tolleranza
Il problema della t., come accettazione della molteplicità delle religioni e, di conseguenza, la necessità di un loro convivere libero e autonomo, è caratteristico della storia della cultura occidentale in Età moderna. Nel mondo classico greco e romano non esistette un vero e proprio problema della t., per la natura stessa della religione delle città greche e dello Stato romano, non rivelata né dogmatizzata, tale quindi da poter facilmente assorbire in sé divinità e culti stranieri o nuovi; tutt’al più si ebbero singoli episodi d’intolleranza, in relazione a questioni politiche, sociali, di ordine pubblico (come, per es., la proibizione dei baccanali in Roma, nel 2° sec. a.C.). Anche l’atteggiamento ostile verso il cristianesimo da parte dell’impero non si configurò tanto come vera e propria intolleranza religiosa, quanto come reazione al comportamento dei cristiani verso i culti dello Stato. Nella tradizione biblica invece, il problema è più complesso, perché atteggiamenti di t. coesistono con nette condanne dell’idolatria. Anche il cristianesimo, che si poneva come religione rivelata, e quindi come portatore dell’unica verità, non poteva ammettere la coesistenza del paganesimo, del giudaismo, del manicheismo. Costituita e rinsaldata la compagine della Chiesa, divenuto il cattolicesimo religione ufficiale dell’impero, poi degli Stati barbarici, l’eresia si configurò come crimine pubblico, da perseguirsi necessariamente. Nel Medioevo, lo Stato non era meno deciso della Chiesa nel difendere l’ortodossia; il rinato culto del diritto romano nel sec. 12° portava alla riesumazione delle norme giustinianee, mentre la codificazione canonica da Graziano in poi accentuava la concezione invalsa, cui corrispondeva una prassi negatrice della tolleranza. A favore di questa è un pensatore, Marsilio da Padova, che distingue la legge divina da quella umana, e fa della prima unico giudice Dio; la Chiesa non è strumento di imperio, ma solo di magistero e pertanto non le compete la coercizione delle anime. Il clima in cui si formò l’esigenza precisa della t. religiosa fu, nel Cinquecento, quello della Riforma, in relazione alla libertà di culto concessa dal principe ai sudditi di religione differente. Con la Pace di Augusta (1555), a conclusione della guerra di Smalcalda, il diritto di definire la confessione religiosa dello Stato passava dall’imperatore ai principi, investiti dello ius reformandi nel territorio a loro soggetto; ai dissidenti era solo riconosciuta la possibilità di emigrare con i loro beni verso i luoghi dov’era professata la loro fede. Un esito diverso ebbero le guerre di religione in Francia, dove una serie di editti di t. a garanzia della nobiltà calvinista e delle sue libertà culminò nell’Editto di Nantes del 1598; ma ciò non impedì in seguito la restaurazione dell’unità religiosa del regno, col sopravvento del principio monarchico-assolutistico. Richelieu sottrasse agli ugonotti le garanzie concesse e sciolse le loro guarnigioni, pur riconoscendone i diritti religiosi e civili (1629); Luigi XIV revocò (1685) completamente l’Editto di Nantes. Uno sviluppo analogo a quello francese si verificò in Polonia, dove la Dieta di Varsavia (1573) riconobbe eguali diritti alla Chiesa cattolica, all’Ecclesia maior (che riuniva calvinisti, luterani e Fratelli boemi) e all’Ecclesia minor (anabattisti antitrinitari). Anche nel principato di Transilvania, indipendente dagli imperi ottomano e asburgico, la complessa realtà nazionale e religiosa favorì una sistemazione giuridica particolare, caratterizzata da un’ampia libertà di culto (dieta di Torda, 1568). Ma già sul finire del secolo la restaurazione religiosa, efficacemente promossa attraverso l’ordine dei gesuiti in tutta l’Europa centrorientale, e insieme l’affermazione del «sarmatismo» tradizionalista nella cultura e nella società polacca ruppero l’equilibrio delle forze tra le varie confessioni e resero gradualmente inoperanti i principi della libertà di culto. Già precedentemente a questi atti legislativi si era presentata nel pensiero filosofico religioso l’esigenza di conciliare le aspirazioni individuali alla libertà di pensiero nel campo religioso e filosofico con gli interessi della società civile e dello Stato. Ne sono testimonianza, oltre agli accenni liberali presenti in autori come N. Cusano, M. Ficino, P. Pomponazzi, L. Valla, G. Bruno e T. Campanella, le problematiche dibattute in Francia da quello che fu chiamato «partito dei politici» (di cui era esponente, tra gli altri, il cancelliere Michel de L’Hospital, autore della Exhortation aux princes), dai seguaci della tradizione erasmiana (S. Castellion, C.S. Curione, M. Celsi) e dello spiritualismo anabattista (K. Schwenckfeld). In particolare, il supplizio di M. Serveto a Ginevra provocò una profonda impressione nelle file degli emigrati italiani e trovò la sua forma letteraria nel De haereticis, an sint persequendi (1554) di Castellion. Contemporaneamente la teoria del consenso generale di G. Acóncio e il pragmatismo religioso di L. Sozzini affermavano una concezione della vita religiosa tendente a esaltare il valore della carità, e a riporre in poche verità essenziali il fondamento comune delle varie confessioni. Tale indirizzo, che si ispirava alla distinzione erasmiana tra elementi essenziali e indifferenti (adiaphora), trovò nel sec. 17° una vasta risonanza europea e, dopo essere stato ripreso in Inghilterra da Herbert of Cherbury e nella Germania protestante da varie accademie, si affermò nel movimento del deismo che identificava il cristianesimo, epurato da dogmi e misteri, con la stessa religione naturale. Negli ultimi decenni del Seicento l’idea di t. si matura in ambienti diversi: B. Spinoza nel Tractatus teologico-politicus difende la libertà di pensiero e limita i poteri dello Stato alle cose e azioni esterne, così da salvaguardare il diritto di ciascuno a esprimere il proprio pensiero anche in materia di religione; J. Locke, impegnando lo Stato a garantire e promuovere i beni civili, sottrae alla sua competenza le scelte dettate dalla coscienza di ciascuno e separa nettamente i compiti dello Stato da quelli della Chiesa, che nello Stato non può trovare alcun appoggio per le sue decisioni; la libertà individuale trova un limite nelle situazioni in cui l’esercizio della libertà di coscienza porterebbe danno alla salute pubblica (esclusione, dunque, dei papisti dalla pacificazione religiosa). Nella cultura francese l’idea di t. si afferma soprattutto attraverso la polemica di P. Bayle contro il dogmatismo e contro la pretesa di imporre con la forza convincimenti religiosi (soprattutto nel commento filosofico sulle parole di Gesù compelle intrare); d’altra parte il giusnaturalismo, con S. Pufendorf e ancor più nettamente con C. Thomasius, difende la t. limitando la sfera del diritto, e quindi dello Stato, all’ordinamento giuridico e al potere esecutivo, e quindi sottraendo al potere statuale tutto l’ambito della coscienza individuale (morale e religiosa) e negando alla Chiesa il diritto di esercitare, direttamente o indirettamente attraverso lo Stato, un potere esecutivo nei confronti dei pochi fedeli. Nell’età dell’Illuminismo, la battaglia per la t. fu uno degli aspetti fondamentali della polemica contro il dogmatismo, il fanatismo e la superstizione e influì negli orientamenti costituzionali della Rivoluzione. Di pari passo all’evoluzione degli atteggiamenti intellettuali, principi di libertà sono accolti nelle dichiarazioni di diritti che segnano la storia costituzionale dell’area atlantica: nel 1649 la colonia cattolica del Maryland promulgò un Atto di tolleranza; nel 1789 l’Assemblea costituente francese proclamò la libertà di coscienza tra i diritti dell’uomo; nel 1791 seguì la Costituzione federale degli Stati Uniti d’America. Nel sec. 19°, acquisito il diritto del singolo a professare la fede ed esercitare il culto, la t. si configura piuttosto come libertà della Chiesa o delle Chiese nei loro rapporti col potere statale.
Si veda anche Intolleranza/tolleranza