CONTARINI, Tommaso
Da non confondere coi coetaneo Tommaso di Nicolò, sopracomito condannato in contumacia con altri due colleghi nel 1500 per non aver soccorso una galera attaccata dai Turchi, nacque probabilmente nel 1459, secondo dei tre figli di Michele di Marco, del ramo contariniano dei SS. Apostoli, e di Maria Zane di Tommaso di Pasquale. Nel 1491 sposò Elisabetta Malipiero di Perazzo di Zuanne, da cui ebbe due figli. Agostino, che fu rettore a Chiog gia, Vicenza, Bergamo e Brescia, e Michele, morto nel 1519, poco più che ventenne, mentre si trovava a Costantinopoli al seguito del padre.
Economicamente il C. non dovette godere di una fortuna di particolare rilievo: la "condition" presentata per la redecima del 1537 gli ascrive infatti alcune case e magazzini a. Venezia, un centinaio di campi e dei mulini nel Vicentino, ed un capitale di 2.000 ducati investito nei dazi dei pistori e del vino che rendevano complessivamente 265 ducati all'amo. Ma non tanto sul patrimonio immobiliare dovevano fondarsi i suoi interessi, quanto sui traffici commerciali, al cui esercizio dedicò probabilmente - benché non ve ne sia esplicita documentazione - larga parte della sua giovinezza e maturità.
Sul finire del Quattrocento lo sappiamo infatti proprietario, in società coi cognati, di una cocca di settecento botti, che nell'aprile del 1499, mentre stava per partire con un carico di legnami per la Catalogna, venne requisita e armata dalla Signoria per la guerra coi Turchi, e finì poi affondata pochi mesi dopo, lanciata in fiamme contro la flotta nemica. Ripagato del danno subito, il C. continuò l'esercizio della mercatura: autorevole membro della comunità veneziana a Damasco, nel maggio 1502 ne veniva inviato al Cairo con Antonio Giustinian e Marcantonio Priuli, a sostenere le ragioni dei mercanti presso il sultano, che esigeva da loro acquisti esorbitanti di pepe.
La missiene ebbe un esito disastroso. Accoltili dapprima benevolmente e accettati i ricchi doni che gli portavano, il sultano non esitò poi a mettere i tre in catene, visto il diniego opposto alle sue pretese, liberandoli solo verso la fine di giugno, dopo aver e-storto loro oltre 15.000 ducati che finirono per appesantire ulteriormente il già grave indebitamento del cottimo.Tornato di lì a poco a Venezia, il C. iniziò la sua partecipazione alla vita pubblica, non tuttavia per entrare in quei consigli e magistrature cittadine cui pure, ormai prossimo alla cinquantina, avrebbe potuto aspirare, bensì per seguire una carriera consona alla lunga esperienza maturata nei mercati del Levante. Nel dicembre 1505 veniva infatti eletto console a Damasco, e tornava dunque a stabilirsi nella città siriana fino al febbraio 1509. Di ritorno a Venezia proprio nei giorni della crisi di Agnadello. il C. veniva impegnato nel censimento della popolazione organizzato dai deputati sopra i sestieri, ma già in agosto il Senato riteneva di poterne meglio utilizzare le capacità sul fronte non meno vitale dei traffici mercantili, inviandolo come console ad Alessandria.
Se nella lunga permanenza a Damasco il C. non aveva dovuto affrontare problemi che uscissero dall'ambito dell'ordinaria amministrazione, dopo che l'invio di un ambasciatore al Cairo, in seguito alle vicende del 1502, aveva portato ad un notevole miglioramento della situazione dei cottimo, ben altrimenti travagliata fu la sua missione ad Alessandria. Raggiunta la città egiziana solo il 15 apr. 1510, accolto da grandi festeggiamenti per la ripresa dei traffici che la sua presenza lasciava auspicare, il console trovava un paese minato da una grave crisi, mentre le basi del commercio delle spezie sembravano sul punto di sgretolarsi sotto le cannonate delle caravelle portoghesi e molti signori indiani minacciavano di abbandonare la tradizionale alleanza col sultano, impotente a garantire la loro sicurezza, e il Cairo era sconvolto da una feroce rivolta dei Mamelucchi. Appunto dall'incrociarsi tra la crisi egiziana e quella ancor più acuta che travagliava la Repubblica, traeva in definitiva la sua origine anche il "garbujo" che di li a poco avrebbe coinvolto il C. assieme a tutta la comunità veneziana.
In ottobre giunse l'ordine ai consoli veneziani ad Alessandria e in Siria di trasferirsi al Cairo con tutti i mercanti, mentre ogni commercio veniva sospeso e i magazzini sigillati. Motivo della convocazione era l'accusa, rivolta in particolare al console di Damasco Piero Zen, di aver appoggiato presso la Signoria gli inviati del sofì di Persia, nemico del sultano; altre accuse riguardavano l'asilo e l'appoggio che i Veneziani avrebbero dato a Rodioti e corsari nell'isola di Cipro, e in generale il loro scarso impegno nella repressione della pirateria. Man mano che gli si presentavano, il sultano fece gettare tutti in prigione, mettendo addirittura in catene lo Zen, mentre per il C. si limitò agli arresti domiciliari, né valsero ad acquetarlo i ricchissimi doni offertigli.
Al di là dei pretesti che l'avevano generata, motivi più profondi spingevano infattì il sultano a perseverare nella sua azione di rappresaglia: la grave contrazione nel corrimercio delle spèzie, anzitutto, e il timore che la Repubblica si rivolgesse al Portogallo per le forniture di pepe; l'illusione di servirsi nella guerra coi Persiani e i Portoghesi di un'intesa militare con la Francia, da sostituire a quella con Venezia, la cui potenza appariva prossima a crollare miseramente; allo stesso tempo, la intenzione di profittare dell'episodio per veder riaffermato il proprio prestigio a spese della Repubblica, costringendola ad inviare al Cairo un ambasciatore autorevole.
Dopo quasi venti mesi di prigionia, trascorsi in trattative senza esito col sultano e i suoi ministri, fu proprio l'arrivo dell'anibasciatore Domenico Trevisan, nel maggio 1512, a permettere finalmente la soluzione della vicenda, che con una contrastatissima revisione degli accordi commerciali portò alla liberazione di tutti i sudditi veneziani, mentre lo Zen veniva consegnato in catene, donato come schiavo alla Signoria.
Trascorso un anno ancora ad Alessandria, nel maggio 151 3 il C. fece ritorno a Venezia, dove riferì degli "afanni patiti in el suo consolado" e partecipò con lo Zen al dibattito sulla riforma dei cottimi. Negli anni seguenti fece parte della zonta del Senato, ed entrò numerose volte nelle ballottazioni per la carica di savio di Terraferma, ma senza riuscirne eletto. Venne bensì nuovamente scelto, nel giugno 1518, per il consolato di Damasco, ma preferì rifiutare. Riuscito in dicembre savio alla Mercanzia, si fece promotore di una coraggiosa "parte" che, prendendo atto della definitiva crisi del traffico levantino del pepe, ne eliminava i privilegi abolendo in pratica il dazio imposto sul pepe di provenienza portoghese. Restò comunque poco in tale carica, poiché nel gennaio 1519 venne eletto bailo a Costarifinopoli.
Dato il momento di tensione attraversato dalle relazioni veneto-turche, la missione del C. assumeva un particolare rilievo diplomatico: un oratore di Sellm si era recato a Venezia per lamentare una lunga serie di soprusi e violenze subite dai sudditi in Dalmazia e nell'Egeo; ansioso di restaurare rapporti amichevoli con la Porta, il Senato - sia per risparmiare le spese di una missione ufficiale sia per non dimostrare un'eccessiva sottomissione - decise di profittare dell'invio del C., commettendogli di inquisire lungo il viaggio sui fatti lamentati per poi renderne ragione al sultano, nonostante l'opinione di quanti - come Marin Sanuto - ritenevano improprio, ed anzi offensivo per Selim, affidare incombenze di tale importanza ad un bailo.
Partito nel marzo 1519, il C. rischiò subito di compromettere il buon esito della missione. Attaccata nei pressi di Sebenico da alcune fuste di corsari turchi, la sua galera ebbe la meglio e vennero fatti anche numerosi prigionieri, brutalmente costretti poi a scegliere tra la conversione e l'affogamento. L'episodio suscitò però le ire del sangiacco di Cattaro, che solo a caro prezzo accondiscese a rilasciare al bailo un attestato secondo cui tutti i turchi uccisi erano "homeni di mai afare". Giunto infine a Costantinopoli agli inizi di luglio, il C. trovò una situazione ancor più difficile del previsto: alle lamentele già note si aggiungevano l'irritazione per l'ormai biennale ritardo di Cipro e Zante nel pagamento dei tributidovuti alla Porta, le querele delle vedove dei corsari uccisi, e i reclami di un certo Manoli Spandolin, creditore di grosse somme dai mercanti veneziani.
Tutti problemi di non improba soluzione, se solo il C. avesse potuto disporre di quel denaro di cui invano chiedeva pressantemente l'invio. "Idio li aiuti!" - commentava il Sanuto un suo dispaccio - giacché "non havendo libertà di spender e spander, starà mal le cosse sue." Nondimeno egli seppe pazientemente dirimere ogni questione, conquistando abilmente la fiducia dei pascià e guadagnandosi le lodi del Senato per il suo operato; poté così adempiere in relativa tranquillità alle delicato mansioni di filtro e di decantazione nello scambio reciproco di querele ed accuse tra Venezia e la Porta, generate dai quotidiani incidenti tra i rispettivi sudditi, seppure non mancarono momenti di tensione anche assai acuta: quando ad esempio, nel gennaio 1520, alla morte del pascià bcsniaco, i suoi uomini si abbandonarono a gravissime scorrefle in Dalmazia, o quando, in giugno, il timore che la grande armata allestita da Selim mirasse alla conquista di Cipro costrinse Venezia ad una frenetica e costosa opera di riarmo.
Fu solo nell'ultimo periodo di permanenza a Costantinopoli che la posizione dei C. si fece veramente difficile. Nell'agosto 1520 l'affondamento di alcune navi turche, benché munite di lasciapassare del bailo, e la cattura del cognato del Barbarossa che comandava il convoglio, avevano provocato minacce di guerra da parte dei pascià, che non si erano acquetate né alle promesse di refusione dei danni né alle rimostranze veneziane per il continuo imperversare della pirateria turca; in ottobre era poi morto Selim, cosicché, proprio quando urgeva ritessere le fila della mediazione diplomatica, l'attesa per l'imminente arrivo dell'ambasciatore, con i consueti omaggi al nuovo sultano, veniva a ripercuotersi negativamente sull'operato del bailo, svuotandone la figura della rappresentatività ed autorevolezza necessarie. L'oratore Marco Minio arrivava però a Costantinopoli solo nel settembre 1521, cosicché per quasi un anno il C. fu costretto a sostenere una posizione di estremo disagio, ridotto a bersaglio impotente dell'irritazione e dell'irrisione dei pascià, di cui si coglie l'eco nelle sue sempre più insistenti richieste di affrettare l'invio del successore. Ma solo nell'ottobre 1522 egli poté presentare al Senato la sua relazione, il cui scamo elenco dì dati sulla ricchezza e la potenza militare ottomana bastava tuttavia a suggerire eloquentemente l'opportunità di perseguire una politica di pace e di buoni rapporti col Turco.
Il ritorno a Venezia segnò anche l'ingresso definitivo del C. nei massimi orgatu di governo della Repubblica: nel 1523, 1524 e 1526 fu savio di Terraferma; nel 124, '25, '273 '29 e '30 fu membro del Senato o della sua zonta; nel '31 fece parte dei Consiglio dei dieci, e fu inoltre eletto savio alle Acque nel '23, alla Mercanzia nel '25, alle Decime nel '30 e alle Artiglierie nel '31.
Come savio di Terraferma, il C. partecipò all'accesissimo dibattito in Senato del 29 e 30 nov. 1526, sulle direttive da dare al duca di Urbino in seguito all'avanzata delle truppe del Frundsberg. Mentre la maggior parte del Collegio intendeva accogliere gli appelli di F. Guicciardini e di Lodovico Canossa, inviando il capitano generale oltre Po in soccorso dello Stato pontificio, assieme ad altri due savi il C. - memore probabilmente dei disastro di Agnadello - propendeva per una condotta più prudente, che mirasse anzitutto alla salvaguardia della Terraferma, anche a costo di venir meno agli impegni presi con gli alleati. Si riferisce certamente a quelle discussioni, benché il titolo del manoscritto rinvii "al tempo della guerra di Cambrai", una anonima "aringa in lingua veneziana in risposta a Tommaso Contarini", che ne contrasta con grande animosità le opinioni: un testo anche linguisticamente molto colorito, che E. A. Cicogna ritenne frutto di finzione letteraria, di mano dei Calmo o dei Ruzante, ma che più probabilmente sembra riportare un reale intervento al Senato, forse ad opera del savio agli Ordini Zaccaria Trevisan.
In questi anni il C. ebbe a compiere anche due incarichi diplomatici: il primo nel 1524, quando fece parte della delegazione inviata a congratularsi con Clemente VII per la sua assunzione al pontificato, l'altro nel 1528, come oratore al Turco.
Ufficialmente lo scopo di quest'ultima missione, secondo la commissione affidatagli dal Senato il 19 marzo, era di confermare le già buone relazioni con la Porta, ringraziando adeguatamente Solimano e il gran visir Ibrāhim per i recenti permessi d'esportazione di frumento e sainitro, preziosissimi per la guerra in corso, cercando possibilmente di ottenerne il rinnovo; l'unica doglianza da fare riguardava le malversazioni dello sceriffe di Alessandria verso i mercanti veneziani. Ma allo stesso tempo essa si inseriva in una complessa manovra politico-militare condotta nella massima segretezza dal Consiglio dei dieci e mirante a stabilire una sorta di alleanza di fatto con i Turchi, spingendoli ad intervenire in Ungheria, allo scopo di alleggerire con la apertura di un nuovo fronte la pressione delle truppe imperiali in Italia.
Mentre dunque a Costantinopoli allo oratore e vicebailo Pietro Zen veniva ordinato di sollecitare il sultano a dare inizio quanto prima alla campagna d'Ungheria, in modo di rompere i "disegni" dello imperatore "tuti tendenti a la Monarchia", arrivando persino a sottolineare "la grande occasione ch'el Signor Idio presta a Sua Excelentia de trovar l'Ungaria che la non po haver subsidio da la Alemagna", il C., giunto in maggio a Sebenico, doveva dapprima cercare di convincere il sangiacco della Bosnia ad invadere subito i territori arciducali, e in caso di pericolo a venire direttamente in aiuto di Venezia, per poi raggiungere per l'entroterra Costantinopoli e rinnovare le pressioni sul sultano. Se poi nell'immediato la missione dei due oratori parve avere successo, anche riguardo alle tratte dei frumento e allo sceriffo contestato, la lunga dilazione con cui i Turchi misero in atto i loro piani contro l'Ungheria, muovendosi appena un mese prima della stipulazione della pace di Cambrai, mandò in fumo le speranze del Consiglio dei dieci.
In margine a quest'ambasciata del C., merita anche ricordare alcune sue lunghe lettere inviate all'amico Girolamo Querini e trascritte dal Sanuto, che riportano niinutamente le sue impressioni sul viaggio e la permanenza nella capitale turca, descrivendo i paesaggi, le usanze, le feste, i cibi, i costumi, con una meraviglia e un entusiasmo per nulla appannati dalla stanchezza per il "sinestrissimo" cammino né dall'ormai lunga esperienza di quei paesi.
Sul finire del 1531 il C. venne eletto luogotenente della Patria del Friuli, e raggiunse Udine sin dal marzo 1532.
Benché non mancassero gravi problemi di carattere amministrativo, soprattutto per i contrasti tra Comunità e signori feudali, che paralizzavano l'esatone delle imposte e che richiesero l'invio di due sindaci inquisitori da Venezia, tuttavia questi non trovano che brevi cenni nei dispacci del luogotenente, totalmente dominati come sono dal quotidiano preoccupato ragguaglio sulla nuova avanzata dell'esercito turco nella piana danubiana, quella stessa che solo tre anni prima proprio il C. era stato inviato a sollecitare, ma che ora - raggiunta la pace con l'imperatore - minacciava di rivolgersi contro la Repubblica stessa. Tali erano anzi il terrore e la psicosi che presto fermentarono incontrollati nella popolazione, che il C. fu costretto a fare affidamento solo sui propri esploratori, rinunciando del tutto a raccogliere le notizie che circolavano pubblicamente per non trovarsi a "scriver et impir le rechie di cose vane, perché niuno v'ha che non sia spoiato 30 volte al zorno". Ma ritiratosi poi l'esercito ottomano, furono proprio le truppe che gli avevano sbarrato il passo, dirette verso Bologna al seguito di Carlo V, a rappresentare un assai più concreto pericolo per la regione. Scongiurata dapprima la minaccia di alcune migliaia di disertori in fuga verso l'Italia, responsabili di stragi e saccheggi in Tirolo, anche il temuto passaggio per il Friuli dell'esercito imperiale, in ottobre, poté avvenire senza gravi incidenti anche se non senza violenze, soprusi e "grandissime insolentie" verso la popolazione e gli stessi rappresentanti, veneziani, e soprattutto a prezzo di un gravissimo depauperamento delle risorse alimentari.
Erano da poco transitati gli ultimi lanzi, quando al C. giunse notizia della sua elezione per una nuova ambasceria a Solimano.
Anche in questo caso si trattava di confermare al sultano l'immutata volontà di pace della Repubblica, ma a motivare più specificamente l'invio di un nuovo ambasciatore - a Costantinopoli si trovava già dal 1531 Pietro Zen, come oratore e vicebailo - era la necessità di rassicurare tempestivamente la Porta sulla totale estraneità veneziana alla lega di Bologna e ai rinnovati propositi crociati di Carlo V e Clemente VII, cercando nel contempo di aggirare la richiesta turca di una nuova formulazione degli accordi di pace, che in quel momento avrebbe posto Venezia in pessima luce di fronte ai principi cristiani.
Giunto a Costantinopoli a metà luglio 1533, dopo un viaggio particolarmente accidentato, specie per gli attacchi dei corsari ("il mar in questi tempi boie di pirati"), il C., comunicando importanti informazioni sui movimenti della flotta imperiale, non ebbe difficoltà a convincere i pascià della buona fede della Repubblica, cosicché gli bastarono pochi colloqui per ottenere la conferma dei vecchi patti, oltre alla concessione di nuove tratte di frumento e alla soluzione di alcune questioni di carattere mercantile.
Trattenuto qualche tempo a Costantinopoli dall'infuriare di una grave pestilenza e dal timore dei corsari, poté al suo ritorno a Venezia rassicurare il Senato sull'ottima disposizione dei Turchi verso la Repubblica, attribuendo ad oscure manovre di Alvise Gritti, il figlio naturale del doge, le sollecitazioni a cambiare i capitoli di pace; sull'ottimismo della sua relazione gettava però u&ombra il recente sequestro da parte turca delle navi inviate a caricare il frumento promesso, per utilizzarle contro la flotta di Andrea Doria, a dimostrazione di quanto fosse difficile evitare che la politica aggressiva degli altri principi cristiani comportasse anche un deterioramento dei rapporti veneto-turchi.
L'annuncio dell'invio del C. aveva suscitato vivo stupore nei pascià, che ben lo conoscevano, increduli che un uomo ormai tanto anziano potesse sopportare i disagi di un tale viaggio. Eppure le fatiche del vecchio ambasciatore erano ancora lungi dall'essere concluse. Dopo essere stato eletto, nel 1534, tra i sette deputati sopra il prestito del clero, nel settembre 1535 venne infatti prescelto, con Marco Foscari, Zuanne Dolfin e Vincenzo Grimani, per porgere a Carlo V di ritorno da Tunisi le felkitazioni della Signoria per il successo dell'impresa.
È, probabile che, dato il prestigio dei quattro inviati, fosse intenzione del Collegio di dare un obiettivo politico meno limitato all'incontro, ma la morte di Francesco II Sforza, intervenuta nel frattempo, consigliò il governo veneto a tenere un atteggiamento di riserbo e di prudente aspettativa, finché l'imperatore non manifestasse le sue intenzioni sul futuro del ducato di Milano. Così, mentre pure si respingevano le sollecitazioni di Francesco I ad appoggiare la candidatura del figlio, la commissione data agli ambasciatori l'11 dicembre vincolava la loro azione alla formalità delle congratulazioni e all'espressione di un generico auspicio per la conservazione della pace.
Raggiunta la corte a Napoli il 23 dicembre, dopo un assai disagevole valico dello Appennino abruzzese, i quattro si attennero rigidamente alle istruzioni ricevute, suscitando il dispetto di Carlo V e del Granvelle, che speravano di avviare in quell'occasione la formazione di una lega con Venezia, il papa e Milano, senza essere costretti a formulare precisi impegni per quest'ultimo Stato. Alla riunione segreta cui vennero invitati a tale scopo, gli ambasciatori mantennero un atteggiamento di totale riserbo, e ripartirono subito dopo da Napoli.
Come ambasciatore più anziano, il C. riferì in Senato il 3 febbraio, presentando del trionfatore di Tunisi e della sua politica un quadro tutt'altro che lusinghiero: profondamente ambiguo - le sue parole "sono sempre bone, ma li fatti non corrispondono" -, Carlo V è odiato dai sudditi, tassati fino all'esasperazione, circondato da ministri malfidi, con una armata spossata e sfiduciata e una flotta dove i rematori liberi, ingannati con la promessa di paghe mai ottenute, sono trattati al pari dei condannati. Ma Venezia soprattutto doveva guardarsi dall'imperatore, che mirava segretamente ad impadronirsi di Durazzo, col quale "havendolo incontro Brandizzo, sarebbe patrone del nostro Colfo, havendo le porte in mano con nostro grandissimo danno".
Nuovamente savio del Consiglio nel 1535 e 1537, e consigliere del doge per il sestiere di Dorsoduro nel 1537 e nel 1539, il C. - scoppiata la guerra coi Turchi - dovette ancora affrontare un'ultima, difficilissima missione diplomatica. Nella tregua ottenuta da Lorenzo Gritti nell'aprile del '39, Venezia si era affrettata ad inviare a Costantinopoli Piero Zen per intavolare trattative separate di pace; morto questo in viaggio, era toccato all'ottantenne C. sostituirlo e imbarcarsi per Pennesima volta per la capitale ottomana.
La commissione affidatagli, che non trascurava un minuzioso elenco di questioni di carattere mercantile, rimaste in sospeso da prima della guerra, era rivelatrice della coúvinzione che si potesse tornare senza particolari concessioni alla situazione precedente il conflitto. Ma quanto lontana fosse questa illusione dalla realtà, il C. ebbe subito modo di rendersi conto. Alla sua insistenza sul reciproco interesse a ristabilire la pace "nutrice dei traffico", il sultano rispose pretendendo la cessione delle isole conquistate in Egeo, nonché di Napoli e di Malvasia. Tale era la distanza tra le due posizioni, incolmabile anche dall'offerta di 300.000 ducati o di elevatissime pensioni prospettata negli incontri coi pascià, che il C. non poté che prendere atto della situazione e, congedato con grande freddezza e senza le consuete onoranze, riprendere il mare per Venezia. Nel successivo appassionato dibattito al Senato, egli intervenne autorevolmente e, coerentemente alle posizioni che avevano informato tutta la sua attività diplomatica, consigliò di cedere ai pur pesanti sacrifici territoriali onde evitare una ripresa del conflitto, invitando a diffidare'delle ambigue promesse di soccorso dei principi cristiani.
Negli anni seguenti, nonostante l'età avanzatissima, continuò a partecipare attivamente alla vita politica. Per tredici anni dal 1539 al 1552, fu ininterrottamente membro del Collegio come savio del Consiglio e, nel '41. come consigliere del doge; il 15 marzo 1543 venne eletto procuratore di S. Marco.
Ancora agli inizi degli anni '50 l'Egnazio ne celebrò la vitalità, dedicando il capitolo De senectute del suo De exemplis illustrium virorum al C., "quem quotidie videmus maximis et amplissimis honoribus functum scalas subeuntem, oninique ex parte corporis et animi valentem, bonitateque in primis insignem, qui sextum. et nonagesimum aetatis annum agat.".
Il C. morì a Venezia il 16 marzo 1554.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Miscell. codd., I, Storia veneta, 18:M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, c. 464;Ibid., Avogaria di Comun, Balla d'oro, reg. 164, c. 70v; Ibid., Avogaria di Comun, Matrimoni, reg. 107, c. 62 (e c. 59 per il matrimonio dei genitori); Ibid., Dieci savi alle decime, busta103, Dorsoduro, n. 687; Ibid., Segretario alle voci, Misti, reg. 8, cc. 110, 111, 112;Ibid., Segretario alle voci, Maggior Consiglio. reg. 1, cc. 3, 11, 26, 102; reg. 2, c. 102;Ibid., Segretario alle voci, Pregadi, reg. 1, cc. 2v, 4v, 5v, 6v, 7, 17v, 18rv, 19, 27v, 30, 32v, 55v, 63v, 84v; Ibid., Senato, Mar, Deliberazioni, reg. 14, c. 206v; reg. 15, c. 11v; reg. 16, c. 98v; reg. 17, c. 58v; Senato, Secreta, Deliberazioni, reg. 39, cc. 21, 45; reg. 48, cc. 2-3v, 47, 61v-65, 86, 148v, 154, 155, 158, 168, 169v; reg. 53, cc. 2v4v; reg. 55, cc. 69-71v; reg. 56, cc. 154-155; reg. 60, cc. 21-23v, 34v, 46v, 56-57, 67-71v; Ibid., Senato, Secreta, Dispacci ambasciatori, Arch. proprio Germania, filza 1a; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci, Lettere di ambasciatori, Costantinopoli, busta I, nn. 76, 104, 108, 136, 137, 140, 141; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci, Lettere di rettori, Patria del Friuli, busta 170, n. 11; Consiglio dei dieci, Secreti, reg. 2, cc. 53-58v, 62-64, 67-68v, 75-76, 87-89v; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 15 (= 8304): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio venero, I, c. 290; Ibid., Mss. It., cl. VII, 514-819 (= 8893-8898): Raccolta dei consegi, II, cc. 273, 338; III, c. 228; IV, c. 135; V, cc. 5, 97, 188; VI, cc. 18v, 110, 118v, 124v, 133v, 173, 179, 191v, 194, 241, 245, 252v, 253, 256, 292, 308; VII, 11, 30, 33, 43v, 44, 113, 121, 169, 226v, 235v, 239, 250, 293, 301; Ibid., Mss. It., cl. VI, 277 (= 5806): cc. 193 s.: Sumario di la relatione di sier Toma Contarini venuto baylo di Costantinopoli fatta in Pregadi a di 24 oct. 1522; Ibid., Mss. It., cl. VII, 785 (= 7292): A. Longo, Comentarii della guerra del 1537 con Sultan Sulimano..., cc. 67, 78v-80v, 83, 85, 88, 90-94; Ibid., Mss. It., cl. VII, 1279 (= 8886): Mem. norabili di diversi tempi, cc. 151-152, 158-159; Ibid., Mss. Lat., cl. V, 2250: Promissio... Thomae Contareni... cum procuratoriam dignitatem de Citram iniret;Venezia, Bibl. d. Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 378n G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, I, c. 179 s.; Ibid., Cod. Cicogna 3416: I. Coleti, Uomini illustri... della stirpe Contarini;M. Sanuto, Diarii, II-LVIII, Venezia 1879-1903, ad Indices; Diari udinesi dall'anno 1508 al 1541 di Leonardo e Gregorio Amaseo e Gio. Antonio Azio, a cura di A. Ceruti, Venezia 1884, pp. 320, 325, 329, 335; I libri commem. della Rep. di Venezia. Regesti. a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, pp. 152, 164, 172, 215, 240, 243; Nunziature di Venezia, a cura di F. Gaeta, Roma 1958-60, I, p. 236; II, pp. 34, 45, 49; P. Paruta, Dell'historia vinetiana..., in Degi'istor. delle cose veneziane. Venezia 1718, III, pp. 369, 472; IV, pp. 91, 98, 100, 103, 105, 641; A. Morosini, Historia Veneta, ibid., V, ibid. 1719, pp. 85, 251, 412, 549, 573 s.; V. Brusantino, Angelica inamorata, Vinegia 1553, p. 356; G. B. Egnazio, De exemplis ill. virorum Venetae civitatis..., Venetiis 1554, p. 281; G. N. Doglioni, Hist. veneriana.... Venetia 1598, p. 687; Poetica Iacobi Gadii Corona, Bononiac 1637, pp. 129-130; G. Sagredo, Mem. ist. de monarchi ottomani, Venetia 1697, pp. 268-271, 274 s.; M. de Wicquefort, L'ambassadeur et ses fonctions, I, Cologne 1715, p. 102; G. Diedo, Storia della Rep. di Venezia..., II, Venezia 1751, pp. 103-105; E. A. Cicogna, Delle Inscriz. Venez., II, Venezia 1827, pp. 66, 114, 243 s.; I. W. Zinkeisen, Gesch. des Osmanischen Reiches in Europa, II, Gotha 1854, pp. 792 s.; S. Romanin, Storia docum. di Venezia, VI, Venezia 1857, pp. 18, 52 s.; E. Musatti, Storia d'un lembo di terra..., Padova 1886, coll. 788, 810; N. Jorga, Gesch. des Osmanischen Reiches..., II, Gotha 1909, pp. 383 s.; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori..., I, Roma 1927, pp. 96 s.; H. Kretschinayr, Gesch. von Venedig, III, Gotha 1934, p. 32; R. Cessi, Storia della Rep. di Venezia, II, Milano-Messina 1946, p. 95; G. Padoan, Momenti del Rinascim.. veneto, Padova 1978, p. 267; G. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Veneriarum, III, Codices mss. Latini, Venetiis 1870, p. 162; G. Moroni, Diz. di erudiz. stor-eccles., XCVII, p. 345; G. Mazzatinti, Inv. dei mss. delle Bibl. di Italia, LXXVII, p. 103; LXXXIX, p. 63.