Tolomea
Nome (If XXXIII 124) della terza delle quattro sezioni in cui è distinto il nono cerchio dell'Inferno dantesco. Secondo la maggior parte dei commentatori antichi (a cominciare da Iacopo) e moderni, tale nome deriverebbe dal biblico Tolomeo (I Machab. 16, 11-16), governatore della provincia di Gerico, il quale, invitati a banchetto il suocero Simone, sommo sacerdote, e i figli di lui Matatia e Giuda, li fece uccidere a tradimento. Ma già dalle Chiose Selmi e dall'Ottimo viene avanzata l'ipotesi (accolta anche da qualche moderno) che D. si riferisca invece a Tolomeo re di Egitto, che fece o lasciò assassinare Pompeo, rifugiato presso di lui. La prima spiegazione sembra più probabile, specie se si tiene conto della natura delle colpe commesse dai dannati, frate Alberigo, Branca Doria e il prossimano di costui, che D. nomina in questa zona. Va ricordato, tuttavia, che al tradimento di Tolomeo egiziano sembra si accenni anche in Mn II VIII 9; e forse non è da escludere l'ipotesi che D. avesse presenti ambedue i personaggi.
La particolare qualità di tradimento punita nella T. è, secondo Iacopo (seguito dalle Chiose Selmi, dall'Ottimo e dal Buti), quella di colui che " servendo tradisce il servito ", che cioè, fingendo di beneficare, tradisce il beneficato; mentre invece nella Giudecca sarebbero posti i beneficati che tradiscono i loro benefattori. Ma la maggior parte dei commentatori antichi e moderni si accorda nel vedere nei peccatori assegnati alla terza sezione i traditori degli ospiti o commensali (o, più genericamente, degli amici): quali furono, appunto, sia frate Alberigo che Branca Doria e il suo prossimano. Sull'ipotesi, manifestamente infondata, che alla T. appartengano anche il conte Ugolino e l'arcivescovo Ruggieri, v. ANTENORA.
La punizione inflitta ai peccatori della T. è esplicitamente descritta in If XXXIII 91-99 Noi passammo oltre, là 've la gelata / ruvidamente un'altra gente fascia, / non volta in giù, ma tutta riversata. / Lo pianto stesso lì pianger non lascia, / e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, / si volge in entro a far crescer l'ambascia; / ché le lagrime prime fanno groppo, / e sì come visiere di cristallo, / rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo: versi che generalmente s'intendono nel senso che questi dannati stanno immersi nel ghiaccio non in posizione eretta, o un po' inclinati in avanti, e con la faccia rivolta in giù (come quelli della Caina e dell'Antenora), ma supini e con la faccia rivolta in alto, in modo che le loro lagrime, stagnando nelle occhiaie e congelandosi sotto l'azione, qui più diretta ed efficace (tanto che, com'è detto ai vv. 100-108, il poeta stesso l'avverte), del vento agghiacciante mosso dalle ali di Lucifero, impediscono del tutto l'uscita di altre lagrime e quindi la possibilità di sfogare in tal modo il dolore: aggravamento di pena, dunque, rispondente alla maggior gravità della colpa di questi peccatori rispetto a quelli delle due zone precedenti.
Secondo il Buti il fatto che i dannati siano collocati supini starebbe anche a dimostrare, allegoricamente, che essi " nel mondo hanno mostrato segno di carità per meglio fare il tradimento sì che il tradito non si guardi; o non si sono vergognati del tradimento, e però non l'hanno fatto occultatamente ma abbandonatamente ": spiegazioni accolte da qualche moderno (Scartazzini, Berthier), ma ambedue forse troppo sottili. Non più che un accenno merita poi l'ipotesi, proposta dal Tommaseo e svolta dal Filomusi Guelfi, che il termine riversata indichi che i dannati stanno non supini, ma invece bocconi con la faccia verso terra.
Alla suddetta pena si accompagna spesse volte, come spiega con ironia frate Alberigo, un vantaggio particolare, un tristo privilegio: appena il peccatore ha commesso la sua orribile colpa, la sua anima precipita immediatamente nella T., e il corpo suo l'è tolto / da un demonio, che poscia il governa / mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto (vv. 130-132). Quest'invenzione dantesca (forse suggerita da quanto si narra di Giuda Iscariota in Ioann. 13, 27 " et post buccellam, introivit in eum Satanas ") viene in genere considerata non ortodossa dai commentatori antichi (" inconveniens et absurda " da Guido da Pisa), in quanto contraddirebbe il principio che il peccatore può sempre salvarsi prima della morte del corpo: perciò essi (così come accade per l'altra invenzione relativa alla sorte dei corpi dei suicidi dopo il Giudizio Universale) cercano di giustificarla come fictio poetica da interpretare allegoricamente: quale allusione o alla particolare gravità della colpa commessa (Iacopo, Graziolo, Ottimo, Benvenuto), o alla disperazione che la consapevolezza del loro orribile delitto fa nascere nei traditori (Chiose Selmi, Pietro, Landino), o anche alla loro pervicace ostinazione nel peccare (Guido da Pisa, Buti). In realtà, come ha dimostrato il Barbi (Con D. e con i suoi interpreti, pp. 90-91), non è impossibile giustificare la nuova pena escogitata da D. nell'ambito della teologia cattolica: questi peccatori, infatti, " non precipitano già per loro disperazione, ma per volere di Dio: una colpa così nera commuove talmente l'ira divina che la punizione scende immediata per quei disumani traditori ". E forse più persuasiva delle spiegazioni allegoriche escogitate dai commentatori antichi è quella proposta da V. Rossi: " questi violatori dell'ospitalità ... avevano infranto la fede volontariamente, liberamente impegnata e si erano perciò resi indegni del consorzio umano. Giusto dunque che essi ne siano ipso facto esclusi, e che quanto loro rimane di vita dopo il delitto, sia solo in apparenza vita umana, ma in realtà vita diabolica ".
Bibl. - Oltre ai commenti, fra i quali vanno soprattutto ricordati, accanto agli antichi, quelli di Scartazzini-Vandelli, Casini-Barbi e V. Rossi, si vedano: A. Chiappelli, I consorti del conte Ugolino, in Dalla trilogia di D., Firenze 1905, 85-127; V. Rossi, La T. e la Giudecca, in Saggi e discorsi danteschi, ibid. 1930, 177-204; A. Chiari, La Tolomea, in Lett. dant. 197-223; e, per questioni particolari: L. Filomusi Guelfi, Come giacciano i traditori della T., in Novissimi studi danteschi, Città di Castello 1914, 36-41; M. Barbi, Con D. e con i suoi interpreti, Firenze 1941, 78-79, 89-91 (dove si discutono anche alcune ipotesi di L. Pietrobono). Tra le letture del c. XXXIII dell'Inferno si vedano quelle di F. Romani, Firenze 1901; A. Frattini, Trapani 1955; A. Pézard, in Lect. Internazionale, Inferno, Milano 1963, 343-396; M. Ciotti, Torino 1965; M. Sansone, in Nuove Lett. III 143-187.