondanini. L’ultima eredità di Tiziano non manca d’influenzare profondamente pittori contemporanei, come Jacopo Bassano e El Greco, e dei secoli successivi, come Rubens, Velázquez, Rembrandt, Vermeer e Watteau, fino ai più tardi impressionisti, che non tralasciano di cogliere le peculiarità di questo modo di dipingere "bello e stupendo, perché fa parere vive le pitture".
L’eterna pastorale veneta
Tra le opere della giovinezza, il Concerto campestre (1509-1510) si distingue per il naturalismo sensuale e per il carattere allegorico dell’immagine ascrivibile alla cultura umanistica veneziana del primo Cinquecento. La scena è immersa in un paesaggio collinare, ove un elegante giovane vestito di rosso è intento ad armonizzare il proprio liuto con il flauto di una Musa ignuda, mentre sulla sinistra un’altra figura muliebre ne tempera l’accordo, miscelando i suoni nell’acqua della fonte. In base alla concezione pitagorico-platonica, la critica ha scorto nella composizione una metafora dell’armonia musicale, intesa come riflesso di quella universale. La melodia è però interrotta dall’intromissione di un rozzo pastore che, lasciato il compagno e il suo gregge, distrae i due musicisti, divenendo il simbolo dell’assimilazione degli elementi popolari ai generi musicali. Sulla scia di Giovanni Bellini, di Giorgione e della pittura nordica, Tiziano colloca l’evento in un ampio paesaggio: la successione dei declivi delle colline, costellate di villaggi e boschetti, si stempera nell’azzurro della pianura e in quello delle montagne, mentre una luce calda e dorata conferisce un’atmosfera d’arcadica serenità.
Anche in Amor sacro e Amor profano (1514-1515) Tiziano interpreta il soggetto in chiave allegorica. Secondo l’interpretazione corrente l’opera viene commissionata in occasione del matrimonio di Laura Bagarotto e Niccolò Aurelio. Un’unione di non facile riuscita, dato che quest’ultimo, in qualità di magistrato, aveva condannato a morte il padre e il primo marito della donna, accusati di tradimento nei confronti della Repubblica di Venezia. Il dipinto mirava dunque a ben disporre Laura verso le prossime nozze, attraverso le personificazioni di Venere Mondana e Venere Celeste. La prima, rappresentata vestita, era l’emblema, secondo la dottrina neoplatonica, della perfetta sposa in ambito pubblico. La seconda, ignuda, esaltava lo stesso ruolo nella dimensione privata. Per favorire il superamento di ogni contrasto, il pittore raffigurò due simboli della morte trasfigurata in nuova vita: Amore, intento a miscelare le acque di una fonte-sarcofago, e una coppia di conigli. Si tratta di una composizione dal perfetto equilibrio classico, ambientata in uno squarcio paesaggistico e dominata dalle due monumentali figure in primo piano, che, secondo i precetti della pittura tonale, sono caratterizzate dall’accostamento d’intense stesure di colore. La loro forza plastica è garantita dalla luce. Questa, provenendo da destra, ne "scolpisce" le masse, facendole risaltare contro la penombra più scura della vegetazione retrostante.
La consacrazione dell’artista
La prima importante commissione pubblica del pittore a Venezia è costituita dalla pala dell’ Assunta (1516-1518) per l’altar maggiore della basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Il tema dell’Assunzione è sviluppato secondo modalità inedite che dichiarano l’aggiornamento del pittore rispetto alla coeva arte romana. Originale è l’interpretazione dell’episodio che si svolge in maniera estemporanea sotto gli occhi del fedele. La scena è organizzata su tre diversi livelli. In quello inferiore sono ritratti gli apostoli che assistono all’evento soprannaturale, esternando i vari moti dell’animo. L’epifania ha luogo nell’ordine intermedio, ove in una gloria d’angeli si eleva la Vergine, colta nell’estasi della visione divina, le vesti scompigliate in un moto spiraliforme dal fremito della salita verso le vastità celesti. Nella parte superiore, in un emiciclo di luce e cherubini, l’Eterno, scorciato in maniera ardita, l’attende per incoronarla Regina del Cielo.
Tiziano inventa uno schema compositivo complesso, amplificato nel suo dinamismo dall’infinita gamma di pose, gesti e stati d’animo dei protagonisti. Le figure conquistano lo spazio attraverso articolate torsioni corporee, ispirate a Michelangelo e Raffaello. Anche la sensibilità coloristica si discosta dalle usuali assonanze tonali, utilizzando accesi contrasti cromatici. Tiziano nell’Assunta si avvale di una pennellata larga e corposa, quasi sanguigna, priva di netti contorni. L’umanità dei personaggi, e in particolare della Vergine, ne è così esaltata. Un afflato simile nelle premesse, ma profondamente diverso negli esiti, rispetto al Raffaello della Madonna Sistina o della successiva Trasfigurazione, che sono sì animate dal pulsare della vita, ma restituite con una materia levigata e "incorruttibile".
Nella basilica dei Frari il pittore realizzò anche la pala per l’altare della nobile famiglia veneziana dei Pesaro (1519-1526), ove devozione e celebrazione gentilizia s’intrecciano indissolubilmente. A fianco delle tradizionali figure della Vergine con Bambino e santi è infatti presente una vera e propria galleria di ritratti della famiglia Pesaro. In particolare sulla sinistra Tiziano raffigurò il vescovo Jacopo, che fu anche alla guida delle navi pontificie, sconfiggendo nel 1502 i Turchi nella battaglia di Santa Maura. Sulla destra, tra gli altri esponenti del casato rappresentati di profilo, si staglia la bellissima figura del giovane Leonardo, che volgendosi verso l’esterno instaura, guardando "in macchina", un rapporto diretto con l’osservatore. Con tale prova, memore della tela per l’altar maggiore di San Giovanni Crisostomo opera di Sebastiano del Piombo (1510-1511), si rinnova profondamente il genere della pala d’altare. Infatti, alla tradizionale impostazione che prevedeva un’ordinata disposizione dei santi attorno a una figura centrale, Tiziano preferisce una composizione asimmetrica, organizzata lungo l’asse diagonale che da Jacopo Pesaro conduce, attraverso l’intercessione di san Pietro, alla Vergine con il Bambino. La scena acquista così imponenza e dinamicità, amplificate dal punto di vista ribassato, dalla visione in tralice della gradinata del trono e dalla fuga prospettica delle colonne che appare priva di conclusione.
La crisi manierista
La Coronazione di spine (1540-1542) è una delle opere della cosiddetta "svolta manieristica" del pittore. Fu approntata per la chiesa milanese di Santa Maria delle Grazie, luogo in cui si conservava la reliquia di un frammento della corona di spine. Dal complesso incrocio delle diagonali formate dai corpi della vittima e dei suoi aguzzini scaturisce un’enfasi drammatica, accentuata dalle espressioni e dagli stati d’animo dei protagonisti. In particolare, sulla scorta dell’Umanità di Cristo (1535) del letterato Pietro Aretino, amico del pittore, Tiziano volle evidenziare la natura umana di Cristo ponendo sulla tela la rappresentazione della concreta e lacerante sofferenza del figlio di Dio.
Il dipinto segna l’abbandono del naturalismo in favore di un aggiornamento sulle ultime novità romane, come dimostrano le torsioni e la pronunciata plasticità delle figure, e, su tutte, quella di Gesù, per la quale Tiziano sembra essersi ispirato al gruppo ellenistico del Laocoonte. Costruite mediante forti contrasti di luci e ombre, le forme risaltano sul cupo fondale architettonico, ben lontano, anche per la drammaticità dell’evento, dagli idilliaci paesaggi degli esordi.
La Coronazione di spine è la prova fremente di come Tiziano sia rimasto colpito dal passaggio lagunare dei "demoni etruschi" (da Francesco Salviati a Giorgio Vasari), campioni degli avvitamenti serpentini propri dello stile manierista, e risponde a suo modo a questa provocazione, così come a suo modo risponde all’inquieto clima religioso, che giusto negli anni quaranta del Cinquecento vedeva istituiti i tribunali dell’Inquisizione e pronunciate le prime condanne per eresia anche a Venezia, mentre tuonavano le prime censure al Giudizio di Michelangelo.
Al protagonista della reazione cattolica verso la Riforma luterana è dedicata la tela raffigurante Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese (1546), tra le opere più significative della ritrattistica tizianesca. In questo genere il pittore aveva raggiunto la massima notorietà grazie a uno straordinario naturalismo e alla capacità di fissare sulla tela, al contempo, il rango sociale e gli stati d’animo più profondi dell’effigiato. Il dipinto intende volutamente competere con il ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi De’ Rossi di Raffaello (1518 ca.), rappresentando l’anziano papa in compagnia dei nipoti. Alla sinistra di Paolo III si colloca il cardinale Alessandro, all’epoca destinato a succedergli, e a destra Ottavio, sovrano del nuovo Ducato di Parma e Piacenza. La tela si configura allora come il manifesto della politica nepotistica del pontefice, e la destrezza dell’artista sta nel rendere realistico l’incontro fra i personaggi, indagandone l’ambiguità dei rapporti. A Tiziano non sfuggono infatti la bramosia del prelato e l’adulazione del duca nei confronti del potente nonno. Quest’ultimo, nonostante l’età avanzata, cui allude anche la clessidra posta sul tavolo, appare vigile e saldamente ancorato al proprio seggio.
Verso il dissolvimento delle forme
Dopo la "svolta manieristica" degli anni Quaranta, l’artista si avvia verso una nuova modalità espressiva, identificabile con il graduale dissolvimento delle forme e con un uso meno naturalistico del colore. La gamma cromatica risulterà infatti giocata tutta sui toni del rosso, del bianco e del nero.
Due anni dopo la commissione Farnese, Tiziano si reca ad Augusta in Baviera per dipingere il ritratto di Carlo V a cavallo (1548). L’opera è ascrivibile al genere del ritratto di Stato, che si prefiggeva, attraverso l’ambientazione aulica e la rappresentazione delle insegne del potere, di esprimere l’elevato status sociale dell’effigiato. Tiziano raffigura l’imperatore a cavallo. Si allontana così dagli usuali ritratti a figura intera o di tre quarti, ispirandosi alla statua equestre dell’imperatore-filosofo per eccellenza, Marco Aurelio, al quale Carlo V amava paragonarsi. Questi è colto nel momento precedente la vittoriosa battaglia di Mühlberg (1547) contro i principi protestanti, quando, lancia alla mano, si avvia verso il campo di combattimento, impassibile e solo, pronto a fronteggiare qualsiasi avversità nel nome della vera fede. Il grandioso brano di natura e il cielo corrusco alle sue spalle esaltano la solennità dell’evento. Solo l’acqua sullo sfondo pare alludere al fortunato esito dello scontro, determinato dal passaggio del fiume Elba da parte delle truppe imperiali.
A partire dagli anni Cinquanta, Tiziano si isola sempre più dietro una barriera di incomprensione nei confronti dell’ambiente pittorico lagunare, preferendo dedicare le proprie fatiche a principi e sovrani stranieri, in particolare al monarca spagnolo Carlo V e al figlio Filippo II.
Il Supplizio di Marsia (1570-1576) chiude il ciclo delle "poesie" ispirate alla mitologia ovidiana, una serie di dipinti eseguiti quasi esclusivamente per Filippo II dal 1550 fino alla morte del pittore. Allontanandosi dalla tradizionale lettura del mito in termini di diletto ed evasione, Tiziano affronta le antiche "favole" in maniera personale e pessimistica, ritraendo per lo più storie di uomini e semidei costretti a soggiacere alla volontà o al giudizio di dèi ingiusti e capricciosi. È così, ad esempio, nel caso delle tele raffiguranti Diana e Atteone o in quella del Ratto d’Europa. Nel Supplizio di Marsia il pittore rappresenta l’orrenda fine del satiro che, dopo avere perso incautamente la contesa musicale con Apollo, viene scorticato vivo dalla stessa divinità e da un suo occasionale aiutante. Sulla destra è presente Mida, il re che ha assistito a un altro agone musicale di Apollo, quello con Pan, nel quale si è guadagnato le orecchie d’asino per essersi pronunciato a favore del dio delle selve. In tale melanconica figura è individuato un possibile autoritratto di Tiziano, intento a meditare sull’incerto destino umano, riflesso nello sguardo vacuo e attonito dello sventurato Marsia.
L’opera, ispirata a un affresco di Giulio Romano per Palazzo Te a Mantova, ben illustra gli esiti dell’ultimo Tiziano, quando l’artista costruisce l’immagine tramite sciabolate di luce e colore. I pigmenti, applicati anche con le dita, divengono in tal modo veri e propri brandelli di esistenza trasferiti sulla tela.
Il "testamento" pittorico
La Pietà (1570-1576) era destinata a un altare della basilica dei Frari a Venezia in prossimità del quale il pittore intendeva essere sepolto, nella stessa chiesa che aveva accolto gli smaglianti capolavori giovanili dell’Assunta e della pala Pesaro. Come nel Michelangelo-Nicodemo della Pietà Bandini, anche Tiziano vuole raffigurarsi vicino al Cristo morto, ritraendosi nel vecchio inginocchiato ai suoi piedi, forse identificabile con san Girolamo. Introdotta dal gesto disperato e teatrale della Maddalena, l’immagine intende esaltare il ruolo salvifico di Gesù, immolatosi per la redenzione dell’umanità, al pari del pellicano che appare nel catino absidale retrostante, costruito con grassi tocchi di pennello intrisi di luce, un omaggio agli antichi mosaici bizantini della basilica di San Marco. Nel dipinto si possono cogliere due caratteristiche peculiari dell’estrema produzione di Tiziano: da un lato l’ambientazione quasi crepuscolare, rischiarata da violenti effetti luministici, che persegue risultati simili a quelli del rivale Tintoretto; dall’altra, le forme dei corpi e delle cose create per mezzo di "colpi" e grandi "macchie" di colore che si fa materico.