Campanella, Tommaso
Filosofo, nato a Stilo nel 1568 e morto a Parigi nel 1639. Quando cominciò a scrivere di politica, nel corso dell’ultimo decennio del Cinquecento, C. era un giovane frate addestrato nelle discipline teologiche presso gli studi domenicani di Nicastro e di Cosenza, lontano da esperienze di carattere politico. La sua formazione in questa materia avvenne tra la fine degli anni Ottanta e il principio degli anni Novanta, prima a Cosenza e poi a Napoli, dove il convento di S. Domenico costituiva un importante centro politico di orientamento filopopolare. In questo intervallo di tempo va collocato il suo accostamento alla lettura del Principe, dei Discorsi e forse della Vita di Castruccio Castracani. Possediamo a questo proposito un’indicazione di C. che, nella sua risposta alle censure dell’Ateismo trionfato, scrive:
quando fui in Firenze nell’anno 1593 il granduca Ferdinando mi mandò con un cavaliero vecchio chiamato Baccio Valori a veder la sua libreria in San Lorenzo; e quando mi mostrò li libri segreti in un camerino dove nessuno può entrare, mi fe’ vedere li libri di Machiavello scritti di propria mano e, parlando di lui, mi disse che era nobile, ma bastardo, e mi narrò la vita sua; e ’l medesimo mi disse fra Giovan Battista Bracceschi, vecchio allor di ottanta anni, che si ricordava di esso Machiavello e di Leone X e di Clemente VII (Opuscoli inediti, a cura di L. Firpo, 1951, pp. 53-54).
Questa testimonianza – da Luigi Firpo retrodatata al 1592 – non indica che in quell’occasione C. abbia letto M., ma segnala piuttosto un rapporto che appare già maturato. Quel che sappiamo con certezza è che nella Monarchia di Spagna, scritta probabilmente nel 1598, C. utilizzò una vasta messe di argomenti tratti dal Principe e dai Discorsi.
In un mondo nel quale il sapere politico era linguaggio delle corti e delle cancellerie, C. apprese sui libri, e sui libri di M. in specie, il modo di discorrere dei fatti politici. E questa considerazione vale, a maggior ragione, per il periodo successivo all’agitazione messianica svolta in Calabria nel 1599, quando frate Tommaso prese a scrivere contro Machiavelli. Anche nel nuovo contesto carcerario, infatti, egli non trovò miglior servizio da rendere alla Chiesa romana che impiegare la propria conoscenza di M. per scrivere contro una politica priva di cornice teologica. Il passaggio dalle idee attestate nel processo del 1599-1600 a quelle esposte nell’Ateismo trionfato sta qui: mentre nella predicazione del 1599 profezia e machiavellismo venivano tenuti insieme, nel 1606 essi furono volti l’una contro l’altro.
La lettura di M., d’altra parte, fu mediata e orientata dai testi di Girolamo Cardano, autore ben noto a C. per i suoi interessi astrologici. Il medico-astrologo milanese forniva un modello in cui il pensiero di M. si inseriva in un contesto dominato dall’astrologia, soddisfacendo l’esigenza di comporre le occasioni dell’iniziativa personale con l’universo della causalità astrale. Per lui infatti, come per C., il futuro dei grandi organismi politici e religiosi era prevedibile nel suo corso generale, anche se non nei casi particolari, e tale convinzione imponeva la più importante correzione del quadro teorico offerto da M.: la trasformazione del dualismo virtù-fortuna in un monismo dove la virtù del principe è chiamata ad assecondare le influenze astrali e non a opporsi a esse.
Benché la Monarchia di Spagna sia largamente intessuta di riferimenti a M., egli è richiamato esplicitamente solo tre volte – due per nome e una terza come «un politico» con trasparente riferimento al Principe xxv e ai Discorsi III ix – e sempre in termini negativi. Le testimonianze processuali relative al-l’agitazione antispagnola del 1599 indicano tuttavia che nei discorsi privati tenuti alla cerchia degli intimi C. richiamava il nome di M. con accenti di adesione.
Maurizio de Rinaldis testimonia infatti che una notte in cui si era trovato a conversare nel convento di S. Maria di Gesù, in Stilo, C. aveva detto «certe parole in lode dell’armi», quindi:
cominciò persuadere, et dare molti esempli, delli huomini che da nienti erano diventati grandi, attestando il Machiavelli, o altri autori, dicendo et animando a me, che dovea in questi tempi pigliar l’armi (L. Amabile, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, 3° vol., 1882, p. 141).
Dunque, il problema della dissimulazione e della differenza tra piano del discorso parlato e piano del discorso scritto esiste, ma non è l’unico. Accanto a esso opera un rapporto effettivamente duplice con il pensiero di M. derivante, in ultima analisi, dalla dimensione profetico-millenaristica presente nel discorso di C. e assente, invece, in quello di Machiavelli.
Se questo è il principale punto di divergenza, il centro della convergenza sta invece nell’interpretazione politica della religione da cui discendeva la convinzione campanelliana della superiorità dei profeti armati su quelli disarmati e dei poteri capaci di sommare temporale e spirituale su ogni potestà puramente laica e profana. Pur tra i continui ondeggiamenti dei suoi testi, questo punto nodale non fu mai abbandonato.
Durante la predicazione messianica svolta in Calabria nel 1599, C. sviluppò il lato millenaristico e rivoluzionario di questo discorso. Predicò la necessità di unire le armi alla profezia, sottolineò la natura di legislatore straordinario propria del ruolo messianico, espose una teoria politica della religione e dei sacramenti in particolare, da lui considerati mezzi della ragion di Stato per governare il popolo, e infine illustrò l’idea della funzione politica dei miracoli.
Nel corso della detenzione seguita alla scoperta dei progetti di ribellione coltivati in Calabria, C. volse questa logica in favore del potere papale. Negli Aforismi politici (1601) argomentò quindi che la comunità umana è assicurata dalla religione, la quale è «anima della politica», e ne trasse la conseguenza che instaurano domini duraturi coloro i quali uniscono le armi alla predicazione, come fecero Mosè e Ciro, e che è più agevole, «facile», il governo di una popolazione unita nella medesima religione. Nessun principato, concluse C., si può fare senza sacerdozio e nell’ambito della politica cattolica il dominio perfetto si dà quando i principi usano la spada al servizio del pontefice.
Nel 1606, C. scrisse un’abiura filosofica presentata in forma di autobiografia intellettuale. Nel libro, intitolato L’ateismo trionfato overo riconoscimento filosofico della religione universale contra l’antichristianesimo machiavellesco, espose gli argomenti predicati nel corso della congiura antispagnola attribuendoli a un «machiavellista» e poi li confutò, o li superò, sulla base della nuova «scoperta» dell’implicazione di cristianesimo e natura. Dopo aver passato in rassegna le ragioni contro la religione, l’io machiavellista di C. comprese che Cristo è Ragione prima, e poi incarnata, e che il cristianesimo è la più compiuta espressione della ragione naturale compendiata e simboleggiata nei sacramenti. La confessione di C. interpretò dunque le teorie politiche esposte negli anni della predicazione antispagnola (1598-99) come «machiavellismo», vale a dire come il frutto di una logica machiavelliana liberamente applicata ai problemi politico-religiosi del presente. Di queste tesi propose un’abiura solo parziale, dal momento che la nuova teoria dei sacramenti come simboli di legami naturali riformulava in maniera più conciliante la precedente idea della loro rispondenza alla «ragion di Stato».
Con la redazione dell’Ateismo trionfato, da ritenersi compiuta alla metà del 1606, la posizione di C. nei confronti di M. si può considerare assestata così come assestato può considerarsi il suo discorso politico destinato, d’ora in avanti, a innumerevoli pagine di circostanza volte ad adulare il potere del momento e i suoi detentori. Una discussione del «machiavellismo», priva di novità, torna nelle quaestiones pubblicate nell’edizione parigina della Philosophia realis. La prima occasione fu offerta da un tema morale, il problema De summo bono, e fu colta per contestare l’idea che
tutte le operazioni dell’uomo sono indirizzate al regno e non c’è nulla che egli non sia disposto a fare per il potere, per cui ogni principe viola la religione e la morale per ragion di Stato, dal momento che il potere ricompensa tutti i mali e perdite, anche quelli della virtù e della fama (Quaestiones morales, quaestio prima De Summo Bono, in Disputationum in quatuor partes suae philosophiae realis libri quatuor, ex thypographia D. Houssaye, 1637, pp. 2-3).
Una seconda occasione per parlare dei machiavellisti fu invece la quaestio politica De dominio et regno in cui C. contestò che la guerra e la violenza siano naturali e giusti titoli di dominio.
Bibliografia: L. Amabile, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, 3 voll., Napoli 1882; L. Amabile, Fra Tomaso Campanella ne’ castelli di Napoli, in Roma e in Parigi. Narrazione con molti documenti, 2 voll., Napoli 1887; C. Dentice d’Accadia, Tomismo e machiavellismo nella concezione politica di Tommaso Campanella, «Giornale critico della filosofia italiana», 1925, 1, pp. 1-16; R. De Mattei, Studi campanelliani, Firenze 1943; L. Firpo, Ricerche campanelliane, Firenze 1947; L. Firpo, Le origini dell’antimachiavellismo, «Il pensiero politico», 1969, 3, pp. 344-45; R. Amerio, Il sistema teologico di Tommaso Campanella, Milano-Napoli 1972; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini 1585/1647, Bari 1980; V. Frajese, Cultura machiavelliana e profezia messianica nella riflessione politica di Tommaso Campanella. Dalla congiura all’interdetto, in Repubblica e virtù. Pensiero politico e monarchia cattolica fra XVI e XVII secolo, a cura di C. Continisio, C. Mozzarelli, Roma 1995, pp. 243-79; J.M. Headley, Tommaso Campanella and the transformation of the world, Princeton 1997; G. Ernst, Tommaso Campanella. Il libro e il corpo della natura, Roma-Bari 2002; V. Frajese, Profezia e machiavellismo. Il giovane Campanella, Roma 2002.