CARACCIOLO, Tommaso
Nacque in località imprecisata da Battista e da Covella Ruffo nella prima metà del XV secolo. Sesto conte di Gerace e secondo conte di Terranova, ereditò dal padre i beni che gli erano stati in un primo tempo confiscati e poi restituiti da Alfonso I d'Aragona. Il C. non fu noto con il titolo di conte, ma con quello di marchese di Gerace, che si autoattribuì. Le notizie che si hanno di lui sono soprattutto una serie di esempi di prepotenza baronale, che, opprimendo i sudditi, mostrava di tenere in dispregio l'autorità regia. Le brutalità spicciole del C., non improntate a fini politici, che provocavano continui appelli e reclami di suoi vassalli al viceré di Calabria, il quale raramente e a gran fatica riusciva a riportare il marchese a un comportamento secondo giustizia, finirono con il condurlo alla rovina.
Il primo episodio di questa serie, del quale abbiamo notizia, è del maggio del 1452, quando il C., con il pretesto che un calderaio non era in regola con il pagamento degli oneri fiscali, si impadronì del suo cavallo e del misero carico che costituiva la risorsa di vita del poveretto. Nel novembre dello stesso anno il C. pose un'ipoteca sul complesso dei suoi beni a favore del conte Onorato Caetani, a garanzia di un prestito da questo ricevuto.
Un altro episodio illustrante la prepotenza del C. è dell'aprile-dicembre 1453. Un tale Giulio Mustica fu arrestato per ordine del marchese, pare immotivatamente. Il C. pose quale condizione per la sua liberazione il pagamento di duecento ducati, che la moglie del prigioniero fu nell'impossibilità di procurarsi. La somma di 25 ducati che la donna riuscì a mettere insieme fu incamerata dal C., senza che il suo atteggiamento mutasse in alcun modo. Il Mustica allora tentò, con successo, aiutato dalla moglie che gli fece pervenire una fune, la via della fuga. L'ira del C. si volse allora verso il genero dell'uomo, Stefano Calotari, che solo dopo ripetuti interventi del viceré poté, se non continuare a vivere tranquillo la sua vita, almeno svendere la sua roba e trasferirsi altrove con la moglie e i figli.
Anche i parenti ebbero motivo di lagnarsi del C., tanto che Giovanni Musolino, marito di una sua sorella naturale, Fredina, non riuscì mai a ottenere la dote che gli era stata promessa. È logico che, visti gli episodi illustrati, chiunque ne avesse la minima possibilità preferisse lasciare le località sottoposte all'arbitrio del marchese e trasferirsi in terre demaniali. Ma il C. cercava di impedire anche questo. All'inizio del 1454 un tale Giliberto da Procida dovette rivolgersi ripetutamente al viceré per poter superare gli ostacoli frapposti dal marchese e potersi finalmente trasferire nella terra demaniale di Seminara. Sempre nel 1454 il viceré, Francesco Siscar, dovette intervenire di nuovo presso il C. per fargli restituire a Francesca Cinquefondi un orto che le era stato sottratto.
Senza dubbio il modo di agire del C. non poteva non provocare il risentimento e la preoccupazione del re, il cui prestigio era dal comportamento del marchese gravemente scosso. Prima che questo potesse costituire, oltre che uno scorno, un pericolo politico, il 14 ag. 1454, presa occasione di sospetto dall'arrivo o dal presunto arrivo di alcune navi sulle coste calabre, fu emesso mandato di cattura contro il Caracciolo. Questi fuggì a Napoli, ove il 21 aprile dell'anno successivo fu preso e imprigionato in Castelnuovo. Fu posto allora l'assedio da parte del viceré al castello di Gerace, che cadde dopo dodici giorni. La moglie, Palma Margherita di Viterbo, contessa di Belcastro, dalla quale il C. aveva avuto sei figlie femmine e un maschio, Bernardino, presa prigioniera fu condotta a Cosenza. Le altre terre e beni di lui, sequestrati, furono affidati in amministrazione provvisoria a funzionari regi. Il processo del C., che richiese una lunga istruttoria, la presenza a Napoli per vari mesi del viceré di Calabria e l'escussione di trentadue testimoni, si svolse dal luglio al dicembre del 1455. La sentenza, emessa il 13 dicembre, fu di confisca dei beni e di condanna alla pena capitale, commutata per grazia regale, nell'ergastolo. Dei suoi possedimenti una selva, nelle pertinenze di Marano (Napoli), nel dicembre del 1461 fu concessa al conte Onorato Caetani e il marchesato di Gerace pervenne a un figlio naturale di Ferdinando I, Enrico d'Aragona.
Il C. non morì in carcere; in epoca imprecisata, vecchio e in pessime condizioni economiche, fu liberato e si trasferì a Roma, ove morì prima del 1466. La sua biografia meritò a giudizio di Tristano Caracciolo di essere inserita, nel suo De varietate fortunae, fra quelle di coloro che, avendo conosciuto la potenza e il successo, conclusero la loro vita miseramente.
Fonti e Bibl.: G. Caetani, Regesta chartarum, V, San Casciano Val di Pesa 1930, p. 201; Regesto della cancelleria aragonese di Napoli, a cura di J. Mazzoleni, Napoli 1951, p. 9; T. Caracciolo, De varietate fortunae, in Rer. Ital. Script., 2 ediz., XXII, 1, a cura di G. Paladino, p. 92; P. Gentile, Finanze e Parlamenti nel Regno di Napoli, in Arch. stor. per le prov. napol., XXXVIII (1913), pp. 207-10; Id., Lo Stato napol. sotto Alfonso I d'Aragona,ibid., n.s., XXIV (1938), p. 43; E. Pontieri, La Calabria a metà del sec. XV..., Napoli s.d. (ma 1963), pp. 50-53, 200; F. Fabris, La genealogia della famiglia Caracciolo, a cura di A. Caracciolo, Napoli 1966, tav. X.