CORSINI, Tommaso
Nacque a Firenze il 7 nov. 1767, primogenito del principe Bartolomeo e di Maria Felice Colonna Barberini. Non si hanno notizie precise sui suoi studi e la sua formazione, che non dovettero però differire da quelli propri dei figli di casate così prestigiose; certo è che una buona cultura è rivelata, più tardi, dal suo mecenatismo e dalla cura posta ad ampliare le già ricche collezioni artistiche di famiglia e, soprattutto, la celebre Biblioteca Corsiniana, conservata nel suo palazzo romano. Destinato sin da giovane a ricoprire le cariche tradizionalmente riservate a uomini del suo rango, fu ciambellano già alla corte di Pietro Leopoldo. Gli inizi della sua vita pubblica risalgono al 1796, allorché il fratello Neri, inviato toscano a Parigi, fece sapere che il Direttorio intendeva occupare Livorno. Il generale Bonaparte si trovava allora a Bologna. Nel tentativo di allontanare il pericolo, il governo granducale gli inviò il maggiordomo maggiore marchese F. Manfredini, e perché l'ambasceria risultasse più solenne e rappresentativa, vennero associati il C. e il professor L. Pignotti.
Secondo quanto narra lo Zobi (III, pp. 179 ss.), il C. andò, soprattutto, per assicurarsi i beni che possedeva nelle terre pontificie occupate dai Francesi, cosa che ottenne senza difficoltà. Gli ambasciatori toscani, bene accolti, poterono per il momento pensare di aver stornato ogni pericolo di invasione, ma non furono certo in grado di ostacolare le decisioni del Direttorio di procedere nella azione contro Livorno. Dal Bonaparte ottennero solo la promessa che le truppe francesi non avrebbero toccato Firenze "per non disturbare il granduca" nella sua capitale; e tale promessa fu mantenuta.
Nel 1799, quando poi i Francesi occuparono la Toscana e, il 25 marzo, entrarono in Firenze, il C., insieme al fratello Neri, si rifugiò in Sicilia. A distanza di pochi mesi, dopo la ritirata dei Francesi e la restaurazione granducale, era di nuovo in Toscana; e quando, nel 1801, fu creato il Regno di Etruria, venne nominato maggiordomo maggiore della regina Maria Luigia di Borbone-Parma. Nel 1802 sposò la baronessa Antonietta Hajeck von Waldstädten di Vienna, che gli dette otto figli. Negli anni successivi svolse diverse missioni alle quali il suo nome poteva dare lustro: nel 1804 fu inviato a rendere omaggio a papa Pio VII che transitava da Radicofani per recarsi a Parigi a incoronare Napoleone; nel marzo 1805, in occasione dell'incoronazione di Napoleone a re d'Italia, fu inviato a Milano, insieme al Fossombroni, per porgere all'imperatore le felicitazioni della reggente.
In realtà, essi erano incaricati di ottenere dall'imperatore che la Repubblica ligure cessasse ogni forma di ostilità nei confronti del Regno di Etruria e, soprattutto, che fosse alleviato il peso finanziario delle truppe francesi stanziate in Toscana, troppo oneroso per le finanze dissestate del regno. Il 15 maggio i due ambasciatori furono ammessi alla presenza di Napoleone, che vide volentieri il C. perché lo riteneva "dotato di non comune spirito e di titolo di famiglia". Le trattative furono condotte col Talleyrand e col maresciallo Berthier, ministro della Guerra; in una nota indirizzata al Talleyrand veniva messo in luce come l'economia toscana, che durante il regno di Pietro Leopoldo era avviata alla prosperità, fosse rimasta paralizzata dai recenti avvenimenti e versasse in gravissime difficoltà. La evacuazione di Livorno da parte dei Francesi era una richiesta non esaudibile, data la situazione di belligeranza con l'Inghilterra; sicché i due inviati poterono ottenere solo la diminuzione del contingente e l'invio di un commissario straordinario francese per sistemare la questione relativa alle truppe rimanenti. Non ebbe, invece, esito positivo il loro intervento a favore dei negozianti inglesi residenti a Livorno, sottoposti a una specie di arresto da parte del generale Verdier. Quanto al problema dei rapporti con la Repubblica ligure, esso fu superato dalla sua annessione all'Impero.
Quando anche la Toscana divenne parte integrante dell'Impero e Napoleone conferì alla sorella Elisa Baciocchi il governo generale dei dipartimenti toscani col titolo di granduchessa, anche il C. fece atto di omaggio. Come altri notabili fiorentini, fu chiamato a Parigi a ricoprire alte cariche.
Fu membro del Senato conservatore dell'Impero, e la benevolenza di Napoleone nei suoi confronti fu dimostrata anche dalla sua nomina a conte dell'Impero, ciambellano imperiale, ufficiale della Legion d'onore e dello Ordine della Riunione (ma molti altri furono i titoli che ebbe per nascita e le onorificenze che ottenne nella sua lunga vita: grande di Spagna di prima classe, consigliere onorario alla Corte di appello di Vienna, cavaliere dell'Ordine di Cristo, cavaliere priore di Grosseto dell'Ordine di S. Stefano, cavaliere gran croce degli Ordini di S. Giuseppe, di S. Gregorio,Magno, dei SS. Maurizio e Lazzaro, di S. Ferdinando e dell'Ordine Piano).
Nel 1810 Napoleone lo scelse per recarsi ad incontrare ed accompagnare a Parigi la sua nuova sposa, Maria Luisa d'Austria, e gli affidò poi anche l'incarico d'istallare a Roma i Collegi elettorali e la corte imperiale. Una notizia particolarmente interessante è riferita da G. Capponi che, nel 1813, era stato inviato a Parigi, insieme ad altri giovani dell'aristocrazia fiorentina, per recare all'imperatrice lo omaggio di Firenze. Il C. gli avrebbe detto che se Napoleone avesse portato il maggior sforzo della guerra in Italia, egli stesso lo avrebbe seguito, convinto che intorno alla sua bandiera "se ci mettessimo tutti ne potrebbe forse l'Italia resuscitare" (Ricordi, p. 25).
Con la restaurazione granducale il C. riprese le sue funzioni di ciambellano presso la corte lorenese e il titolo di consigliere onorario di Stato e Finanze; ma, presto, si trasferì a Roma, rinnovando la tradizionale alternanza di interessi e funzioni pubbliche romane e fiorentine tipica ormai della sua famiglia. Il 15 maggio 1818, con un breve di Pio VII, fu nominato, nella sua qualità di principe romano, senatore di Roma, carica che assunse con gran pompa per dimostrare l'importanza della sua casata, ma alla quale rinunciò ufficialmente nel marzo 1819, forse per lo scarso significato di un ufficio ormai puramente onorifico. Da questo momento le occasioni nelle quali il suo nome comparve nella vita pubblica, romana e toscana, non furono frequenti, ma dimostrarono il prestigio derivatogli dalla sua qualità di capo di una famiglia ancora così ricca e potente. Nell'aprile del 1831, fu inviato da Leopoldo II di Toscana in missione straordinaria alla corte di Napoli per chiedere, a nome del granduca, la mano della principessa Maria Antonia, sorella di Ferdinando II, e stipulò il contratto nuziale. Nel 1842 fu inviato straordinario a Torino per assistere, come rappresentante del granducato di Toscana, al matrimonio del futuro Vittorio Emanuele II, che era nipote di Leopoldo II. Nel 1837 il C., rimasto vedovo sin dal 1819, aveva sposato in seconde nozze la figlia di un ricco mercante di Odessa, Natalia Akatzattoff, che morì a Pietroburgo, nel 1842. Ma, soprattutto, in questi anni dedicò le sue cure al ricchissimo patrimonio familiare.
Nel 1846, dopo l'elezione di Pio IX, il C. tornò alla vita pubblica, nonostante fosse ormai avanti negli anni, e il suo nome fu legato ai principali avvenimenti dei primi tempi del nuovo pontificato, e al fervore di iniziative, anche di carattere economico, proprie di questo periodo.
Nel momento in cui, anche a Roma, il problema ferroviario interessava e attirava le persone più autorevoli per censo e nobiltà, il C. divenne uno dei promotori della "Società principe Conti e Compagni", il cui progetto prevedeva la costruzione di ferrovie col concorso di capitali nazionali e con l'emissione di azioni di bassissimo costo. Nel febbraio del 1847 fece parte della commissione nominata per preparare e proporre un nuovo piano di amministrazione municipale per la città di Roma. Il 1o ottobre dello stesso anno venne pubblicato il motuproprio del pontefice che riformava l'organizzazione municipale, istituendo il Consiglio e Senato di Roma, con specifiche e precise prerogative e funzioni; il C. era fra i cento consiglieri. La nuova amministrazione municipale fu inaugurata il 24 nov. 1847 con grande solennità, mentre una folla di popolani, capeggiata da Ciceruacchio, nella piazza del Campidoglio, acclamava il C. senatore di Roma. Questi, votato nella terna dalla quale il papa doveva scegliere il senatore, fu nominato da Pio IX a tale carica. La scelta suscitò l'entusiasmo popolare che toccò il culmine quando il principe si affacciò al balcone del suo palazzo alla Lungara, tenendo per mano Ciceruacchio. Ciò spiega, insieme ad altri suoi atteggiamenti futuri, la fama di uomo favorevole alle richieste popolari, che si accompagnò in questo tempo al suo nome; in realtà il C., consapevole della profonda arretratezza dello Stato pontificio, riteneva necessarie quelle riforme che servissero a svecchiare le antiche ed inefficienti strutture; ed era certamente convinto che la buona volontà riformatrice del papa fosse frenata dall'opposizione della Curia. Comunque, egli godé, in questi mesi, di una notevole popolarità tra i ceti popolari che spesso si rivolsero a lui, presumendo di trovare un ascoltatore benevolo. Così ad esempio, il 1o gennaio 1848, i popolani che volevano festeggiare Pio IX, quando si videro precluso l'accesso alla piazza del Campidoglio, ricorsero al C. affinché convincesse il papa delle loro intenzioni pacifiche ed entusiastiche; egli ottenne dal pontefice la promessa che l'indomani si sarebbe recato tra il suo popolo.
Frattanto gli avvenimenti degli altri Stati italiani e, soprattutto, la notizia della insurrezione di Palermo avevano profonde ripercussioni anche sulla situazione romana, accentuando la tensione e l'instabilità politica. Difatti, ai primi di febbraio, alla notizia che il Consiglio dei ministri aveva respinto la proposta approvata dalla Consulta di Stato per gli immediati provvedimenti di armamento, una tumultuosa manifestazione popolare chiedeva la dimissione dei ministri appartenenti al clero e la designazione del C. o di suo figlio, don Neri, alla presidenza del Consiglio e agli Affari Esteri. Anche in questa occasione, il C. dové farsi interprete delle richieste popolari presso il pontefice e riuscì a placare la folla, assicurandola che, fra breve, altri due membri dei ministero sarebbero stati scelti fra i laici. La sera del 9 febbraio, anche il C. venne convocato alla seduta straordinaria del Consiglio dei ministri. Secondo quanto riferiscono i giornali dell'epoca, sembra che il C. sostenesse risolutamente le richieste popolari, specialmente la necessità di affidare il governo in mano a laici, provvedendo presto e in modo efficace agli armamenti. Il ministero dette allora le sue dimissioni e si ebbe un rimpasto con la partecipazione al governo di uomini come Pasolini e Sturbinetti. Negli stessi giorni il papa nominava la commissione per preparare lo statuto. Il desiderio di tale concessione era assai diffuso; anche il Consiglio comunale, tutto di nomina papale, deliberava un indirizzo al papa per chiedere un governo rappresentativo: l'indirizzo fu presentato a Pio IX dal C., insieme ai Conservatori e ad una commissione del Consiglio.
Sono noti gli avvenimenti dei mesi successivi, dalla partecipazione delle truppe regolari e dei volontari pontifici alla prima fase della guerra contro l'Austria, alla celebre allocuzione papale del 29 aprile (che di fatto sconfessava la partecipazione alla guerra) e le violente agitazioni popolari che ne seguirono. Anche la formazione di un nuovo ministero, diretto in pratica dal Mamiani, non allentò la crescente tensione politica che, anzi, si andò accentuando per l'interferenza continua della segreteria di Stato nei problemi di politica estera "secolari". Frattanto, secondo lo statuto, vennero nominati i membri dell'Alto Consiglio che, pur scontentando per la sua composizione i liberali romani, comprendeva uomini, come il C., consapevoli della necessità delle riforme. Anche dopo le elezioni per il Consiglio dei deputati, la situazione continuò ad aggravarsi. Infatti, mentre il governo intendeva agire, presupponendo che lo Stato fosse in guerra con l'Austria, il papa continuava a dichiarare di non volervi partecipare. Inoltre, gli sviluppi della guerra pesavano grandemente sulla situazione romana: dopo le sconfitte piemontesi e le conseguenti dimissioni del Mamiani, durante la formazione del ministero Fabbri (6 agosto), giungeva a Roma la notizia che il maresciallo austriaco Welden era penetrato nelle Legazioni e stava marciando su Bologna. Mentre la città reagiva spontaneamente, si muoveva da Roma la commissione formata dal C. e dal conte Guarini che, insieme al legato di Forlì, cardinale Marini, si incontrò con il Welden, ma quando ormai Bologna aveva fermato gli Austriaci e ogni pericolo era cessato. La commissione si ritenne soddisfatta delle spiegazioni avute, dell'accordo raggiunto e dell'impegno da parte degli Austriaci di ritirarsi dai territori pontifici, lasciando solo una guarnigione a Ferrara e ai passi di Bondeno e di Pontelagoscuro.
Seguì, per Roma, un breve periodo di relativa calma che fu interrotto dall'uccisione del nuovo ministro Pellegrino Rossi (15 novembre), alla quale seguirono nuove violente manifestazioni popolari e la fuga del papa che abbandonò Roma, nella notte fra il 24 e il 25 novembre, per rifugiarsi a Gaeta. Il 26 novembre si riunì l'Alto Consiglio al quale il Mamiani, divenuto il giorno prima ministro degli Esteri, riferì sulla partenza del pontefice, confermando l'autorità del ministero e dello stesso Alto Consiglio. Il C. affermò di apprezzare gli intenti e l'operato del ministero e come alto consigliere e come senatore, ma avversò la proposta che si nominasse un qualsiasi reggente. Il Consiglio comunale e l'Alto Consiglio emanarono, quindi, indirizzi al popolo romano, invitandolo a conservare la calma e ad aver fiducia nell'operato del governo. Ma., il 3 dicembre, giunse a Roma il breve papale del 27 novembre con il quale Pio IX protestava per le violenze subite, dichiarava nulli tutti gli atti del ministero e nominava una commissione governativa per la direzione provvisoria degli affari pubblici. Per mezzo del C., il ministero cercò contatti con la commissione; i pochi commissari presenti a Roma respinsero però questi tentativi. Sicché fu deciso d'inviare delle deputazioni al papa per pregarlo di tornare a Roma o di provvedere diversamente all'esercizio del potere esecutivo. Il 4 dicembre anche l'Alto Consiglio deliberò in tal senso; e così fece il municipio che decise d'inviare come sue rappresentante il Corsini. Le autorità napoletane non permisero alle deputazioni di varcare la frontiera del Regno.
Questi avvenimenti crearono a Roma una atmosfera di grande agitazione, incertezza e timore. Ciò indusse il C. ad inviare, l'11 dicembre, una lettera ai due Consigli, affinché prendessero tutti i provvedimenti necessari ad assicurare la quiete e la tranquillità pubblica. Lo stesso giorno le Camere decidevano di nominare, sempre in nome del papa, una Suprema giunta di Stato, composta dal senatore di Roma, cioè dal C., da quello di Bologna e dal gonfaloniere di Ancona. La vita della giunta fu breve e difficile. Il senatore di Bologna non accettò di farne parte e fu sostituito da Giuseppe Galletti; in un primo tempo, anche il C. aveva rinunciato all'incarico e, solo dietro pressioni, si era lasciato convincere. Il 20 dicembre, la giunta emanò un proclama, firmato da tutti i componenti, nel quale dichiarava che sarebbe rimasta in carica fino a che una Costituente degli Stati romani avesse deliberato intorno all'ordine politico, e terminava con la promessa che avrebbe fatto di tutto affinché questa venisse al più presto convocata. Il giorno seguente, nella seduta del Consiglio dei deputati, Carlo Luciano Bonaparte elogiò ed approvò l'operato della giunta e soprattutto del C. che - disse - "con meraviglia di tutti cresce ogni giorno così in vigore come in età". Sembra dunque smentita l'affermazione, talvolta ripetuta, che il principe non avesse firmato il proclama, così come evidentemente firmò, insieme con gli altri colleghi della giunta, la nota del 23 che invitava i ministri a preparare il progetto di legge per la Costituente. È certo, invece, che il C. non firmò il decreto del 28 dicembre con il quale la giunta chiudeva la sessione dei due Consigli e il decreto del 29 per la convocazione della Costituente. Il '26, infatti, aveva rinunciato al suo incarico, appena giunto a conoscenza dell'enciclica papale che disconosceva la legalità della giunta.
Alla fine del gennaio 1849 il C. era a Firenze, dove rimase fino a quando Pio IX non fu restaurato. Si recò allora a Portici, per chiarire, personalmente la sua condotta con il pontefice ed ottenerne il perdono che gli fu subito concesso. Con il motuproprio papale che istituiva un Consiglio di Stato ed una Consulta, entrambi di nomina di Pio IX, fu nominato membro di quest'ultima e si vide riconfermata la benevolenza del pontefice. Fu questo lo ultimo incarico pubblico del C. che recò un notevole contributo al ristabilimento dell'erario ed al riordinamento dell'amministrazione dello Stato pontificio. Morì a Roma il 6 giugno 1856.
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