Campanella, Tommaso
Filosofo (Stilo, Reggio di Calabria, 1568 - Parigi 1639).
Entrato adolescente nell’ordine dei domenicani, fu ben presto (1590-92) sospettato e sottoposto a processo per il suo antitomismo e telesianesimo (Philosophia sensibus demonstrata, 1591; trad. it. La filosofia che i sensi ci additano); assolto da un secondo e da un terzo processo, fu per la quarta volta accusato e tenuto prigioniero a Roma, dove ebbe forse per compagno Bruno. Liberato nel 1595, si ritirò (dopo aver soggiornato a Roma, Napoli e Nicastro) a Stilo e vi preparò la congiura del 1599 contro il dominio spagnolo, con la quale sperava di infrangere il giogo politico-religioso e di realizzare la perfetta repubblica da lui vagheggiata (Monarchia di Spagna, 1598; ricomposta 1601). Scoperta la congiura, C. fu processato a Napoli e torturato; sopportò poi ventisette anni di prigionia, durante i quali riuscì tuttavia a tenersi in corrispondenza con gli studiosi contemporanei e a comporre e ricomporre alcune delle sue opere migliori: De sensu rerum et magia (1603), Monarchia Messiae (1605; trad. it. La monarchia del Messia), Antiveneti (1606), Atheismus triumphatus (1605-07), Philosophia rationalis (1613), Apologia pro Galileo (1615), Theologia (1624), Quod reminiscentur (1625); ma soprattutto la Realis philosophia (rifacimento dell’Epilogum magnum), cui si connettevano varie Quaestiones. Ma possono considerarsi sue opere principali la Metaphysica (finita nel 1614; trad. it. Metafisica), la vastissima Theologia (finita nel 1624, in trenta libri), il Quod reminiscentur (appello all’unità di tutti gli uomini nel cattolicesimo attraverso il ritorno-reminiscenza a Dio), e la Città del Sole (➔), che raccoglie e trasforma i sogni di un’antica tradizione «utopistica». Liberato nel 1626, fu nuovamente rinchiuso nel carcere del Sant’Uffizio, da cui fu liberato per la benevolenza di Urbano VIII. Scoperta la congiura di G.F. Pignatelli a Napoli, la Spagna chiese l’estradizione di C., che il papa rifiutò consigliando tuttavia a C. la fuga. Il 21 ott. 1634 C. lasciò Roma e l’Italia: a Parigi, dove ebbe accoglienze amichevoli, poté finalmente iniziare la pubblicazione delle sue opere; ma la morte lo colse nel convento di Saint-Honoré, quando erano stati pubblicati solo cinque volumi. Prima di morire, aveva dettato a Naudé una sua autobiografia, De libris propriis et recta ratione studendi syntagma (post., 1642; trad. it. Sintagma dei miei libri e sul corretto metodo di apprendere). Intorno al 1622, egli stesso aveva visto pubblicata una notevole scelta delle sue Poesie.
Per la complessità di temi speculativi e la molteplicità d’interessi politico-religiosi che s’intrecciano nel pensiero di C., egli sembra raccogliere da un lato l’ultima eredità rinascimentale (soprattutto del platonismo fiorentino, del naturalismo telesiano e dei bruniani programmi di riforma), mentre dall’altro si volge a nuovi problemi quali quelli posti così dalla controriforma e dal nuovo assetto politico-sociale dell’Europa come dai nuovi orientamenti legati alle scoperte geografico-astronomiche e alla nascita della «nuova scienza». Come per Bruno, nell’opera di C. non è possibile scindere la problematica che si sarebbe tentati di considerare più propriamente scientifico-filosofica da quella politico-religiosa che sembra dominare tanto la sua multiforme speculazione quanto la sua attività di congiurato, di profeta e di riformatore: i temi della sua riflessione politico-religiosa possono costituire un punto di riferimento costante e significativamente ritornano con notevole omogeneità in momenti diversissimi della sua vita, negli atti del processo, per es., e poi ancora – in un più meditato discorso – nella Città del Sole che ripropone i temi di una tentata insurrezione; mentre anche l’interesse alle teorie e alle tecniche astrologico-magiche e alle possibilità aperte all’uomo dalla «nuova scienza» è sempre retto da un desiderio di approntare i mezzi per la sognata riforma sociale e religiosa. Strettamente legato – soprattutto agli inizi – agli insegnamenti telesiani, C. svolge platonicamente una visione della natura come un tutto organico e senziente («ogni cosa ha tanto senso quanto basta alla sua conservazione») e quindi animato per la presenza ovunque non di una forma o intelligenza estrinseca, ma di uno «spirito caldo e sottile», corporeo, principio non solo del sentire ma anche dell’immaginare, del ricordare, del discorrere. Si definisce – come già in Telesio – un primato del sentire che significa primato della conoscenza diretta e immediata rispetto alla quale il conoscere universale è allontanamento dalla realtà, illanguidimento di conoscenza («più vide Cristoforo Colombo, genovese, con gli occhi e più col corpo corse, che non fecero gli poeti filosofi e teologi, Augustino e Lattanzio con la mente, che negarono gli antipodi»): che è il punto in cui C. più si avvicina a certi temi dell’empirismo della nuova scienza, e che ricorda i legami di C. con Galileo del quale scriverà dopo la condanna romana. Conoscere come sentire e sentire come un farsi, anzi infarsi, immutarsi nell’oggetto, o meglio, percezione di questo immutarsi: sicché nel conoscere altro non conosciamo che la nostra «immutazione», noi stessi («semper ergo scire est scire sui»); essere e conoscere s’identificano nella conoscenza perché alla radice di ogni conoscenza sta l’ineliminabile certezza assoluta di essere (agostinianamente dirà «non enim possum falli si non sum)». Tutti gli esseri – che in quanto sentono sono chiusi nell’immediatezza del sensus inditus o cognitio sui – hanno avuto da Dio la capacità di conservarsi, di amare sé stessi, di conoscere il proprio fine, manifestando così le primalitates divine (potentia, sapientia, amor); ma l’uomo emerge sugli altri esseri naturali perché nella sua natura accoglie e manifesta un impeto verso l’infinito, un’intuizione intellettuale che si radica nella mens data da Dio ai singoli uomini. Ma anche tale primato dell’uomo non scinde l’unità del tutto: questa è il fondamento di tutta la speculazione di C., che sembra a volte tentato di identificare Dio e natura. Del resto è proprio il senso vivo della radicale unità degli esseri che noi ritroviamo altresì nel suo pensiero religioso e politico: unità di natura che sembra esprimersi anche nell’indicazione del cristianesimo come religione universale in quanto naturale (nell’ambito di una natura che riceve completamento dalla divina rivelazione) e nel sogno della finale pacificazione di tutti gli uomini nell’unica fede e in una non scissa società civile, sogno di cui C. si sentiva profeta dopo averne letto nei cieli i segni dell’imminente realizzazione.
C. è oggi concordemente ritenuto il maggior lirico italiano del Seicento. La poesia di C., intesa a educare, a creare «nova progenie», non al puro diletto al quale destinava la sua il contemporaneo Marino, è spesso difficile e rude; talora semplice traduzione ritmica di sottili concetti filosofici. Ma spesso raggiunge profonda efficacia, specie là dove C. si descrive, novello Prometeo, torturato e invincibile, o là dove canta la «possanza dell’uomo» nudo e inerme, eppure padrone dell’Universo, o contempla una natura, nella quale ogni cosa ha la sua anima e Dio è in ciascuno e in tutti.
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