COSTO, Tommaso
Nacque a Napoli. Si ignora l'anno di nascita e quello di morte.
Morto il padre innanzi tempo, la madre si risposò con un certo Montorio, dal quale ebbe altri figli. Finiti gli studi, il C. diede inizio a quel lavoro di segretario presso nobili famiglie che lo avrebbe impegnato per circa quarant'anni. La prima casa in cui esercitò questo ufficio fu quella del marchese di San Lucido, don Ferrante Carafa, e di suo figlio Federico. Dalla casa del Carafa passò nel 1577 in quella di don Giovanni d'Avalos, figlio di Francesco Ferrante e di Maria d'Aragona, e vi restò anche quando l'Avalos sposò donna Maria Orsini. Dal 1581 lo troviamo al servizio del marchese di Lauro, don Scipione Pignatelli. Morto questi, rimase per diversi anni in casa Pignatelli come segretario del giovanissimo Scipione e lo seguì a Palma, a Nola, a Lauro. Venne poi prescelto da Matteo di Capua, principe di Conca e grande ammiraglio nel Regno di Napoli, come segretario della Gran Corte dell'ammiragliato a Napoli. Poté così stabilirsi nella città natale. I suoi rapporti con la nobiltà non si limitavano alle case presso cui esercitava il suo ufficio. Contemporaneamente assisteva e dava consigli ad altri nobili, tra cui don Lelio Orsini, fratello di Ferrante, duca di Gravina.
Capitava così che la sua erudizione venisse posta al servizio di certe pretese di antica origine nobiliare. Infatti accettò e giustificò la menzogna di Alberico (I) Cibo Malaspina - col quale era in corrispondenza - sull'origine greca della sua famiglia. L'unico limite posto alla propria dignità intellettuale riguardò una variante grafica: quando Alberico volle cambiare il nome Cibo con Cybo, il C. rispose al duca precisando che quel cambio di grafia non era necessario (la lettera, del 20 dic. 1601, è stata pubblicata in Sforza, pp. 61-63). Finché si trattava di solleticare l'orgoglio nobiliare ammettendone le lontane origini, il C. si trovava consenziente; qualche scrupolo lo assaliva invece quando si passava a tempi più vicini. Nella dedica a Scipione Pignatelli della Giunta al Compendio... Venezia 1588, si duole di non aver potuto dimostrare, come si proponeva, che il ducato di Monteleone, il comitato di Borrello e i marchesati di Lauro e di Circhiaro si ebbero nella casa per "servigi" resi e non per compere. Riusciva difficile al C. mentire su cose che, per essere alla corte del marchese, conosceva troppo bene. Comunque nell'edizione di Napoli, 1594, ogni accenno a tale questione scomparve e il C. si limiterà a generici ringraziamenti al suo signore.
Oltre che con la nobiltà ebbe rapporti con i più rappresentativi intellettuali del tempo: G. B. Attendolo, G. C. Capaccio, A. Di Costanzo, Scipione De Monti e molti altri, come documenta il volume delle Lettere, Venezia 1602, ristampato con aggiunte a Napoli nel 1604.
Figura di spicco tra i cosiddetti poligrafi del consumo librario, esplicò la sua attività di scrittore in varie direzioni. Curò la ristampa di opere come la Vita del gran pontefice Innocenzio IV scritta già da Paolo Pansa e da T. Costo corretta, migliorata e data in luce, Napoli 1598; e come le Vite di tutti i pontefici da Piero in qua, ridotte in epitome secondo la descrizione del Platina, corretta dal Panvinio, Venezia 1592. Della sua preparazione erudita e grammaticale è prova una delle migliori edizioni della Gerusalemme liberata, Napoli 1582. Nella presentazione ai lettori il C. è cosciente del lavoro svolto quando afferma che si tratta dell'edizione "di gran lunga più corretta delle altre". Sperimentò anche la difficile vita delle accademie a Napoli. Ferrante Carafa aveva intenzione di ricostituire l'antica Accademia dei Sereni - già soppressa dal viceré don Pietro di Toledo - col titolo modificato di Sereni Ardenti di Cristo e di Maria, dell'Austria e dei Gironi, e aveva già eletto il C. segretario di essa. Ma il viceré duca d'Ossuna respinse la richiesta di riapertura. Amaramente il C. notava che con la chiusura delle accademie "non c'è quasi più chi delle belle lettere non habbia in tutto gli studi messo in non cale" (Giunta al Compendio dell'istoria del Regno di Napoli, Venezia 1591, p. 152). Durissimo sarà poi il suo giudizio su don Pietro Girón duca d'Ossuna il cui operato era servito "accioche s'esperimentasse per lui, siccome s'era già fatto per don Pietro di Toledo, questo nome ne i viceré esser fatale a Napoli" (Apologia istorica, Napoli 1613, p. 156). Vita breve ebbe anche l'Accademia degli Svegliati, fondata intorno al 1586 e ospitata da don Matteo di Capua, principe di Conca. Fu eletto console Giulio Cortese, che nominò il C. segretario. Il 24 febbr. 1593 l'accademia fu chiusa su ordine di Filippo Il per sospetto che vi si congiurasse contro lo Stato.
La posizione del C. nelle polemiche sulla Gerusalemme liberata, scoppiate con la pubblicazione del Carrafa overo dell'epica poesia, Napoli 1584, di C. Pellegrino, è illustrata in una sua lettera del 12 ott. 1585 al Pellegrino. Il C. esalta Tasso come autore "più nuovo" (Lettere, 1604, pp. 325 s.), ma questo suo giudizio non implica - come ha chiarito A. Quondam - un collocarsi nettamente dalla parte del Tasso a discapito dell'Ariosto. Spia della posizione di compromesso, ma fondamentalmente classicistica, del C. è la preferenza accordata alla "facilità" ariostesca e quindi alla chiarezza della locuzione piuttosto che alla artificiosità di essa e alla sua preminenza sulla sentenza. Il suo atteggiamento critico si accordava col purismo cruscante, e non a caso nel 1591 egli entrava a far parte dell'Accademia della Crusca. Ma già da prima aveva avuto contatti con l'ambiente fiorentino e con G. B. Dati in particolare. La sua prima prova letteraria era stata del resto un poema epico d'impianto regolare, La rotta di Lepanto (Napoli 1573), inteso a celebrare la vittoria sui Turchi e il cui modello era costituito dall'Ariosto. Il poema fu ripubblicato, ampliato e migliorato, a Napoli nel 1582 col titolo La vittoria della Lega. Una maggiore dinamicità di scrittura in direzione della "locuzione artificiosa" si rileva nel Pianto di Ruggiero, Napoli 1583. Sempre d'impostazione classicistica sono le critiche rivolte alla edizione curata dall'Attendolo delle Lagrime di San Pietro (Napoli 1585) del Tansillo. Il C. si assegnò quindi il compito di restaurare filologicamente il testo tansilliano: e nel 1606 darà alle stampe a Venezia una nuova edizione delle Lagrime, preceduta da un Discorso per lo qual si dimostra questo poema delle Lagrime di San Pietro, non solo essere come dall'autore lasciato scritto, ma... migliore di quel che fin'ora s'è veduto stampare. Nel Discorso per lo qual si dimostra a che fine il Petrarca indirizzasse le sue rime e che i suoi Trionfi sieno poema eroico, posto in appendice al Petrarca nuovamente ridotto alla nuova lezione (Venezia 1592) il C. dimostrò - secondo una tradizione critica diffusa nel Cinquecento - l'impianto profondamente religioso di tutto il canzoniere. Il recupero moralistico del Petrarca è sottolineato da un elenco posto alla fine del libro di "sentenze e proverbi tratti dal Petrarca ridotti qui per ordine alfabetico".
La posizione storica del C. esprime tutta la contraddittorietà del ruolo del letterato nella seconda metà del Cinquecento. Da una parte degradato, rispetto al cortigiano rinascimentale, a semplice segretario il cui compito è limitato alla scrittura "tecnica" delle lettere, secondo la stessa teorizzazione del C. nel Trattato del segretario, posto in appendice al volume delle Lettere, 1604; d'altra parte egli è pienamente inserito nella produzione per il mercato librario che gli consente un minimo di indipendenza economica, certo non ancora sufficiente a svincolarlo dal rapporto privato col signore. Il C. non ha coscienza della contraddittorietà dei due ruoli, tra il letterato di professione e il segretario subalterno; le due figure coesistono ed egli diversamente si atteggia a seconda che eserciti l'una o l'altra funzione.
Come segretario al servizio di nobili casate è pronto a difenderne i valori e a rinunciare alla propria autonomia di giudizio. La rivendicazione della propria dignità di letterato riemerge invece nell'ambito della produzione libraria. In una lettera all'editore veneziano Barezzi, scritta il 6 sett. 1589, si lamenta con lui in quanto non c'è cosa che gli "dia più noia di quella legge che m'imponete del numero delle righe". Fa poi notare che il proprio fine è diverso "essendo il vostro il solo guadagno; e quello di noi altri [letterati] l'honore" (Sforza, p. 48).
Le numerose opere storiche del C. si inseriscono in quella corrente di storiografia erudita, definita dal Colapietra nazionale, sviluppatasi nel secondo Cinquecento a Napoli. Essa rivendica una continuità che le dominazioni straniere non riuscirono ad intaccare. L'esigenza di difendere i Napoletani dalle accuse di scarsa fedeltà ai loro sovrani mosse loro da Pandolfo Collenuccio spinse il C. non solo ad annotare l'opera del Collenuccio, ma a continuarla nelle Addizioni e note al Compendio dell'istoria del Regno di Napoli, scritto da P. Collenuccio, M. Roseo e C. Pacca. Quest'ultimo era arrivato a narrare gli avvenimenti del 1562 e il C. iniziando dal 1563, portò la storia fino al 1582 e la pubblicò a Napoli nel 1583. Proseguì poi fino al 1586 compilando altri tre libri e pubblicò questa Giunta al Compendio... a Venezia nel 1588. Altre edizioni seguirono fino alla definitiva edizione che arrivava al 1610 e che fu stampata a Venezia nel 1613.
La storia del C. raccoglie molti eventi di cronaca che vanno dalla registrazione di una calamità naturale al ripetersi del miracolo di s. Gennaro. Egli supera il taglio cronachistico quando la tragicità dell'evento gli impone una approfondita riflessione. È il caso dell'uccisione dell'eletto Starace da parte del popolo avvenuta nel 1585. Distaccandosi da altri che avevano insistito sugli aspetti più raccapriccianti della vicenda - il corpo dell'eletto smembrato e trascinato per le strade cittadine - il C. individua le cause sociali della rivolta, e ne addita i responsabili, primo fra tutti il viceré d'Ossuna, continuatore di quella politica di dissanguamento del Regno di Napoli in favore della Spagna (Giunta al Compendio, Venezia 1588, pp. 134-143; Apologia istorica, Napoli 1613, pp. 156-157). In questo quadro non possono non avere intento polemico le puntigliose e precise annotazioni di tutti i donativi fatti alla Spagna che si riscontrano nel corso di tutte le opere storiche del C., mentre, per contrasto, si pone in risalto l'immagine di un popolo generoso. Nella Apologia istorica del Regno di Napoli contro la falsa opinione di coloro che biasimarono i regnicoli d'incostanza e d'infedeltà (Napoli 1613), pur lodando Filippo II il quale "procedé... tanto severamente verso i suoi ministri più preminenti che senza riguardo veruno li rimosse da' lor carichi" (p. 161), non esita a dare ai re di Napoli la qualifica di tiranni, "perché non dal numero degli ottimati, né da universal consenso di popolo furono eletti, ma chiamativi da paesi strani da altri, e intromessivisi anche con la forza dell'arme" (ibid., p. 162).
La vita del C. fu avvelenata da parecchie polemiche, fomentate peraltro da lui stesso, poco disposto com'era a un'indole conciliativa. "Mi è sempre occorso - dice in una delle sue Lettere a Cesare Campana - di vedere le mie vigilie, i miei sudori, dico gli scritti miei, essermi da questo e da quello usurpati, e con tanta sfacciataggine degli usurpatori che pare incredibile". Nel Compendio dell'istoria..., Venezia 1613, si lamenta nella dedica Ai lettori del plagio di G. A. Summonte, il quale era venuto a chiedergli consigli per la sua Istoria (Napoli 1601), ma poi in essa non lo menzionava affatto. Il C. cita i luoghi precisi, da confrontare per chi voglia rendersi conto di quanto il libro del Summonte sia vestito delle "altrui piume e specie delle sue".In appendice alla citata edizione del Compendio il C.aveva ripubblicato col titolo di Opuscoli gli Alberi de' Re di Napoli, catalogo, de' Re, Viceré, tribunali, provincie, città, castella, titolati, famiglie nobili, vescovadi, già stampati a Napoli nel 1593. Nella presentazione Ai lettori non manca di accusare certo Enrico Bacco "libraro di nazion tedesco" di aver dato alle stampe un libro assai simile al suo, dandogli un altro titolo, senza il nome dell'autore. Il problema sollevato dal C. è serio e le sue polemiche non vanno lette tutte in chiave di gretta presunzione, quanto piuttosto nel senso della difesa dei diritti d'autore allorché si augura che si reprima "la baldanza e la presunzione de' librari, o d'altri, che facendo ristampare qualche libro, lo adulterano, in pregiudicio del nome del vero autore". Non sono infatti - precisa il C. - soltanto gli eretici a usare questo espediente. La polemica con Scipione Mazzella ebbe strascichi in tribunale. Infatti nel 1595 il C. pubblicò a Napoli i Ragionamenti intorno alla descrizione del Regno di Napoli, e all'Antichità di Pozzuolo di Scipione Mazzella, per li quali e con ragioni e con autorità verissime si mostra, non pur esser molti errori e mancamenti in quelle due opere ma che le medesime son tutte cose copiate puntualmente dagli scritti altrui. Per gli insulti fatti al Mazzella il C. subì due processi, uno presso il Sacro Regio Consiglio, e l'altro col tribunale dell'Inquisizione. Pare anche che sia stato in carcere per qualche tempo, ma non sappiamo se fu incarcerato per ordine dell'autorità civile o religiosa. Per quanto riguarda la causa civile fu appoggiato dal principe di Conca sicché, col patrocinio di Fabio De Falco e di Michele Zappulla, fu liberato il 31 marzo del 1597 "cum cautione de stando iuri in forma" (Soria, p. 202). L'altro processo proseguì coinvolgendo anche le sue opere, ma dové risolversi anche questo positivamente. Pare che il C. abbia avuto una polemica anche con G.B. Marino, ma nulla sappiamo di preciso se non che il Marino compose, o meglio passò l'ultima mano a un'operetta burlesca, la Stuffa (oggi perduta), di cui erano autori vari intellettuali napoletani, diretta probabilmente contro il Costo. Il Marino ne dà notizia in una lettera a G. B. Manso, di cui il C. era ospite (G. B. Marino, Lettere, a cura di M. Guglielminetti, Torino 1966, p. 18).
Il poligrafo napoletano si cimentò anche nel campo della novellistica scrivendo Il Fuggilozio (Napoli 1596, cui fecero seguito numerose altre edizioni). La cornice è boccaccesca: gli interlocutori sono otto gentiluomini e due donne che, riunitisi nel palazzo del priore Ravaschiero, decidono di rallegrare il malato raccontando a turno motti, burle e facezie, di cui viene fissato preventivamente, giorno per giorno, il tema. Il Fuggilozio manca di respiro narrativo per l'eccessiva brevità delle novelle e si lega alle raccolte rinascimentali di facezie. L'ambiguità del libro si può cogliere già nella prima giornata, in cui si svolge il tema della licenziosità della donna. Ciò permette al C. il recupero del repertorio "osceno" della novella rinascimentale, una sensualità espressa è subito attenuata e riscattata dalla citazione di una sentenza autorevole e l'autore nella presentazione Ai lettori li esorta a "non mirar tanto leggendo quest'opera alla ridicolosa corteccia, quanto alla giovevole sostanza di lei". Resta da verificare quanto questa esortazione risponda a effettive esigenze moralistiche, o se non costituisca una copertura per sfuggire alla censura.
Nel 1613 il C. è ancora vivo, come si deduce dall'edizione da lui curata del Compendio dell'istoria..., Venezia 1613, ma probabilmente morì nel corso dello stesso anno. Infatti l'Apologia istorica, Napoli. 1613, è curata da Giulio Piccoli, il quale, nella presentazione Ai lettori, accenna alla morte del Costo. Scrisse anche un Memoriale delle cose più notabili accadute nel Regno di Napoli dal 412 fino al 1592, Napoli 1593. Il Memoriale fu ristampato da G. Mornile con le aggiunte fino al 1617, Napoli 1618.
Fonti e Bibl.: A. Borzelli ha raccolto le scarse notizie biogr. sul C. in L'operosità di T. C. poligrafo del sec. XVI in Napoli, Napoli 1925. Vedi inoltre C. Camilli, Imprese illustri di diversi, Venezia 1586, pp. 171-176; G. C. Capaccio, Il Secretario, Venezia 1597, pp. 309-310, 354; L. Nicodemi, Addizioni copiose alla "Biblioteca napoletana" del dott. N. Toppi, Napoli 1683, p. 238; F. A. Soria, Mem. storico critiche degli storici napol., Napoli 1788, pp. 201-205; G. Sforza, Alberico. I Cibo Malaspina e T. C., in Arch. stor. ital., XXIX (1902), I, pp. 45-63; A. Borzelli, Il cavalier G. B. Marino, Napoli 1906, p. 21; L. Di Francia, Novellistica, Milano 1925, pp. 136154; R. Colapietra, La storiografia napol. del secondo '500, in Belfagor, XV (1960), pp. 417, 420 s., 424, 427-430, 433 s.; XVI(1961), p. 422; C. Varese, La novella in teatro, prosa, poesia, in Storia della letter. ital., Il Seicento, Milano 1967, pp. 709 s.; A. Quondam, La protrazione del classicismo: T. C., in Dal Manierismo al Barocco. Per una fenomenologia della scrittura poetica a Napoli tra Cinque e Seicento, in Storia di Napoli, V, Napoli 1972, pp. 535-551, ora in La Parola nel labirinto, Bari 1975, pp. 627-646; G. Ferroni-A. Quondam, La locuzione artificiosa, Roma 1973, pp. 143-148; G. Mazzacurati, La metamorfosi della novella, in S. Battaglia-G. Mazzacurati, La letter. ital. Rinascimento e Barocco, Firenze 1974, pp. 406, 409 s.; E. Imparato, T. C.: un esempio della diversa cult. napol. alla fine del Cinquecento, in Historica, XXXII (1978), pp. 120-131.