CAMPANELLA, Tommaso
La vita. - Giovanni Domenico Campanella nacque a Stilo in Calabria il 5 settembre 1568 da Geronimo e Caterina Martello. Appena adolescente si fece frate, ed entrò nell'ordine domenicano, col nome di fra Tommaso dedicandosi con ardore allo studio dei più varî rami dell'enciclopedia filosofica e scientifica del tempo. I suoi primi contatti spirituali furono col Telesio (che però, morto nel 1588, egli non poté conoscere di persona) e con il Della Porta, che frequentò a Napoli, dove, forse allo scopo di sfuggire ai primi sospetti dell'autorità ecclesiastica, egli si recò verso il 1590. Quivi lo colse il suo primo processo ecclesiastico, domenicano, terminato con una sentenza (1592), che lo invitava ad abbandonare le dottrine telesiane per tornare al tomismo, e Napoli per tornare alla sua provincia. Il C. lasciò, sì, Napoli, ma per Roma e poi per Firenze, dove gli era stata fatta balenare la speranza di una lettura di filosofia nello studio di Pisa, speranza che ben presto dileguò, poi che il Granduca ebbe fiutato odore di eresia nell'antiaristotelismo e nel telesianesimo del giovine studioso. Partitosi anche da Firenze, diretto a Padova, in Bologna gli vennero sottratti per ordine del S. Uffizio i manoscritti di quasi tutte le opere da lui composte fino a quel tempo.
Imputato in Padova di colpevoli costumi, fu sottoposto a un secondo processo. Assolto per mancanza di prove, si rimise febbrilmente al lavoro nell'intento di ricomporre tutte le opere perdute.
Ma fra il '93 e il '94 una nuova accusa (adesione alle dottrine di Democrito e paternità del famoso De tribus impostoribus, a tanti imputato) lo gettò in un terzo processo. Appena liberatosi da questo, un quarto processo, più grave dei precedenti, fu ordito contro di lui come colpevole di eresia e di mancata denuncia di una disputa, De fide, sostenuta con un giudaizzante. Tradotto a Roma vi rimase alcuni mesi prigioniero del S. Uffizio in Tor di Nona, dove probabilmente ebbe compagno Giordano Bruno. Benché le imputazioni fattegli fossero venute aumentando e complicandosi lungo lo sviluppo del processo, certo è che nel '95 il C. fu liberato dal carcere e rimase alcun tempo in Roma, dove, sebbene sorvegliato, poté prendere contatto con i circoli letterarî e scientifici del tempo, e respirarvi quell'atmosfera di millennio che nella fine del secolo lo stato di miseria politica, la fede nell'astrologia e nell'occultismo, la coincidenza di eventi naturali straordinarî o inesplicati, suscitavano negli spiriti.
Dopo alcuni mesi passati in Napoli, dove l'attesa del millennio si complicava col malcontento politico, egli tornò in Calabria arrivando a Nicastro (luglio 1598), e ingolfandosi subito in una delle allora consuete contese giurisdizionali fra l'autorità ecclesiastica e quella civile, il che contribuì a porlo sin dal primo momento in luce di perturbatore e di agitatore. Ma, tornato a Stilo nel settembre, e rinchiusosi nel piccolo convento di S. Maria di Gesù, il C. si dette a vita apparentemente ritiratissima, mentre tacitamente ordiva le fila della congiura del '99, che egli vagheggiava come mezzo di liberazione dal giogo politico-religioso e come instaurazione della repubblica teocratica perfetta, di cui egli si sognava insieme sommo sacerdote e re.
Imprudenze, defezioni, denunzie di congiurati, debolezze e perfino tradimenti di amici portarono ben presto alla scoperta della congiura e all'energica repressione viceregale ed ecclesiastica. I primi processi sommarî iniziati in Calabria sboccarono ben presto in un severo processo generale, e di tentata ribellione e di eresia, che si svolse in Napoli, dove i congiurati vennero sottoposti ai tormenti della tortura e non pochi furono condannati alla pena capitale. Non ai tormenti, ché molti e crudelissimi egli ne sopportò, ma alla pena capitale riuscì a sfuggire il C., sia simulando la pazzia, il che rimandava all'infinito la prosecuzione del processo, sia a causa di puntigli giurisdizionali tra il governo spagnolo e l'autorità ecclesiastica. Terminato alla fine del 1602 il processo di eresia con la condanna al carcere perpetuo, il C. rimase prigioniero del governo spagnolo nei Castelli di Napoli, dove trascorse ben ventisette anni.
Furono questi anni di cruda sofferenza, ma anche di feconda attività, se egli riuscì a compiere in quel trentennio molte tra le principali sue opere (la Metaphysica, la Monarchia Messiae, l'Atheismus triumphatus, la Philosophia rationalis, l'Apologia pro Galileo), a rifare integralmente, e talora più d'una volta, le opere perdute, e a mantenere rapporti epistolari con i maggiori studiosi del suo tempo (Galilei, lo Scioppio, il Gassendi, il Peiresc, e così via), a dirigere a papi, sovrani, cardinali, lettere e memoriali riboccanti di grandiosi disegni d'impero universale, di conversione degl'infedeli, di soluzione dei più varî problemi politici, economici, sociali, religiosi. Giacché nella forzata inazione del carcere le sue aspirazioni di lottatore parvero quasi esaltarsi in lui nella figura di campione della Controriforma contro gli eretici, ch'egli tentava sempre più di sovrapporre a quella di apostolo della religione naturale, che pur sopravviveva forse nel suo intimo, ma che certo gli sarebbe stata assai impropizia ai fini di quella liberazione, che, fallita ogni speranza di ottenerla dalla Spagna, egli si aspettava ormai soltanto da Roma. Ma solo nel 1626 il C. usciva per sempre dai Castelli napoletani e per ordine del viceré. Appena un mese dopo il papa, sdegnato per questo provvedimento, faceva condurre il C. nel carcere del S. Uffizio. Tuttavia quest'ultima fase della prigionia non fu dura. I suoi vasti disegni teocratici, la sua cultura, e, più probabilmente, l'influenza ch'egli riuscì a esercitare sull'animo di Urbano VIII gli fecero ottenere ben presto la libertà, dapprima limitata e poi totale. Tuttavia le ostilità di cardinali e di altri, le imprudenze e audacie del filosofo, che palesemente aspirava all'ufficio di consultore del S. Uffizio, apertamente difendeva Galilei, e mirava alla pubblicazione di tutte le sue opere, anche di quelle condannate dalla Chiesa; l'ostilità della Spagna, che faceva risalire a lui la recente francofilia del pontefice; tutte queste ragioni, insieme con altre cause minori, concorsero a rendergli insostenibile il soggiorno di Roma.
Il colpo di grazia venne dalla scoperta della congiura del Pignatelli in Napoli, che servì di pretesto alla Spagna per chiedere formalmente al papa l'estradizione del C. Urbano rifiutò, ma consigliò al filosofo la fuga. Il 21 ottobre 1634, travestito da frate minimo, sotto mentito nome, il C. lasciava per sempre Roma e l'Italia, diretto in Francia. Le affettuose accoglienze del mondo politico e intellettuale di Parigi gli resero sulle prime lieto il soggiorno di Francia. La speranza di pubblicazione integrale di tutte le sue opere cominciò finalmente a tradursi in realtà. Malgrado i tentativi romani di impedirgli l'attuazione di questo suo disegno, il C. riuscì a ottenere il permesso dalla Sorbona e pubblicò in poco più di due anni cinque dei dieci volumi che egli vagheggiava. Ma, prima di poter compire il suo disegno, il 22 maggio del 1639 il C. moriva nel convento di Rue Saint-Honoré in Parigi.
Le opere. - Accenniamo qui sommariamente al contenuto delle opere principali del C. La Philosophia sensibus demonstrata è lavoro giovanile, d'ispirazione telesiana, ma non privo di germi originali. Il Del senso delle cose e della magia espone la dottrina dell'animazione universale e contiene altresì spunti notevolissimi della gnoseologia campanelliana. La Realis philosophia epilogistica contiene una fisiologia, una morale, una politica, un'economica. Le Poesie sono espressione vivace e significativa di tutto il pensiero del filosofo, e, più, della sua anima e della sua vita: opera significativa anche dal punto di vista estetico per la rude bellezza del verso e per il vigoroso tentativo di poesia "barbara". La Monarchia di Spagna è un trattato politico sugli schemi consueti al suo secolo, imperniato sul concetto della priorità della monarchia spagnola, destinata dal fato a presidio della monarchia universale. La Città del Sole è la più nota fra le opere politiche del C., che vi disegna la sua repubblica ideale, naturalistica, teocratica, e aristocraticamente comunistica. La Metaphysica è la maggiore opera filosofica del C., che la concepì a grandi linee, come una "Bibbia dei filosofi", e che traccia infatti su una trama pesantemente scolastica una gnoseologia, un'ontologia, una cosmologia, una teologia in parte tradizionali, ma per alcuni rispetti arditamente innovatrici. La Monarchia Messiae teorizza la monarchia universale teocratica: sovrano supremo il papa; bracci e strumenti suoi i principi. L'umanità troverà pace soltanto quando si sarà ridotta in un solo gregge, sotto un solo pastore. L'Atheismus triumphatus è una roboante professione di fede cattolica contro l'empietà, personificata nel Machiavelli; ma il manto cattolico non vale a nascondervi appieno il corpo naturalistico e razionale, come l'antimachiavellismo programmatico non vi cela il sostanziale machiavellismo. La Philosophia rationalis comprende una grammatica, una retorica, una poetica, una storiografia, tracciate in gran parte secondo gli schemi tradizionali. L'Apologia pro Galileo è un piccolo scritto di notevole valore, e dal punto di vista biografico, per l'audacia di una apologia cosiffatta da parte di un condannato per eresia, e da quello teoretico, per l'affermazione della incommensurabilità tra la verità scientifica e la verità religiosa. Il De libris propriis et recta ratione studendi syntagma dà notizie sulla sua vita e sui suoi scrìtti, ed è notevole per l'uffizio che egli assegna alla filosofia, alla storia e alla conoscenza delle cose pratiche nel corso degli studî, come pure per i giudizî che egli vi dà sui varî scrittori da studiare.
Il pensiero. - Il C. è uno dei maggiori pensatori e una delle figure più eminenti del suo tempo. In poche altre personalità come nella sua la vita e il pensiero interferiscono e s'intrecciano siffattamente che non è possibile intendere l'uno se non alla luce dell'altra. Filosofo e poeta, scrittore talvolta erudito talaltra geniale, fervido credente nelle più oscure superstizioni magiche e astrologiche, e insieme fautore, sia pure non in tutto coerente, d'una nuova scienza e d'una nuova posizione del rapporto fra la scienza e la fede, martire generoso d'un magnanimo ideale e insieme sottile e astuto simulatore di opportunismi politici e religiosi, il C. ci presenta in ciascuna delle sue dottrine un duplice volto: sensista nella fisiologia, e insieme divinatore di una gnoseologia quasi idealistica; immanentista nella cosmologia e nella teodicea e tuttavia incerto tra immanenza e trascendenza in una ontologia mezzo idealistica e mezzo tomistica; naturalista in etica, e pure nella vigorosa concezione dell'"autonomia" morale precursore di Kant; panteista in religione e insieme teista; deista e cattolico; riformatore politico audacissimo, e insieme assertore di una secolare tradizione teocratica.
La sua filosofia muove dal naturalismo cosmologico di Telesio, ma già fin dalle prime opere gli giustappone una concezione immaginosamente animistica, che si rappresenta l'universo come una grande mole, tutta animata, non da un unico spirito animatore, ma da una moltitudine immensa di anime individuali. Un cosiffatto universo, che per qualche rispetto ricorda quello bruniano, ma per altri se ne allontana, anch'esso non conosce morte, ma soltanto "mutazione di essere", non dolore, ma soltanto gioia, giacché ciò che sembra male e dolore all'individuo rientra in un armonico e provvidenziale disegno cosmico. Alla dottrina del "senso delle cose" si collega la magia del C. Il quale ammette una triplice forma di magia (divina, naturale, diabolica), ma si ferma soprattutto sulla seconda, che egli concepisce come l'azione simpatica e misteriosa degli animali, piante e minerali sull'uomo, e degli uomini stessi tra loro. Animatore dell'universo è Dio, un Dio nella cui concezione confluiscono le varie correnti di pensiero cui la sete filosofica del C. si abbeverò: creatore nel tempo ed ex nihilo, e tuttavia creante il mondo mediante quelli che erano stati i "principî agenti" di Telesio (freddo e caldo); non solo, ma altresì attuantesi nel mondo attraverso le "primalità" (potenza, sapienza, amore; "influenze magne", principî di sviluppo che si realizzano con un processo che è necessario, e che perciò presuppongono assai più un emanatismo che non un creazionismo) e agente su esso dall'interno, più intimamente che non la volontà sul corpo. L'ontologia campanelliana giustappone in tutti i modi trascendenza e immanenza: talvolta pare che concepisca il rapporto tra essere e non essere come di opposizione; talaltra invece lo concepisce in modo al certo non consono al principio della creazione dal nulla: Fieri non est produci ens, sed limitari ens a non ente (Met., VI, cap. 6, art. 11, p. 25, 2ª parte); più spesso lo avvolge in un velo di agnosticismo: e fa di Dio areopagiticamente un sopraessere, una soprasostanza, che noi necessariamente ignoriamo, allo stesso modo come ignoriamo il rapporto tra il finito e l'infinito, come ignoriamo tante cose, anzi l'essenza stessa delle cose, giacché la nostra conoscenza è incapace di andare oltre il fenomeno. Al pari di Cartesio (che per altro disconobbe sempre con ingiusta alterigia l'influenza della dottrina dello Stilano sulla propria), il C. muove dal dubbio gnoseologico: l'anima umana, sicut vermis in ventre hominis, qui totum ignorat hominem et statum suum et seipsum (Met., I, cap. 1, art. 1, p. 6, 1ª parte), si smarrisce nella vastità di un universo che essa non riesce nonché a dominare, neanche a intendere, e, cercando sé stessa fuori di sé, finisce col non sapere più se dorma o sia desta e se il suo sapere sia o no sapere.
Ma quando, abbandonando la conoscenza esterna e discorsiva (che il C. chiama addita), rientra in quella interiore, intuitiva (indita, abdita), allora soltanto attinge la certezza e si convince che esistono universalissima certissimaque in quibus non contingit falli; e che certissima sunt haec tria nobis: nos esse, scire et velle (Met., I, cap. 3, art. 3, p. 32, 1ª parte). In tal modo, con questa dottrina delle primalità, la gnoseologia e l'ontologia campanelliana vengono a corrispondersi, mentre con l'ardita posizione del rapporto di priorità della seconda rispetto alla prima (cognoscere est esse: Met., VI, cap. 8, art. 1ª p. 59, 2ª parte; notitia sui est esse sui; notitia aliorum est esse aliorum) la gnoseologia campanelliana, inserendosi nel lungo filone agostiniano-neoplatonico-cartesiano della dottrina dell'autocoscienza, apre insieme la via all'idealismo moderno. Giacché, se le premesse di questa dottrina della conoscenza sono affatto sensistiche, come quelle che tendono a ridurre al senso ogni altra manifestazione spirituale (Del senso delle cose, II, cap. 30, p. 148), il suo sviluppo è affatto idealistico (la Metaphysica dichiara sensum non passionem, sed perceptionem passionis esse: I, cap. 5, art. 1, p. 1); e tutta la dottrina campanelliana, pur conservando la tripartizione tradizionale in corpo, spirito e anima, attribuisce tuttavia a questa (mens) non solo l'ufficio religioso che da secoli le era riconosciuto, ma anche quello (notevole come precorrimento della dottrina dell'unità dello spirito) di "raffinare e perfezionare ogni conoscenza" (Del senso delle cose, II, cap. 30, p. 154), giacché essa sola rende l'uomo (come il C. vichianamente dice) quasi Dio, liberandolo da ogni vincolo spaziale e temporale, portandolo a raccogliere in un solo pensiero il cielo, la terra, gli astri innumerevoli, suscitando in lui un ardente appetito di divino, che è già segno di divinità, perché, come il filosofo osserva, noi non possiamo desiderare cosa che ci sia affatto estranea, e colui che desidera diventare re, ha già qualcosa di regale dentro di sé, e colui che brama l'infinito ha già qualcosa d'infinito in sé.
Un analogo sincretismo, un'analoga ardita mistione di nuovo e di antico ci offre l'etica del C., che ha radici naturalistiche (specialmente nella posizione dei principî del piacere e del dolore come fondamentali), ma corregge il concetto della "conservazione nell'essere" come sommo bene, articolando questa tendenza originaria in uno sviluppo progressivo, in cui ciascun grado (conservazione in sé, nei figli, nella fama, in Dio) assorbe e potenzia il precedente, fino al supremo (amore in Dio) in cui il processo culmina. Ma più che per questa progressione - già notevole di per sé, come quella che rivela l'esigenza di modificare in un "processo" la primitiva "persistenza" - l'etica campanelliana è storicamente degna di rilievo per l'energia con cui ribadisce quel concetto della virtù "premio a sé stessa", che, asserito dal Pomponazzi, e più tardi da Spinoza, costituirà poi uno dei nuclei dell'etica kantiana (cfr. Poesie, p. 83). Quindi la decadenza del concetto dell'immortalità come sanzione del bene e del male compiuti nella vita terrena, e lo slargarsi dell'umana sollecitudine per la sopravvivenza individuale nell'ampio concetto (per altro tutto naturalistico) della "mutazione" delle cose: la morte non è cessazione, ma mutazione di essere; una delle tante mutazioni, in cui consiste la vita dell'universo. Non in un arbitrio, comunque concepito, ma nell'adesione alla legge stessa delle cose consiste per il C. l'umana come la divina libertà. Anche lo Stilano, come il Nolano, combatte veementemente il "servo arbitrio" di Lutero e di Calvino, ma è ben lungi dal tornare al medievale "libero arbitrio", ché anzi la sua è una libertà, com'egli dice, non contra fatum, ma pro fato.
Schiettamente naturalistica nella sua essenza, sebbene volenterosamente inquadrata in alcuni degli schemi dottrinali del cattolicesimo, è la religione del C. Il quale, anche quando assume la veste di apologeta cattolico, non sa discostarsi da un'apologia fondata su argomenti naturalistici e razionalistici: "la pura legge della natura è quella di Cristo a cui solo i sacramenti son aggiunti per aiutar la natura a ben operare con la grazia di chi l'ha dati"; i sacramenti che sono - si badi - "pur simboli naturali e credibili" (Memoriale a Paolo V, in Arch. stor. ital., 1886, s. 3ª, parte 1ª, p. 251. Non si può negare certo che tutti gli sforzi del C., specie nella seconda fase della sua vita, convergano nell'inquadrare questa sua religione naturale in una cornice di teocrazia cattolica, ma è questo il lato politico - che è, del resto, senza dubbio il prevalente della sua concezione religiosa. La religione per lui (come già per il Cusano e per il Ficino, e come poi per Herbert of Cherbury e gli altri deisti inglesi), è il conato naturale che spinge l'uomo, come tutti gli esseri, alla propria conservazione e perciò, nella forma più alta, alla conservazione del proprio essere in Dio, e che non è diverso dal conato che anima tutto l'universo, pur essendo nell'uomo arricchito dalla consapevolezza di sé. In questo puro slancio iniziale consiste la religio abdita, indita per natura nel cuore dell'uomo. La religione sopraggiunta (religio posita a nobis), anzi le varie religioni sopraggiunte, sono un'aberrazione dalla religione primitiva, vera e perfetta. Tuttavia una certa verità è in tutte le religioni e Dio gradisce tutte le forme di adorazione, per imperfette che siano.
Come si spiega allora la veemente opposizione del C. al protestantesimo? Con motivi di politica religiosa, assai più che non di fede dogmatica. Anche in questo campo, è vero, il C. sprezza quegli "ignoranti, i quali non han saputo far altro che qualche nuova glossa sopra la Scrittura", ma ciò che lo spinge a condannare il protestantesimo è soprattutto la tendenza disgregatrice della grande unità cattolica e frantumatrice di quella monarchia teocratica universale, uno dei maggiori ideali politici del C. E che come "braccio" di una cosiffatta teocrazia il C. vagheggi, come nella prima fase della sua vita, la Spagna, o che come tale invochi (come nella seconda) la Francia, o che a capo di essa egli ponga il papa o il "Metafisico" della Città del Sole o magari sé stesso, l'idea fondamentale è sempre la stessa: tutti i mali derivano dal frazionamento; nell'unità (che fu già alla radice dei tempi, e che dovrà tornare a essere, giacché secondo la concezione ciclica che il C. si fa del progresso "si ravviva ogni cosa sepolta tornando al giro ove ebbe sua radice", nell'unità è la salvezza. Occorre appena avvertire che un siffatto ideale unitario non va confuso con quello del Mazzini (come pure qualche studioso recente ha tentato di fare). Il C. non è un patriota del sec. XIX in anticipo, come in un suo libro giovanile pensò il D'Ancona. Né, d'altra parte, il comunismo della Città del Sole autorizza a far di lui, come tentò la storiografia della fine del secolo scorso, un precursore del socialismo moderno. Il C. è antidemocratico, sostenitore rigido di una selezione fondata su motivi culturali e morali. Né il suo ideale politico coincide con quello di Dante. Anche il C. vagheggia una monarchia universale, ma di così intenso colorito teocratico, che si distacca incommensurabilmente da Dante. Senza dubbio vi è del tomismo nella sua concezione politica, soprattutto per la subordinazione piena dello Stato alla Chiesa e della politica alla morale, ma v'è anche, malgrado le intenzioni, molto machiavellismo nei particolari della pratica politica e della scienza di governo. Nei particolari; ché quanto al concetto dello stato il Machiavelli e il C. sono ben lontani, arrestandosi quegli, com'è stato autorevolmente osservato, al concetto dello stato-forza e precorrendo questi il concetto dello stato etico. Certo, non meno di Dante, non meno di Machiavelli, non meno di Mazzini, il C. ama l'Italia, ma l'Italia ch'egli vagheggia non è la nazione moderna di contro ad altre nazioni, ma la sede di quel "bello e giocondo - latino imperio, che di gente eletta - fu in lettere ed in arme più fecondo - che l'universo tutto quanto insieme" (Agl'Italiani, in Poesie, p. 87), quell'Italia che, nella fede dello Stilano, ritroverà il suo primato soltanto attraverso la monarchia universale di un papato interiormente rinnovato.
Edizioni: La raccolta completa di tutte le sue opere, che il C. vagheggiava in 10 tomi (Instauratarum scientiarum per F. Thomam Campanellam juxta propria dogmata, ex natura et scriptura Dei codicibus, tomi X) non fu mai attuata, né secondo il disegno di lui, né altrimenti; ché anzi buona parte dei suoi scritti rimase o sepolta in vecchie edizioni poco accessibili, o manoscritta, o è tuttora dispersa. Solo negli ultimi anni si è acceso un significativo fervore di edizioni intorno all'opera campanelliana. Ricordiamo qui soltanto le opere e le edizioni principali, antiche e recenti: Philosophia sensibus demonstrata, Napoli 1591; Del senso delle cose e della magia, a cura di A. Bruers, Bari 1925; Realis philosophia epilogistica, Parigi 1637; Poesie, a cura di G. Gentile, Bari 1915; Monarchia di Spagna, a cura di A. D'Ancona, in Opere di Tommaso Campanella, Torino, voll. 2, pp. 77-229; Città del Sole, testo critico a cura di G. Paladino, Napoli 1920; Universalis philosophiae seu metaphysicarum rerum, partes tres, Parigi 1638; Monarchia Messiae, Iesi 1633; Atheismus triumphatus, Parigi 1636; Philosophia rationalis, Parigi 1638; Apologia pro Galileo, Francoforte 1622; De libris propriis et recta ratione studendi syntagma, ed. a cura di V. Spampanato, Milano 1927; Lettere, a cura dello stesso, Bari 1927.
Bibl.: Dei molti scritti intorno al C. segnaliamo soltanto i più notevoli: Ritter, Gesch. d. neuer. Philos., II, Amburgo 1851, pp. 3-62; B. Spaventa, Saggi di critica, Venezia 1927; F. De Sanctis, St. d. lett. ital.; F. Fiorentino, P. Pomponazzi, Firenze 1868, pp. 391-405; id., B. Telesio, ivi, II, pp. 23-41, 111-210; id., studi e ritratti della Rinascenza, Bari 1911, pp. 391-421; L. Amabile, Il codice delle lettere del C., Napoli 1881; id., Fra T. C., la sua congiura, i suoi processi, la sua pazzia, Napoli 1882, voll. 3; id., Fra T. C. ne' Castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, Napoli 1877, voll. 2; B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Bari 1918, 3ª ed., pp. 191-239; G. Sante Felici, Le dottrine filosofico-religiose di T. C., Lanciano 1895; Kvacala, Postanie T.K., Juriew 1905; id., S. C. und die Pädagogik, in Deutsche Schule, Lipsia 1905; id., T. C. und Ferdinand II, in Sitzungsberichte d. kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in Wien, Vienna 1908; id., Protestantische gelehrte Polemik gegen C. vor seiner Haftenlassung, Juriew 1909; id., T. C. ein Reformer der ausgehenden Renaissance, Berlino 1909; id., Über die Genese der Schriften T. C., Juriew 1911; G. Gherghi, Le fonti del De Sensu rerum di T. C., Palermo 1918; L. Blanchet, C., Parigi 1920; F. Meinecke, Die Idee der Staaträson in der neueren Geschichte, Monaco-Berlino 1924, pp. 113-46; C. Dentice di Accadia, C., Firenze 1921; G. Gentile, G. Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze 1926; id., Studi sulla Rinascenza, ivi 1926; R. De Mattei, La politica di C., Roma 1928; P. Treves, La politica di Campanella, Bari 1930.