CONTARINI, Tommaso
Nato a Venezia, il 24 ag. 1562, da Gasparo di Vincenzo e da Andriana di Vettor Pisani "dal banco", il C. gode duna situazione ambientale privilegiata, anche se rattristata, nel gennaio 1572, dalla precoce morte del padre.
Ancor vivo lo stimolo della memoria illustre del cardinal Gasparo di cui il C. è bianipote, sollecita l'attenzione per il C. dello zio paterno Alvise, il pubblico storiografo, non a caso esortato da Agostino Valier a "chiamare ogni giorno Tommasetto" per "piantare qualche bel fiore nel suo animo e qualche buona radice dicendogli qualche bella similitudine, qualche sentenza accomodata alla sua tenera età". E lo stesso Valier, che conosce il C. fanciullo, lo nominerà in seguito quale adolescente "magnae spei" per cui "de scribendis epistolis... librum scripseram". S'aggiunge la dimora splendida alla Madonna dell'Orto, col giardino già sede di memorabili conversari, con la fornitissima biblioteca che il C. stesso accrescerà nel corso degli anni; un apporto riscontrabile tra i libri pervenuti alla Marciana tramite il lascito ottocentesco di Girolamo Contarini ché taluno di essi porta l'annotazione dell'appartenenza al Contarini.
Accuratamente istruito, pungolato dall'aspettativa dei parenti e degli amici, ma non munito del corredo d'una significativa esperienza di viaggio in Oriente - di cui sarebbe rimasta traccia, a detta del Donazzolo, in un ristretto riportato in un codice purtroppo andato smarrito, ché l'Asia dei titolo va sostituita con l'Aia -, il C., dopo l'usuale apprendistato del saviato agli Ordini, viene eletto, il 17 genn. 1589, podestà di Vicenza ove s'insedia all'inizio di luglio rimanendovi sino a tutto il marzo del 1591.
Reso difficoltoso, l'approvvigionamento dal non attenuato obbligo dell'invio a Venezia di "quantità grande di formenti", il C. s'ingegna di ricostituire le scorte con acquisti in "giurisdizione aliena"; s'oppone all'"usura" praticata da "molti di cosi scelerata coscienza" da prestare ad interessi superiori al 60 %, ma ostacola la sua inchiesta il silenzio delle vittime, per lo più nobili riluttanti a sporgere denuncia, preferendo "tacere con la loro ruina più tosto che mancare della parola". Impari, altresì, per quanto generoso, l'impegno del C. di fronte al funestante incalzare, nella città e nel territorio, d'omicidi, rapine, "rotture e rubbamenti", "latrocinl", "disordini", risse, incendi dolosi, seduzioni con promessa, non mantenuta, di matrimonio, adulteri con strascico di ricatto o di sangue, frequenti stupri operati in gruppo da giovinastri a danno di ragazze "da marito et di buona vita". Dilagano in particolare modo i furti con scasso soprattutto a danno di "botteghe", e, talvolta, anche di chiese, alleggerite di calici e altri oggetti preziosi. Imperversa "con gran dispregio della giustitia" e terrore degli abitanti una "compagnia" di banditi nella "terra" di Marostica.Rettore a Crema tra il settembre del 1593 e il gennaio del 1595, le mansioni del C. si sommano: controlla l'allestimento delle botteghe per la fiera; acquista, obbediente ai sopraprovveditori e ai provveditori alle Biave, ingenti partite di "segalle"; si occupa, trattando coi "datian del sale", perché questo non scarseggi; fronteggia le insolenti provocazioni al confine dei "cavalleggeri" spagnoli e s'adopera per il rilascio dei "prigioni"; reprime i contrabbandi.
Di gran lunga predominanti i problemi della fortezza e dei presidio: "in malissimo stato l'artiglieria", colle parti lignee marcite e i "falconetti sboccati e vecchi"; spesso "guasta" la polvere sì che occorre "raffinarla"; inarrestabile, a causa del "poco stipendio" lo stillicidio delle diserzioni al punto che un terzo degli effettivi è scomparso: inadeguata la preparazione dei "bombardieri", cui, peraltro, "terminationi e del C. impongono "tirrino quattro volte l'anno l'arcobuso da fuoco".
Membro, quindi, del Senato ordinario e "stravacante" nonché della sua zonta, il C. è savio di Terraferma, quando, il 24 ag. 1602, viene preposto alla "revisione et regolatione delle genti d'anne a banda a banda": scrupolosamente "rivede", nell'ottobre, otto compagnie a Verona e, nel novembre, altre sei a Padova.
Dopo aver - nelle rassegne delle "mostre" ove i singoli "conduttieri" esibiscono "le compagnie, officiali et soldati loro... provisti delle sue armi et di propri cavalli" - riscontrati "li nomi di tutti li homeni che si trovano in guamigione con li sui cavalli", il C. provvede alla "nota" degli "approbati" e "non approbati". Un'operazione di controllo e riordino quanto mai necessaria pei "molti disordini" e "mancamenti" d'una "militia troppo peggiorata". Lungi dal limitarsi alla denuncia degli assenti - ben 116 sui 535 registrati -, il C., nella "relation", affronta proprio il problema dello scadimento della "cavalleria", suggerisce la via per ridarle prestigio e vigore. Anzitutto va reso appetibile lo "stipendio", altrimenti essa s'andrà ancor più "deteriorando". Va rovesciata la situazione per cui "il soldato è pregato a servire" anziché essere "quello che prega di servire". Opportuno, altresì, il ripristino, per l'"huomo d'arme", del "privilegio dell'arcobuso da ruota", sì che "quest'arma non sia comune a tutti come hoggidi". Da riqualificare, inoltre, in termini di composizione sociale, siffatta "militia", dequalificata, secondo il C., proprio a causa della disaffezione nobiliare. Se "fosse piena di nobiltà", insiste, sarebbe efficace, funzionerebbe. "Le armi in mano della nobiltà", spiega, "sono sempre di maggior servitio et reputatione... che in mano di persone basse".
Eletto, il 26 genn. 1603, podestà di Verona, è tale - sia pure con interruzioni per ragioni di salute - dal luglio del 1603 a tutto il 1604.
Vi si applica nell'amministrazione della giustizia civile e penale, nella "travagiosa materia... delle biave", nell'ovviare alla "grandissima strettezza et penuria di carne di vitello", nella "descrition" in funzione del "nuovo estimo". Verona supera i 55 mila abitanti, è "abbondantissima d'ogni cosa"; l'affligge, purtroppo, il tracollo dell'"arte della lana" ruzzolata dai 25 mila panni d'un tempo ad appena 600; né basta, a compensarlo, il promettente sviluppo dell'"arte della seda".
Eletto, il 3 dic. 1606, censore e di nuovo assiduo in Senato, vi si distingue - come preciserà Sarpi a Groslot de L'Isle -, durante l'interdetto tra i più decisi fautori della "libertà pubblica". Una connotazione confermata - beninteso, non più come elogio, ma come qualifica negativa - pure dal nunzio che informa, il 12 giugno 1610, il card. Scipione Borghese Come il C. "non è stato mai ben affetto verso le cose di Roma". Il che, tutto sommato, concorre anche a spiegare perché il C. sia stato scelto per attestare alla calvinista e ribelle Olanda - così l'istruzione senatoria del 5 marzo 1610 - il "contento" della Repubblica per la "conclusione della tregua" con la Spagna e il suo ribadito desiderio di "sincera, candida et leale amicitia" nonché d'intensificazione dei mutui "commerci et navigazioni et traffichi".
Licenziatosi dal doge il 6, toccate Trento Bolzano Innsbruck Augusta Heidelberg Francoforte Colonia Diisseldorf, in maggio giunge a destinazione e riparte a fine giugno rientrando - via Anversa Lione Torino Casale - a, Venezia ove, il 24 settembre, offre all'"intelligenza" del Pregadi un quadro delle "provincie unite" così congiunte a Venezia da "conformità d'interessi", così simili per rapporto col mare, così affini per "forma" statuale. Attento all'aspetto produttivo il C. nota l'alto rendimento della zoocultura, coglie il rapporto tra "pascoli" e "latticini", costata la presenza di "contadini fatti ricchissimi non con altro che con gli utili degli animali". Anche se non lo dice, lo spettacolo di pingui "pascoli" e nutriti bovini rinvia, per contrasto, all'estensione dell'arativo in terra veneta, colle sue rese non sempre soddisfacenti, con la sottoalimentazione dei suoi contadini, destinati ad un lungo destino di nutrizione maidica. Il C. osserva un'operosità sagace intensa redditizia, un'industriosità disciplinata e, insieme, inventiva, un traffico fervido ed espansivo, una marineria fiorente ed aggressiva, un'adozione pronta di tecniche d'avanguardia che s'esplica dalla raffinazione degli "zuccari" alla fabbricazione di "panni scarlatti", un'ammirevole insuperabile "peritia de' venti" che s'estende dall'"uso" sapiente dei "molini" alla duttile abilità delle "navigationi". Sono "popoli", riconosce il C., "così inclinati all'industria et al negotio che niuna cosa è tanto difficile che non ardischino di superarla". Fatto d'intelfigenza e metodo il loro lavoro plasma la natura domata, informa e anima il vivere associato. Inviato d'una città ove la vita si svolge con un'opulenza non aliena da sciali e sperperi, en-ássario d'una terra con immani sperequazioni di condizioni economiche e con contrapposizione frequente di ricchezza e miseria, il C. ravvisa stupefatto una situazione di benessere diffuso e strettamente connesso al diritto-dovere del lavoro. "Abondano di ricchezze et di commodi", senza, però, "lusso o pompa", anzi con "mediocrità" la cui "politia" e lindura, se ignora il "mancamento" del necessario, è, nel contempo, aliena dal superfluo, austeramente priva di "addobamenti" e "argenterie". Tutto il contrario, sembra sottintendere il C., che a Venezia, anche se a questa Amsterdam - "intersecata" da "molti canali" con "fondamente" ad essi parallele - tanto assomiglia. Né gli sfugge il fondo duro, al limite spietato, d'una società così diversa: il lavoro è convinzione entusiasmante, ma anche coazione ossessiva, incubo. Niente d'idilliaco nella prosperità olandese. "Sono tutti - precisa il C. - così inimici del mal governo et dell'otio" che le "genti vagabonde et otiose" vengono rinchiuse in appositi "luoghi" e quivi costrette all'attività "ancorché non vogliano". Basta la moglie o un parente si lamentino perché il magistrato disponga di farvi "serrar" l'elemento riottoso alla fatica, poco incline alla disciplina lavorativa. Penalizzato, in quel mondo attivissimo, lo spendaccione, vituperati lo scasafatiche, il pigro, il perditempo. Pure l'aspetto militare stirnola l'attenzione del C., lo sollecita - questa volta esplicitamente - al confronto. Altissima, infatti, in Olanda, la qualificazione professionale delle "militie pagate". Non dimentico dell'esperienza di revisore e dello scalcipato presidio cremasco coi suoi soldati sottopagati e perciò mezzi ladruncoli, il C. può, a ragion veduta, "affermare... che qual si voglia fante privato" proveniente da "quelle militie, si stimarebbe", in Italia in genere a Venezia in particolare, "buono per commandare una compagnia". A tal punto nella penisola e in terra veneta "è declinato... et l'uso et l'antico splendore della militia". Fattore qualificante per il C. - che ha, appunto, avuto modo di verificare a Crema come i soldati malamente e irregolarmente retribuiti rubacchino per campare - la "paga... non grande", epperò bastevole e, soprattutto, regolarmente corrisposta. Ancora una volta tutto l'opposto di quanto avviene nei domini veneziani. Non truppe fameliche e indisciplinate, ma soldati efficienti che, quando sono "in campagna", hanno le "vittuarie" garantite da un competente "commissario". Logicamente essi, "sicuri che non gli sia per mancar il vivere, attendono con più allegro animo alle fattioni et alle fatiche".
Rientrata l'elezione ad ambasciatore presso l'imperatore, il C. - il quale il 28 ag. 1611 ha un "ragionamento politico" col "segretario d'Inghilterra" che gli assicura l'affezione di Giacomo I per Venezia - è nominato, il 12 ottobre, rappresentante presso la S. Sede, in sostituzione del "papista" Marino Cavalli ivi scomparso; "la buona fortuna", o, meglio, "la volontà di Dio", si rallegra Sarpi annunciandolo a Groslot de l'Isle, "ha fatto eleggere un utile".
E in effetti il C. non è certo l'uomo pronto - come auspica l'ambasciatore sabaudo a Venezia Antonio Provana - a "dar sodisfattione et placar" Paolo V irritatissimo con Venezia per il pervicace ricorso "nelle consulte" ai suoi pur scomunicati "theologi". Ben lungi dall'ammorbidire lo sdegno dei pontefice, incrollabile d'altronde nell'opinione la Repubblica "estenda troppo il braccio suo sopra le persone ecclesiastiche con intacco" della sua "autorità", il C. difende con fermezza Sarpi dai suoi veementi attacchi, anche quando egli accusa - non infondatamente - il servita di trasgredire le stesse leggi della Serenissima intrattenendo rapporti personali continuati con gli ambasciatori veneti. E, inoltre, il C. si vale abbondantemente delle "scritture" sarpiane sulla giurisdizione adriatica ribattendo la tesi del papa della provenienza romana e perciò della revocabilità del "privilegio sopra il Golfo". Non senza enfasi il C. rammenta essere, invece, il "dominio" adriatico "assoluto... nato et difeso col proprio sangue" ed "essercitato sempre" come tale sia all'epoca dei "duchi di Ferrara" che di Clemente VIII nonché "fino a questi giorni che corrono". In merito, però, all'intricata e ormai incancrenita questione cenedese il C. sembra tollerare malvolentieri il tallonamento della consulenza sarpiana; pare propenso, memore dell'impostazione già azzardata da Paolo Paruta, ad una soluzione politica da "principe a principe" che sgombri il campo, una volta per tutte, dall'avviluppante cavillosissimo groviglio di disquisizioni giuridiche nel quale la controversia s'è impantanata. Impegnato pure ad ostacolare i propositi del famigerato abate di Nervesa Marcantonio Bragadin mirante ad un confino più favorevole e, quindi, al rientro nella natia Valmareno, attento anche ai movimenti del traditore Angelo Badoer, il C. sguscia ogniqualvolta Paolo V prospetta - peraltro fumosamente e contortamente - un'unione veneto-ispano-pontificia contro la Porta. Il C. lo sospetta poco sincero; in cuor suo, invece, si augura che una repentina aggressione turca danneggi la Serenissima, la punisca severamente dei suoi "peccati". Poca fortuna hanno pure le caute avances fatte al C. per una riammissione in terra veneta dei gesuiti, ché il suo rifiuto è esplicito, in ottemperanza all'istruzione senatoria del 14 dic. 1613: dica - così questa - al card. Borghese che "hora più che mai è ferma la risolutione... di non volerli rimetter".
All'inizio, di agosto del 1614 il C. - il quale, tuttavia, ancora il 2 è in grado di stendere il suo ultimo dispaccio - viene colto, come informa il 9 il segretario Cristoforo Surian, da un fulmineo attacco febbrile di "doppia terzana continua" accompagnata da insonnia smanie inappetenza. Vano l'affannarsi d'illustri medici al suo capezzale, inutile la loro vantata "peritia", inefficace la "potenza de' rimedi" proposti. Sì che, il 13, il C. muore a Roma "armato di tutti i sacramenti" e invocando Dio. Prima di spirare, malgrado la prostrazione, ha comunque avuto la forza di formulare le sue ultime volontà a Surian; e quanto questi ha scritto figurerà come testamento, registrato il 23 dicembre, nella Cancelleria inferior a Venezia. Erede universale del C. - così nelle disposizioni in punto di morte - il figlio Gaspare (1582-1661) avuto da Comelia di Marcantonio Comer sposata il 26 genn. 1581, coll'obbligo però di corrispondere al fratello Alvise, il futuro mediatore di Münster - nato questi da Marina di Vincenzo Pisani con cui il C., rimasto vedovo, s'era riaccasato il 12 genn. 1584 - 3 mila ducati all'anno coll'aggiunta d'altri mille ad ogni suo "reggimento o ambasceria". Quanto a Vincenzo, presunto frutto d'una relazione con una donna non nominata ("figliuolo... non so se mio o non mio" dichiara il C.), il C. non brilla per generosità: lo vuole destinato al convento e, inoltre pago della rendita di 33 ducati annui.
Fonti e Bibl: Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 54. c. 44; 89, cc. 58, 60; Ibid., Giudici di Petizion, 338/19; Ibid., Segretario alla voci. Elezioni Maggior Consiglio, 7, c. 179v e ...Pregadi, 7, c. 126r; Ibid., Capi del Cons. dei Dieci. Lett. di rettori, 67/163-167; 197/115, 116, 122, 123, 129-131, 135-137, 141, 144, 152, 156-158; 225/103-120; Ibid., Lett. di amb., 27/263-282; Ibid., Consultori in iure, 12, c. 231; Ibid., Senato, Terra, regg. 79, c. 132v; 80, c. 100r; 51, c. 129r; Ibid., Senato. Lett. Verona e Veronese, filze 1, lett. del 4 sett. e 11 ott. 1602 e passim da lett. del 25 luglio 1603; 2, passim;Ibid., Senato. Deliberazioni Roma ordinaria, reg. 18, da c. 71v; Ibid., Senato. Dispacci Roma, filza 41, lett. 36-40; Ibid., Inquisitori di Stato, 165/21-23; 1213/4; Ibid., Notarile. Testamenti. 1234/1; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Archivio Morosini Grimani, 383; Ibid., Codd. Cicogna, 701/5 (riguarda il C., non Francesco Contarini); 1720, lett. del 22 febbr. 1614; 1994, c. 183r; 2766/II; 2989/19; 3014/48; 3029/135; 3083/III, 3; 3204/68, c. 10; 3478/VII, 4-11; Ibid., Misc. Correr, LXI/2373; L. Contarini, Aggiunta... al Giardino..., Vicenza 1596, con dedica al C. (riprodotta nell'ed. successiva, ibid. 1602); Moderata Fante [Modesta Dal Pozzo Zorzi], Il merito delle donne..., Venetia 1600, pp. 127 s.; A. M. Querini, Delle lettore;, Bergamo 1615, f 35v; A. Valier, De cautione adhibenda in edendis libris..., Patavii 1719, p. 13; Id., Memoriale... a L. Contarini..., a cura di J. Morelli, Venezia 1903, pp. 38-39 (inesattezze, però, nella n. 1 dedicata al C.); S. Castellini, Storta... di Vicenza..., XIV, Vicenza 1822, p. 132; Di alcune relaz. tra ... Aldobrandini e ... Venezia, a cura di V. Ceresole, Venezia 1880, pp. 39-50 e, in nota, 66-77; Calendar of Stato Papers... of Venice, XI, a cura di H. F. 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