Tommaso Campanella
L’aspetto più originale del pensiero di Tommaso Campanella può essere individuato nella sua aspirazione a conciliare la nuova filosofia rinascimentale della natura con la proposta di una radicale riforma delle scienze e della società. L’immagine di una natura portatrice di armonia, verità e giustizia, in quanto espressione dell’ars divina, diventa il modello cui ispirarsi per rifondare l’enciclopedia del sapere, ma soprattutto per riflettere sulla vita associata dell’uomo. L’ingiustizia, gli inganni, la violenza che turbano le società civili derivano dal fatto che gli uomini si sono allontanati dal modello naturale, al quale occorre tornare a ispirarsi per attuare la riforma del vivere in comune.
Tommaso Campanella nasce il 5 settembre del 1568 a Stilo, in Calabria, allora sotto il dominio degli spagnoli; il padre, Geronimo, analfabeta, fa lo ‘scarparo’, la madre, Caterina, morirà precocemente. A 14 anni entra nell’ordine domenicano; nel 1588 a Cosenza legge il De rerum natura di Bernardino Telesio e l’anno successivo replica a uno scritto antitelesiano con una battagliera opera prima, la Philosophia sensibus demonstrata. Nel 1590 si trasferisce a Napoli; dalle conversazioni con Giovan Battista Della Porta, il più celebrato esponente della magia naturale, ha origine quello che sarà il Del senso delle cose e della magia. Nel 1592 subisce un primo processo interno all’ordine domenicano, per l’adesione alle dottrine telesiane, ritenute incompatibili con il pensiero tomistico, basato sulla filosofia di Aristotele. Anziché fare ritorno ai luoghi d’origine, risale la penisola; dopo brevi soggiorni a Roma e a Firenze, durante i quali entra in contatto con la corte medicea, al cadere dell’anno si stabilisce a Padova, dove incontra Galileo Galilei, ma nel 1594 viene denunciato all’Inquisizione e incarcerato. In ottobre è trasferito nel palazzo dell’Inquisizione romana, in cui sono rinchiusi anche l’eretico fiorentino Francesco Pucci e Giordano Bruno; nel 1595 subisce la condanna alla pubblica abiura «per gravissimo sospetto d’eresia». Alla fine del 1597 gli viene ingiunto di fare ritorno in Calabria; dopo un soggiorno di alcuni mesi a Napoli, il 15 agosto 1598 raggiunge Stilo, dove diviene l’ispiratore di un vasta cospirazione antispagnola.
Il complotto viene denunciato in una lettera (agosto 1599) al viceré, che si affretta a inviare in Calabria truppe armate al comando di Carlo Spinelli, il quale dà inizio a una durissima repressione, con processi ed esecuzioni sommari; quindi gli accusati, frati e laici, vengono imbarcati su quattro galere alla volta di Napoli. I processi che seguono risultano estremamente complessi a causa di intricati conflitti giurisdizionali e della doppia accusa di lesa maestà ed eresia. Per evitare la pena capitale, che non poteva venire inflitta ai folli, in quanto i giudici si sarebbero resi responsabili della dannazione della loro anima, il 2 aprile del 1600 Campanella dà inizio alla simulazione della pazzia che, ratificata l’anno seguente con la tortura della ‘veglia’, gli consente di evitare la pena capitale, tramutata in carcere perpetuo. Nei primi anni la condanna verrà scontata nel carcere duro di Castel Sant’Elmo, e in quelli successivi nelle reclusioni più mitigate di Castel dell’Ovo e Castel Nuovo. Nell’estate del 1612 il prigioniero entra in contatto con il dotto sassone Tobia Adami, che soggiorna a Napoli per alcuni mesi e che, preso da vivissima ammirazione per la sua filosofia, una volta tornato in patria curerà per le stampe alcune fra le sue opere più significative (pubblicate a Francoforte tra il 1617 e il 1623).
Nella primavera del 1626, dopo quasi ventisette anni di prigionia, Campanella esce da Castel Nuovo e si imbarca alla volta di Roma, dove viene rinchiuso nel palazzo dell’Inquisizione per circa due anni; riconquista infine la sospirata condizione di libertà, che viene però turbata da nuove persecuzioni nei confronti della sua persona e dei suoi scritti. Nell’ottobre 1634 è costretto a recarsi in esilio in Francia, in seguito a rinnovati sospetti spagnoli nei suoi confronti. A Parigi, dove è accolto con favore da Luigi XIII e dal cardinale Armand-Jean Du Plessis de Richelieu, scrive nuovi testi politici e cura la stampa dei primi volumi dei propri Opera omnia, fra i quali la monumentale Metaphysica (1638), a lui particolarmente cara. Per celebrare la sospirata nascita del Delfino, il futuro Re Sole (5 settembre 1638), compone una lunga Ecloga latina. Dopo avere tentato di scongiurare i presagi astrali funesti minacciati da un’eclisse, muore all’alba del 21 maggio 1639.
Nelle pagine introduttive della giovanile Philosophia sensibus demonstrata (1591), Campanella offre al lettore preziose indicazioni sul costituirsi del suo pensiero filosofico. Gli anni di studio trascorsi nei conventi domenicani calabresi gli avevano suscitato una profonda insoddisfazione. I testi aristotelici di scuola gli erano sembrati pieni di contraddizioni e incapaci di offrire risposte adeguate ai più importanti problemi filosofici e metafisici. Secondo Campanella, il sapere umano era diventato sempre più oscuro e confuso perché si era progressivamente allontanato dalla ricerca diretta della natura, per volgersi alla lettura dei libri degli uomini. Atteggiamento tanto più evidente nei seguaci di Aristotele, i cui studi, tutti volti all’interpretazione e al commento dei testi del maestro, senza preoccuparsi di confrontarli con il mondo naturale, avevano dato origine a dispute sofistiche, a sterili battaglie verbali.
Riflettendo su tale situazione, fin dalla giovinezza Campanella approda a una convinzione che non abbandonerà più: la conoscenza adeguata delle cose è quella che procede dalle cose stesse, che si devono indagare sulla base dell’esperienza sensibile. Quando legge il De rerum natura di Telesio, fin dalle prime pagine intuisce la novità e la coerenza di una dottrina che si propone di ristabilire i corretti rapporti fra cose e parole, che nella tradizione aristotelica si erano logorati e perduti. Per fondare un sapere che sia al tempo stesso autentico ed efficace è necessario un continuo confronto fra i libri scritti dagli uomini e l’infinito, e divino, libro della natura, in modo da correggere gli errori delle ‘copie’ umane, che risultano sempre imperfette, parziali e pertanto rivedibili. In un famoso sonetto – Campanella è anche autore di una straordinaria raccolta di poesie filosofiche – egli scrive: «Il mondo è il libro dove il Senno Eterno / scrisse i proprii concetti» (Le poesie, a cura di F. Giancotti, 1998, p. 44); e in un altro rende omaggio al «Telesio cosentino», che con «il telo della sua faretra» ha trafitto e ucciso Aristotele, «degli ingegni il tiranno», restituendo all’uomo quella libertas philosophandi che è inseparabile dalla verità (p. 278).
Nelle prime opere di filosofia della natura la critica sistematica delle dottrine aristoteliche va di pari passo con l’adesione ai principi telesiani, integrati con l’apporto di altri pensatori, dai filosofi presocratici ai medici, ai naturalisti, e soprattutto alla tradizione platonizzante rilanciata dalle opere di Marsilio Ficino. Il mondo, ‘statua’ e ‘immagine’ di Dio, è collocato in uno spazio «quasi infinito», incorporeo, omogeneo, ma dotato di forza attrattiva, grazie alla quale desidera la pienezza e aborre il vuoto, odiato anche dai corpi che, a loro volta, godono del mutuo contatto (Physiologia, in Id., Opera latina, a cura di L. Firpo, 2° vol., 1975, pp. 575-81). Ogni ente deriva dall’azione esercitata dai due principi primi del caldo e del freddo – attivi e diffusivi di sé, strumenti e ‘fabbri’ di cui si serve Dio per esprimere e veicolare nel mondo i modi infiniti della propria sapienza creatrice – sulla materia, considerata non come privazione o un astratto ens rationis, bensì come mole corporea inerte, oscura, priva di qualsiasi forma, ma passibile di accoglierne ognuna, come la cera può accogliere ogni sigillo. Il Sole – caldissimo, luminosissimo, mobile – e la Terra – immobile, tenebrosa e pesante – sono i primi corpi ed elementi, sedi dei due primi principi; il centro della scena è occupato dalla nobiltà e dal primato del calore celeste che, assimilato all’anima del mondo, è il soffio caldo in grado di conferire connessione e vita a tutti gli enti in quanto infuso.
In una delle sue opere più felici e originali, Del senso delle cose e della magia, Campanella delinea la propria visione del mondo come un organismo vivente, «un animal grande e perfetto» (Le poesie, cit., p. 37) le cui singole parti sono dotate di vita e sensibilità. Sentire equivale a subire una parziale alterazione che viene percepita come gradevole, se utile per la conservazione, o, viceversa, come spiacevole, se dannosa. Il senso, pertanto, risulta connesso con la capacità di distinguere ciò che giova da ciò che nuoce e, quindi, con la conservazione della vita, in quanto consente di perseguire quanto contribuisce a incrementarla, e rifuggire o combattere quanto viene avvertito come distruttivo. La tensione verso la conservazione e la propagazione della vita accomuna tutti gli enti naturali: «In ogni cosa trovasi la fuga e odio della morte e amor della vita. Dunque la conservazione sarà il sommo bene d’ogni cosa» (Del senso delle cose e della magia, a cura di G. Ernst, 2007, p. 97). La sensibilità non è una prerogativa esclusiva dell’organismo animale, ma inerisce a tutti gli enti, seppure secondo gradazioni diverse e in forme peculiari. Alcuni, come i corpi celesti, l’aria, il fuoco, risultano dotati di senso molto più acuto e puro di quello animale; altri, come i minerali e i metalli, di un senso più ottuso e oscuro a causa della grevezza materiale. Sentono le acque e sente la terra, che Pitagora paragona a un «animal grosso»: «e li suoi peli e capegli son l’erbe e arbori, le pietre ossa, gli animali come pidocchi a noi» (p. 133). Sentono le piante, gli «animali immobili» che hanno «bocca, nervi, vene, cuoio, ossa, midolle, vesti, corna» (p. 159) e «si propagano e rampollano per generare un simile in cui vivano» (p. 97); fanno fiori e frutti, e «per conservare i semi li cingono d’osso e poi di polpa, e con le foglie li difendono dal caldo e dal gelo e con spine dalli animali per quanto ponno» (pp. 97-98). È dotata di «acutissimo senso» la luce, che si effonde e amplifica «con diletto grande», si riflette da ogni atomo d’aria, s’introduce anche nelle oscurità degli antri e delle caverne, e nei corpi trasparenti «si vede ella vagheggiarsi, aumentarsi e penetrare come a cose simili e godere e unirsi» (p. 131).
All’origine della costituzione degli organismi animali più complessi si trova un particolare grado di attenuazione del calore celeste, lo spiritus, un vapore e un soffio che, grazie alla sua sottigliezza e mobilità, è in grado di staccarsi dalla porzione di materia entro cui si trova rinchiuso e di agire su di essa. Non potendo esalare dalla corporeità per tornare verso il cielo, da cui ha origine e a cui segretamente tende, la plasma dall’interno nei modi più convenienti, organizzando gli organi che ne garantiscano la conservazione e la vita. Caldo, mobile, passibile, esso ha sede nel cervello, da dove, scorrendo per i sottilissimi canali nervosi, adempie a molteplici funzioni. Entrando in contatto, attraverso gli organi di senso, con la realtà esterna, esso subisce quelle modificazioni da cui hanno origine tutte le sue passioni e conoscenze. All’attività dello spiritus, che è capace di conservare le modificazioni e le impressioni ricevute, e di riutilizzarle quando si presentano situazioni analoghe, o di confrontarle e di estenderle, si riconducono tutti gli aspetti del processo conoscitivo, dalla memoria all’immaginazione, dal discorso all’intelletto stesso.
Il quarto libro dell’opera è dedicato alla magia naturale, dottrina antica e nobilissima, che Campanella si propone di riscattare dalla condizione di decadenza in cui si era venuta a trovare a causa del ricorso a pratiche superstiziose e a illusorie credenze in interventi demonici. Se Della Porta, nel descrivere le più curiose proprietà occulte di minerali, piante e animali, riteneva che non fosse possibile offrire una spiegazione dei rapporti di simpatia e antipatia, affinità e repulsioni esistenti fra gli enti naturali, Campanella si propone invece di reinterpretare questa esuberante tradizione alla luce della dottrina del senso delle cose e dello spiritus. Il permanere del senso negli enti e nell’aria in forme latenti e come sopito, per risvegliarsi in determinate occasioni, rende spiegabili fatti solo in apparenza prodigiosi, come il sanguinare, in presenza dell’assassino, del cadavere di chi è morto di morte violenta; o la possibile efficacia dell’‘unguento armario’, grazie al quale si può risanare una ferita a distanza, medicando l’arma che l’ha provocata; e il fatto che un tamburo di pelle di pecora vada in pezzi, quando sente suonare un tamburo di pelle di lupo, è dovuto al risvegliarsi della paura di un tempo. Il mago, conoscendo la specifica qualità del senso che inerisce a ogni ente, è in grado di utilizzarlo in modo conveniente, suggerendo cibi, bevande, climi, rimedi di erbe e di animali che giovano e potenziano le energie vitali. Soprattutto, il mago è capace di indurre sullo spiritus alterazioni e passioni. Le parole, la musica, i suoni, hanno «forza magica, stupenda e certa» (Del senso delle cose e della magia, cit., p. 210), in quanto, agendo sullo spiritus, hanno la capacità di impressionare gli animi e l’immaginazione, di suscitare sentimenti e passioni: i sapienti possiedono una «forza maga», e noi vediamo che l’oratore e il poeta riescono a far piangere, ridere e adirare gli uomini, suscitando in loro il ricordo di cose che per natura evocano tali sentimenti. La retorica, come la magia, agisce sulle passioni per provocare «l’amore e l’odio, l’ira e la paura, la docilità e lo stupore», senza servirsi di altri mezzi se non delle parole; essa
non chiama con incantamenti i demoni a sollevare siffatte passioni muovendo la fantasia, ma si serve di argomentazioni, di motti, di fervido incitamento, d’un fascino di parole ch’è quasi magico (Rhetorica, in Id., Tutte le opere, a cura di L. Firpo, 1° vol., 1954, pp. 743-45).
L’immagine di una natura come grande animale, le cui membra sono percorse dalla sensibilità e dalla vita, è assai lontana da quella galileiana di un libro dell’universo scritto in caratteri matematici, ma ciò non impedisce a Campanella di nutrire la più viva amicizia e stima nei confronti dello scienziato, che, incontrato in giovinezza a Padova, avrà modo di rivedere a quasi quarant’anni di distanza a Roma. Tuttavia, pur nella scarsità di rapporti personali reali, Campanella intrattiene con lui un costante dialogo filosofico e scientifico.
Il 13 gennaio 1611, dopo la lettura del Sidereus nuncius, Campanella scrive a Galilei un’elaborata epistola latina, che bene rispecchia le emozioni suscitate dallo straordinario messaggero celeste, in un intrecciarsi di entusiasmo e di perplessità, di elogi e di riserve. Inoltre, acutamente presago delle nubi teologiche che si sarebbero potute addensare sulla nuova astronomia, traccia rapide linee di possibili strategie difensive. Negli anni successivi egli mostrerà il più grande interesse per le dottrine galileiane relative alle macchie solari, ai corpi galleggianti, alle comete: al cadere del 1618 gli sarà concesso di osservare in carcere quelle che saranno all’origine del dibattito del Saggiatore e si affretterà a stendere un opuscolo indirizzato a Paolo V, per esprimere la propria opinione sul significato delle apparizioni celesti.
Il fervido dialogo ideale con Galilei raggiunge il suo punto culminante nella stesura della coraggiosa Apologia pro Galileo. Scritta di getto all’inizio del 1616 e pubblicata nel 1622 a Francoforte, l’operetta ha la struttura di una quaestio e si suddivide in cinque capitoli. Nel primo vengono elencati gli argomenti contro le posizioni galileiane, accusate di essere in contrasto con taluni passi biblici. Il secondo riporta gli argomenti a favore di Galilei, sottolineando come non solo uomini di scienza e filosofi, ma anche teologi insigni avessero accolto con favore la nuova dottrina astronomica, che fa rivivere le antiche dottrine di Pitagora, considerato discepolo di Mosè. Il terzo capitolo, vero cuore pulsante del testo, enuncia i principi e delinea le coordinate che consentono, nei due capitoli conclusivi, di replicare alle obiezioni antigalileiane e di valutare quelle a suo favore.
Campanella, nonostante la diversa immagine della natura da lui proposta, e le sue riserve nei confronti dell’eliocentrismo, difficilmente compatibile con i principi telesiani, rivendica con coraggio la piena liceità da parte di Galilei di leggere direttamente il libro della natura, per emendare i libri umani, sempre bisognosi di correzioni e integrazioni. Nell’Apologia egli attinge al suo sconfinato sapere teologico per ridefinire i rapporti fra filosofia, scienza e teologia, e con grande lucidità individua il nodo del problema nell’indebito valore dogmatico conferito alla filosofia aristotelica che, come ogni dottrina umana, andrà modificata, corretta, o abbandonata, alla luce di una sempre più approfondita lettura del libro naturale. Con un’abilità ermeneutica virtuosistica che attinge all’intera tradizione patristica e scolastica per rintracciare ogni spunto interpretativo divergente dall’aristotelismo, Campanella intende mostrare in che modo il connubio tra teologia e filosofia aristotelica, avvertito dai teologi come necessario e irrinunciabile, sia in verità precario, storicamente datato e rivedibile, senza che per questo la teologia corra alcun rischio. Mentre è vero proprio il contrario, in quanto essa verrebbe danneggiata dall’ostinata e cieca adesione a un sistema fisico non più in accordo con i nuovi dati osservativi e smentito dalle nuove scoperte.
Nella primavera del 1630, a Roma, le strade di Campanella e Galilei tornano a incrociarsi, e fra l’aprile 1631 e l’ottobre 1632 Campanella invia all’amico sei lettere, che presentano uno scorcio quanto mai efficace della tempesta che si stava scatenando sul Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Se quando riceve una copia dell’opera non esita a rallegrarsi per la felice riuscita di questa brillante «comedia filosofica», la soddisfazione è di breve durata. A distanza di appena due settimane, egli si affretta a informare l’amico dell’allarmante addensarsi di minacce da parte di persone tanto più pericolose e violente in quanto incompetenti:
Con gran disgusto mio ho sentito che si fa congregazione di teologi irati a proibire i Dialoghi di Vostra Signoria, e non ci entra persona che sappia matematica nè cose recondite. […] Dubito di violenza di gente che non sa (Lettere, a cura di G. Ernst, 2010, pp. 341-42).
Offrendosi prontamente come difensore, spera di essere nominato nella commissione deputata a giudicare l’opera, ma la sua candidatura verrà respinta seccamente, con la motivazione che «ha fatto opera quasi simile, che fu prohibita, né potrebbe difendere mentr’è reo» (G. Galilei, Carteggio, 1629-1632, in Id., Le opere, a cura di A. Favaro, 14° vol., 1904, p. 389). Nei giorni seguenti la situazione precipita drammaticamente, suscitando in Campanella la più profonda amarezza di fronte allo scatenarsi di passioni non governabili dalla ragione e alla necessità di una difficile rassegnazione:
Ho fatto il possibile per servirla. […] Non fui ammesso. […]. Concordiamoci col voler divino e crediamo che, se le cose naturali tutte son fatte con arte e sapienza infinita, anche le morali e politiche, se ben a noi pare al rovescio; e siamo figli dell’obedienza. Quando s’affreddarà il sangue, dirò a lei più (Lettere, cit., p. 343).
Nel 1623 vede la luce, a Francoforte, la Realis philosophia epilogistica, che veniva a concludere il ciclo delle opere di Campanella curate per le stampe da Adami. Il programma editoriale era stato inaugurato nel 1617 da un compendio di filosofia naturale ed era proseguito con il De sensu rerum et magia (1620) e l’Apologia pro Galileo (1622), opere che contribuiranno in modo decisivo alla diffusione della filosofia campanelliana negli ambienti colti dell’Europa del tempo (testi riprodotti in Opera latina, a cura di L. Firpo, 1975). La Philosophia realis era articolata in quattro sezioni: la parte iniziale, dedicata alla filosofia naturale, era seguita dall’Ethica e dalla Politica, e il volume si concludeva con l’Oeconomica, che trattava della famiglia e dell’organizzazione domestica.
Le prime linee della nuova etica campanelliana erano state tracciate in agili pagine dei capitoli conclusivi dell’Epilogo magno. Negli anni successivi, l’Ethica – riscritta in latino, ampliata nei contenuti e riorganizzata entro una più solida architettura sistematica – verrà ad acquistare una propria autonomia, e nell’edizione definitiva di Parigi (1637) sarà corredata di tre dense quaestiones, nelle quali la riflessione sulla virtù si confronta con le più rilevanti tradizioni etiche del passato e con dottrine recenti, in particolare quelle professate dai moderni ‘politici’ e dai sostenitori della ragion di Stato, che identificavano la virtù e la felicità con il potere e il dominio. Per Campanella, come già per Telesio, anche in campo morale la grande legge che collega e accomuna i diversi enti naturali è quella della conservazione del proprio essere. Ma riguardo alle passioni e alle operazioni ci si può sbagliare, in modo da non riuscire a conseguire il bene desiderato o evitare il male temuto, e questo può avere luogo per l’eccesso delle passioni, o per il loro difetto, o perché vengono indirizzate male. Sono pertanto necessarie delle regole, e la virtù è esattamente «la regola delle passioni, delle nozioni e delle affezioni dell’anima e delle operazioni volte ad acquisire il vero bene e a fuggire il vero male» (Ethica, a cura di G. Ernst, 2011, p. 8).
Ai fini della virtù, Telesio accentuava l’importanza della puritas dello spirito. In polemica con il rilievo conferito da Aristotele all’habitus, Telesio insisteva sulla stretta connessione fra spiritus e virtù, richiamandosi al paragone con l’oro: come è buono quell’oro costituito da quei determinati gradi di calore e da quella quantità di materia richiesti dalla sua propria natura, senza che nulla risulti in eccesso o in difetto, la stessa cosa vale per ogni altro ente – pietra, pianta, animale – la cui bontà è connessa con la sua purezza, ed è grazie alle sue qualità di leggerezza e trasparenza che lo spirito animale può imporre una misura alle passioni, identificandosi così con la virtù stessa. Secondo Campanella la qualità dello spirito, pur presentandosi come un terreno originario di primaria importanza, non costituisce però l’essenza della virtù. Lo spirito si configura come un elemento materiale, non formale della virtù e del vizio, che per definirsi come tali hanno bisogno di altre componenti specifiche che riguardano la mens e la libertà della scelta. La dimensione etica dell’uomo si fonda sul requisito che lo caratterizza in modo esclusivo, che è quello della libertà, grazie alla quale egli è in grado di operare scelte autonome. La libertà risulta poi connessa con la scintilla divina della mens, essenziata in modo puro e originario dalle primalità della Potenza, della Sapienza e dell’Amore, principi costitutivi di ogni ente, ed è dalla mens che deriva l’affinità dell’uomo con Dio e la sua possibilità di assimilarsi a lui.
Diversamente dagli animali, le cui azioni, sempre sollecitate da passioni e oggetti esterni, non derivano da scelte consapevoli e volontarie, l’uomo di fronte alle sollecitazioni sensibili può esitare, per valutare quale sia la scelta migliore, anche se talora può cadere in errore, ed è in grado di operare un calcolo che vada oltre il semplice vantaggio o la soddisfazione immediata del bisogno. Anche l’uomo può provare un’immediata attrazione per la bellezza di una donna o respingere il medico che gli offre una medicina amara, o, come il fanciullo, ribellarsi al pedagogo che lo punisce. Ma sta poi alla sua libertà, dopo un indugio e una riflessione, acconsentire o rifiutare questi primi impulsi – l’uomo può resistere al canto delle sirene, come Ulisse che si lega al palo della ragione.
Dopo avere affrontato i rapporti tra pulsioni sensibili e mens razionale e divina, tra inclinazioni fisiche e scelte autonome fondate sulla libertà, Campanella passa in rassegna virtù e vizi, organizzati secondo i tre livelli conservativi in sé, nei figli, nei rapporti con gli altri e nelle relazioni sociali – cui si viene ad aggiungere il quarto livello della conservazione dell’essere in Dio. L’affresco delineato presenta aspetti vivaci e originali, con frequenti riferimenti autobiografici e dure critiche ai vizi delle corti e dei principi. A testimonianza dell’insopprimibile libertà della volontà, che non può mai venire costretta ad assentire al male, Campanella rievoca la prova estrema della tortura subita (Ethica, cit., p. 229), e quando parla dell’amicizia non può fare a meno di osservare con amarezza come le persone fiduciose e leali attirino irresistibilmente, quasi calamite («proditorum magnes», p. 97), chi tenta di approfittarsi di loro, e come molti, che gli avevano promesso mari e monti, quando si era poi trattato di offrire un aiuto concreto, si fossero tirati indietro accampando mille scuse (p. 110).
Quanto ai principi, vengono denunciati impietosamente i molteplici vizi da cui sono afflitti: la rapacità e la dissennata prodigalità; la spudoratezza grazie alla quale non esitano a compiere inutili stragi per motivi futili; la superba taciturnità di quanti non si degnano di avere contatti con gli altri, «quasi loro fossero delle divinità, gli altri invece bestie» (pp. 91-92); o, viceversa, l’eccesso di allegrezza e la scurrilità di quanti, incapaci di raccogliersi all’interno di sé, si circondano di parassiti e di buffoni e «non sapendo reggere il peso dei loro doveri, si dedicano ai giochi» (p. 142); o, ancora, l’adulazione, che «acceca le menti degli uomini bramosi di lodi immense e li trasforma, come faceva Circe, in bestie» (p. 95). Ma il vizio peggiore dei principi tiranni, che, anziché ombra di Dio come i sovrani virtuosi, sono ombra del diavolo, consiste nel perseguitare e mettere a morte i sapienti, autentici re per natura e scomodi testimoni della loro indegnità:
I tiranni sono i più malefici di tutti, in quanto tradiscono la giustizia che è stata loro affidata, poiché sono vili e malvagi: mettono a morte i filosofi e i profeti e gli amici di Dio, e dopo averli eliminati dalla corte si circondano di uomini abbietti, poiché sono consapevoli di essere indegni di comandare a persone migliori di loro, oppure dove ci sono testimoni più sapienti, nemici della loro viziosità o ignoranza (Ethica, cit., p. 111).
Il pensiero politico di Campanella si dirama e si esprime in molteplici testi che, iscritti entro un’architettura filosofica più generale, si collocano spesso in zone di confine tra teologia, etica, filosofia della natura. Un pensiero multiforme, ma entro il quale è possibile individuare motivi unitari e la costanza di alcuni temi, primo fra tutti il proposito di rintracciare principi idonei a conferire unità, ordine, razionalità a una realtà disgregata e dominata dalla violenza e dai conflitti.
Fin dal giovanile Dialogo politico contro Luterani, Calvinisti e altri eretici (1595), Campanella prende decisamente posizione contro i riformati, responsabili di avere infranto l’unità cristiana suscitando contrasti e guerre. Essi inoltre professano dogmi politicamente rovinosi, come quello della predestinazione, che, vanificando il libero arbitrio dell’uomo e svuotando di valore e significato il suo operare, secondo Campanella risulta incompatibile con un’ordinata convivenza civile. L’immagine delineata dai riformati è quella di un Dio ingannatore e ingiusto, che afferma di voler salvare tutti, ma che ha già scelto i predestinati; che comanda agli uomini di volare senza dare loro le ali, per avere poi la possibilità di condannarli e punirli nel modo più severo. Un Dio tiranno e più crudele di Medea, che aveva sfogato la propria rabbia e il proprio sdegno sui suoi stessi figli perché sopraffatta dalla follia, mentre il Dio di Giovanni Calvino ha programmato lucidamente «ab eterno di far questo macello nei suoi figliuoli» (Dialogo politico contro Luterani, Calvinisti e altri eretici, a cura di D. Ciampoli, 1911, p. 123). Accentuando in modo esclusivo l’aspetto della potenza di Dio, trascurando quello della sua misericordia, i riformati lo presentano come un giudice inflessibile, dimenticando che è anche un padre amoroso sollecito del bene dei propri figli, tutti ugualmente amati – e quando uno dei tre interlocutori del dialogo non riesce a trattenere un grido di sgomento nei confronti delle nuove dottrine («Quanto m’atterrisce questa sorta di cristianesimo!»), Giacomo, portavoce dell’autore, può prontamente rassicurarlo: «La legge di Dio ben intesa è legge di consolazione e d’allegrezza» (p. 107).
Entro la riflessione campanelliana relativa al rapporto fra religione e politica, e all’esigenza di ripensare le modalità della ricostituzione dell’unità cristiana ridefinendo i rapporti fra potere temporale ed ecclesiastico, occupa un posto di rilievo la prospettiva di una monarchia universale e della riunificazione dell’unico gregge sotto un solo pastore (esemplare a questo proposito risulta la Monarchia del Messia, 1607). Già nei Discorsi ai principi d’Italia (1594, 1605) i signori della penisola vengono esortati a superare particolarismi e contrasti che li esporrebbero «alla bocca del gran drago turco» (Discorsi ai principi d’Italia e altri scritti filo-ispanici, a cura di L. Firpo, 1945, p. 109) e ad abbracciare una politica di alleanza con il pontefice, il padre comune che non può porsi che come garante di pace, difensore dei diritti dei figli più deboli, fautore di unione e baluardo contro i nemici della fede. Essi sono inoltre sollecitati ad assecondare il progetto universalistico dell’impero spagnolo, «fondato nell’occulta provvidenza di Dio, e non in prudenza e forza umana», al fine «di unir il mondo tutto sotto una legge» (p. 119).
I Discorsi si vengono così a inserire entro le coordinate della monarchia universale, le cui problematiche sono affrontate ed esposte con ampiezza nella Monarchia di Spagna (intrapresa nel 1598 e successivamente rialaborata). Si tratta di un testo complesso e ricco di umori, che ha suscitato numerosi problemi filologici, a causa delle inserzioni, nelle stampe secentesche, di passi estratti da Giovanni Botero, e interpretativi, soprattutto per il confronto istituito con Niccolò Machiavelli e i fautori della ragion di Stato. Se da un lato Campanella sottolinea i limiti filosofici della riflessione del Segretario fiorentino, al tempo stesso riprende entro un contesto cattolico e controriformistico la convinzione che la religione sia il più potente dei vincoli della comunità umana.
In questo come in altri testi Campanella insiste nel rilevare l’‘ignoranza’ di Machiavelli, il quale, tenendo conto solo della storia e dell’agire politico, non si preoccupa di inserire gli eventi umani in un reticolo causale più complesso. Ma in questo modo, anziché maestro di un’efficace prudenza politica, Machiavelli non è che il consigliere di un’astuzia tutta umana, che per la sua visuale ristretta, basata sull’empiria immediata, risulta perdente e fragile, come è provato dalle morti tragiche o soltanto meschine di suoi celebrati eroi quali Cesare Borgia o Castruccio Castracani. Nell’esordio della Monarchia di Spagna Campanella afferma che alla costituzione e alle vicende di ogni formazione politica concorrono tre cause: Dio, la prudenza e l’opportunità. La prima causa, che regge e governa le altre due, ed è sempre presente anche se in forme occulte, è dunque Dio. Ciò sta a significare che il politico abile e accorto deve sforzarsi di integrare le cause empiriche in quelle generali, ricorrendo anche alle «scienze altissime» della profezia e dell’astrologia. Facendo riferimento a opportuni testi scritturali, Campanella deduce che il «Re Cattolico» dovrà ispirarsi alla figura-modello di Ciro, investito da Dio della missione di liberatore della Chiesa dagli infedeli e di congregatore delle genti sotto un’unica fede, e che la sola via praticabile per realizzare i propri progetti universalistici è quella del più stretto accordo con la Chiesa e il pontefice, evitando ogni tentazione di apostasia e seguendo gli esempi di Costantino e Carlomagno.
Quanto alla prudenza, si tratta della virtù politica per eccellenza, alla quale spetta di incrementare la prosperità del «corpo di repubblica», favorendo i vincoli naturali ed elaborando le tecniche unitive atte a rinsaldare i legami delle parti con il tutto, a integrare il diverso al simile. Il politico prudente, che ha di mira il benessere dell’insieme, deve proporsi di promuovere tre generi di vincoli: quello degli animi, grazie all’impulso dato alle lettere, alle scienze, alla religione; quello dei corpi, incoraggiando, anche con i matrimoni, le unioni dei popoli di diversa costituzione e temperamento; infine, quello dei beni di fortuna, favorendo il benessere economico, grazie allo sviluppo dei traffici e soprattutto della navigazione, autentica linfa vitale che tiene uniti Paesi lontani e connette le membra separate dell’impero. Opposta alla prudenza è l’astuzia o ragion di Stato, che ha origine dall’individualità egoistica e mira, anziché al benessere comune, all’esclusivo vantaggio di chi detiene il potere.
Il confronto più filosoficamente radicale con la ragion di Stato e la dottrina della religione come invenzione politica, utile figmentum escogitato dai sacerdoti e dai principi per conseguire e mantenere il potere, si realizza nell’Ateismo trionfato (1606-1607), al quale non a caso Campanella in più occasioni fa riferimento con il titolo di Antimachiavellismo e che egli considera una sorta di spartiacque del suo pensiero, in quanto segna il passaggio da posizioni giovanili più francamente razionalistiche e naturalistiche a una più convinta adesione ai principi cristiani. La polemica antimachiavellica si coniuga con l’esigenza di intraprendere un’ampia indagine razionale, che passi in rassegna e vagli tutte le credenze religiose e le dottrine filosofiche, per mostrare come la religione sia, al contrario di quanto ritengono i politici, una virtus naturalis intrinseca nell’uomo. Un ulteriore momento della ricerca sarà volto a verificare il rapporto tra religione naturale e cristianesimo, per concludere che tra legge cristiana e legge naturale non c’è contrasto, bensì accordo profondo e originario, in quanto Cristo non ha vanificato e abolito la legge naturale, ma vi ha aggiunto precetti morali e cerimoniali che la completano e la perfezionano.
Il 15 agosto 1598, alla vigilia dei trent’anni e dopo un lungo periodo di lontananza, Campanella è di nuovo a Stilo, e l’anno seguente è coinvolto nei fatti più drammatici della sua vita. Interpretando segni naturali e testi profetici, che sembrano presagire l’imminenza di grandi mutamenti, ma facendosi soprattutto portavoce di un diffuso malcontento e di confuse aspirazioni a radicali cambiamenti sociali, organizza una vasta cospirazione, con il proposito di fondare una ‘repubblica’ emancipata dalla tirannia del sovrano spagnolo e alla quale, nuovo legislatore e messia, egli avrebbe dato una nuova legge naturale.
Fallita la congiura in seguito alla delazione di due complici che si dissociano, e superate le durissime prove dei primi anni di carcerazione, Campanella traccia nella Città del Sole (1602), che si presenta come un «dialogo filosofico» fra un marinaio di Cristoforo Colombo e un cavaliere dell’ordine degli ospitalieri, le linee della città filosofica che avrebbe voluto fondare. L’operetta vedrà la luce a una ventina d’anni di distanza, quando verrà inserita, in traduzione latina, nella Philosophia realis in qualità di appendice della terza parte politica (1623). Tobia Adami, curatore del volume, presentava questa «idea di repubblica filosofica» come una pietra preziosa («instar gemmae delectationis») e un modello ideale più persuasivo di quello proposto nell’antichità da Platone e, in tempi moderni, da Tommaso Moro, per il fatto di ispirarsi al grande exemplar della natura (cfr. T. Campanella, Opera latina, a cura di L. Firpo, 2° vol., 1975, p. 553).
La corretta imitazione del modello naturale comporta in primo luogo l’adeguamento fra ruoli sociali e reali attitudini e propensioni individuali. Quando tale corrispondenza viene alterata, nella commedia sociale le parti sono distribuite in modo dissennato e domina la scissione fra l’essere e l’apparire. Prevalgono così i re falsi, come Nerone, che «fu re per sorte in apparenza», mentre vengono perseguitati e messi a morte i sapienti come Socrate, re «per natura in veritate» (Le poesie, cit., p. 71). I Solari intendono rifiutare la follia dominante, per ristabilire un corretto nesso fra società e natura: ciò consentirà di evitare le distorsioni e i mali che derivano dal prevalere del caso sulla ragione, dell’apparenza sulla verità: «Essi confessano che nel mondo ci sia gran corruttela, e che gli uomini si reggono follemente e non con ragione; e che i buoni pateno e i tristi reggono» (La città del Sole, a cura di L. Firpo, G. Ernst, L. Salvetti Firpo, 1997, p. 52).
Il costante rinvio alla natura, espressione dell’intrinseca ars divina, costituisce la chiave di lettura più semplice e persuasiva dell’operetta. La città sarà tanto più felice e prospera quanto più costituirà un «corpo di repubblica», le cui singole membra, diversificate per funzioni, risultino coordinate al benessere comune. Riguardo al lavoro, in puntuale polemica con Aristotele, che escludeva dai più elevati livelli della virtù e dal novero di cittadini di pieno diritto gli artigiani, i contadini e quanti esercitano lavori manuali, per i Solari nessuna attività è vile o bassa, e ognuna ha pari dignità. Essi considerano spregevole solo l’ozio, venendo così a privilegiare la dignità del lavoro e a ribaltare un assurdo concetto di nobiltà, collegato all’inattività e al vizio:
Quello è tenuto di più gran nobiltà, che più arti impara, e meglio le fa. Onde si ridono di noi che gli artefici appellamo ignobili, e diciamo nobili quelli, che null’arte imparano e stanno oziosi e tengono in ozio e lascivia tanti servitori con roina della republica (p. 13).
Grazie all’equa suddivisione del lavoro, è sufficiente che ognuno lavori quattro ore al giorno: ma è fondamentale che lavorino tutti, perché l’ozio degli uni si ripercuoterebbe sullo sfruttamento e la fatica degli altri, secondo l’osservazione più risentita di tutto il dialogo, in cui la realtà esterna fa una violenta irruzione, con il suo carico di ingiustizia e di sofferenza, nell’atmosfera serena della città solare:
In Napoli son da trecento milia anime, e non faticano cinquanta milia; e questi patiscono fatica assai e si struggono; e l’oziosi si perdono anche per l’ozio, avarizia, lascivia e usura, e molta gente guastano, tenendoli in servitù e povertà (pp. 23-24).
I Solari non possiedono nulla, ma tutto è comune, dai pasti alle abitazioni, dall’apprendimento delle scienze all’esercizio delle attività, dagli onori ai divertimenti, dalle donne ai figli; essi vivono «alla filosofica in commune» in quanto, secondo Campanella, qualsiasi forma di possesso, comprese quelle di una casa e di una famiglia, non fa che rafforzare l’amore individuale egoistico a scapito dell’amore comune, con tutte le funeste conseguenze che ciò comporta sul piano morale e sociale. Quanto all’educazione e all’apprendimento, uno degli aspetti più spettacolari e immaginosi della Città del Sole è quello delle mura dipinte. I gironi delle mura, costituiti dagli stessi palazzi abitativi, oltre che racchiudere e proteggere la città, sono anche le quinte di uno straordinario teatro e le pagine di un’enciclopedia illustrata del sapere. Le raffigurazioni delle arti e delle scienze rendono le conoscenze accessibili a tutti, grazie a una visualizzazione che favorisce un apprendimento più rapido ed efficace. L’aspetto più sconcertante della città solare, che Campanella stesso presenta come cosa «dura e ardua», riguarda la cosiddetta comunità delle donne. L’atto generativo comporta una grande responsabilità, e se viene esercitato in modo scorretto può dar luogo a una lunga catena di sofferenze: per questi motivi dovrà rispettare precise norme, e non essere affidato al caso né ai sentimenti individuali. Inoltre, esiste una stretta connessione fra l’originaria «complessione» naturale e la virtù morale, che per attecchire e prosperare ha bisogno di un terreno idoneo. I Solari distinguono tra amore ed esercizio della sessualità. Se l’affettività tra uomini e donne, basata sull’amicizia e il rispetto più che sull’attrazione sessuale, si esprime in atti lontani dalla sessualità, con scambi di doni, conversazioni, danze, l’esercizio della sessualità generativa deve invece rispettare precise regole riguardanti le qualità fisiche e morali dei generatori e la scelta dell’ora favorevole, condizioni stabilite dal medico e dall’astrologo: l’unione sessuale non è l’espressione di un rapporto personale, affettivo o passionale, ma è connessa con la responsabilità sociale della generazione e con l’amore per la collettività.
La religione solare, che accoglie principi fondamentali del cristianesimo quali l’immortalità dell’anima e la provvidenza divina, è una religione naturale che stabilisce una specie di osmosi fra la città e gli astri. Il tempio è aperto e non circondato da mura – in una poesia Campanella promette: «Tempio farò il cielo, altar le stelle» (Le poesie, cit., p. 327). Sulla volta della cupola sono raffigurate le stelle con i loro influssi sugli enti terrestri; l’altare, sul quale sono collocati i due globi del cielo e della Terra, è a forma di Sole; le preghiere sono rivolte al cielo; il compito dei ventiquattro sacerdoti che vivono in celle collocate nella parte più alta del tempio è quello di osservare le stelle e annotare con strumenti i loro movimenti, e sono loro a indicare le ore più favorevoli per ogni attività, dalla generazione ai lavori agricoli, ponendosi in tal modo come intermediari tra Dio e gli uomini.
La riflessione politica di Campanella accompagna tutto il suo itinerario biografico e intellettuale, riproponendo nuclei e temi che permangono, ma introducendo al tempo stesso anche delle significative varianti. Una delle più vistose è l’abbandono delle posizioni filoispaniche per accostarsi a quelle francesi, processo che ha inizio negli anni romani (1626-34), dopo la liberazione dalle carceri di Napoli, e che giungerà alla sua espressione più completa nell’ultimo periodo di Parigi (1634-39).
Entrato in contatto con il medico e letterato francese Gabriel Naudé, nella primavera del 1632 gli detta il Syntagma de libris propriis, una preziosa autobiografia intellettuale, e al cadere dell’anno scrive un vivace Dialogo a tre voci, nel quale alle posizioni contrapposte dello Spagnolo e del Francese si aggiunge quella, distaccata e razionale, del Veneziano. Il motivo centrale di queste pagine è la difesa della politica di Richelieu contro le accuse e gli intrighi interni alla stessa famiglia reale. Deplorando i fattori di discordia che rischiano di paralizzare le energie dell’intera nazione, Campanella mostra come le iniziative di Richelieu siano tutte volte non all’acquisizione di un egoistico potere personale, bensì al rafforzamento dello Stato contro le forze che attentano alla sua unità e alla costituzione di un sempre più compatto «corpo di repubblica». Dando inizio a un sistematico confronto tra la monarchia spagnola e quella francese, al fine di valutare quale delle due potenze rivali possa aspirare al primato, il Veneziano dimostra come la Francia, nonostante le difficoltà e i contrasti, stia percorrendo una fase ascendente di espansione e di crescita, mentre la Spagna mostra tutti i sintomi della crisi e di un inarrestabile declino. Posizioni che Campanella riprenderà e approfondirà negli anni successivi, mostrando con chiarezza, e non senza rischi, come fossero ormai lontani gli anni in cui individuava nel sovrano spagnolo il ‘mistico Ciro’, investito dalla provvidenza divina della missione di riedificare la nuova Gerusalemme e congregare le genti in un unico ovile.
Negli anni parigini si assiste a una vivace ripresa degli interessi politici da parte di Campanella, soprattutto nel biennio 1635-36, anche per l’incalzare degli eventi collegati alla guerra dei Trent’anni. Il declino della Spagna, oltre che da ragioni astrologiche e profetiche, è denunciato da vizi quali l’ingiustizia, la crudeltà, l’ingratitudine, l’ipocrisia religiosa. Ma le carenze più gravi della monarchia spagnola riguardano l’incapacità di ‘tesorizzare’, per l’adozione di una politica economica rovinosa, e di ‘spagnolizzare’ le popolazioni. Al rifiuto, originato da un’immensa superbia, di adottare forme di integrazione delle popolazioni all’impero, è conseguita un’allarmante contrazione demografica, a causa delle perdite di soldati in guerra e della sterilità delle donne – e lo sterminio delle popolazioni che il sovrano non era in grado di governare, come è drammaticamente successo nel Nuovo Mondo.
Da un’analisi comparata, la Francia presenta un’oggettiva superiorità basata su fattori molto concreti quali una popolazione di gran lunga più numerosa, una maggior quantità di approvvigionamenti alimentari, una più compatta unione naturale, un’economia più solida e risorse intellettuali più vivaci. Ma, per uno strano paradosso, la Francia sembra non essere consapevole di tale situazione e non avere fiducia nelle proprie forze. Risulta pertanto necessario che essa acquisisca una percezione reale delle situazioni concrete, al di là di false credenze e dissimulazioni ingannevoli, fomentate ad arte da chi ha tutto l’interesse a diffonderle. In questo processo di smascheramento diviene fondamentale il ruolo di qualcuno in grado di usare nel modo più conveniente la ‘lingua’ che, come Campanella non si stanca di ribadire, è il primo e più importante degli strumenti politici. Gli spagnoli conoscono bene la potenza della parola e sanno utilizzarla con abilità e spregiudicatezza: è proprio grazie a tale abilità che si autoproclamano i soli difensori autorizzati del cattolicesimo. Campanella intende contribuire a porre fine al paradosso in virtù del quale l’impero di una Spagna al tracollo economico e demografico si estende su tutto il mondo, mentre il dominio della Francia riesce a stento ad attingere i suoi confini naturali. Per ristabilire il corretto rapporto fra apparenza e realtà, finzione e verità, è necessario che un «sagace filosofo» smascheri gli inganni e riveli l’intrinseca fragilità di una potenza condannata al declino.
L’esule Campanella, nonostante le delusioni, la stanchezza degli anni, le amarezze patite, assume su di sé con energia questo ruolo, sia per esortare i francesi, una volta diventati consapevoli della propria superiorità nei confronti di un impero al tramonto, a farsi carico della responsabilità di porsi come liberatores orbis; sia per incoraggiare i principi italiani – pronunciando una franca palinodia delle posizioni giovanili – a svincolarsi dalla sudditanza tirannica agli spagnoli, risvegliandosi da una sorta di ingannevole fascinazione in virtù della quale danno denari e soldati per rafforzare una potenza che li divorerà, comportandosi così come «s’un caprone donasse sussidio al lupo, quando dentro la sua mandria entra a predare» (Al duca di Savoia nel 1636, in Tommaso Campanella, a cura di G. Ernst, 1999, p. 1021) o come chi dona soldi al boia che lo impiccherà (A Ferdinando II granduca di Toscana [1636], in Tommaso Campanella, cit., p. 1025).
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Epilogo magno, a cura di C. Ottaviano, Roma 1939.
Discorsi ai principi d’Italia e altri scritti filo-ispanici, a cura di L. Firpo, Torino 1945.
Theologicorum libri, a cura di R. Amerio (dal 1993 a cura di M. Muccillo), 35 voll., Roma 1949-.
Scritti letterari, in Tutte le opere, a cura di L. Firpo, 1° vol., Milano 1954.
Opera latina Francofurti impressa annis 1617-1630 (rist. anast. a cura di L. Firpo, 2 voll., Torino 1975).
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Monarchia del Messia, a cura di V. Frajese, Roma 1995.
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