Tommaso d’Aquino
Tra i più grandi intellettuali del Medioevo la cui influenza è viva ancora oggi, come dimostra una bibliografia in perenne rinnovamento, Tommaso d’Aquino è stato forse il più geniale utilizzatore della rivoluzione culturale conseguente all’introduzione del corpus aristotelico in Occidente. Ritenendo l’uomo, per natura, un «animale sociale e politico», egli ha dedicato pagine importanti allo studio della società civile, considerandola la sua più alta realizzazione; in particolare, ha saputo innovare la riflessione sulla politica, dandole uno statuto scientifico e cercando di porne in evidenza le modalità di istituzione e funzionamento in vista del fine che, a suo avviso, deve essere proprio di ogni formazione politica: il bene comune.
Ultimo di una famiglia numerosa, Tommaso nacque a Roccasecca da Teodora e Landolfo dei conti di Aquino intorno al 1225 ca. e all’età di cinque o sei anni fu oblato al monastero di Montecassino per dare inizio a un percorso che avrebbe potuto condurlo al rango di abate. Tuttavia, nel 1239, i genitori lo fecero trasferire a Napoli, perché frequentasse l’Università che Federico II aveva fondato recentemente con l’intento di farne il contraltare di Bologna. Qui Tommaso frequentò le lezioni di Pietro d’Irlanda e di Martino di Dacia alla facoltà delle Arti grazie alle quali iniziò a leggere le opere logiche e naturali di Aristotele e soprattutto, contro il parere dei familiari, scoprì il fascino del giovane ordine dei predicatori nel quale entrò nel 1244. Quando, come novizio, si mise in viaggio per Parigi per proseguire gli studi, i fratelli, su incarico della famiglia, lo rapirono e per diversi mesi tentarono di farlo recedere dalla sua decisione, finché, vista la sua tenace resistenza, gli concessero di tornare a Napoli e, di qui, raggiungere i suoi confratelli a Parigi.
Studente di teologia nel convento di Saint-Jacques e di filosofia nella facoltà delle Arti dal 1245 al 1248, in quell’anno seguì Alberto Magno a Colonia frequentandone le lezioni come assistente per poi tornare a Parigi nel 1252 come baccelliere biblico per proseguire nella carriera accademica sino al conseguimento del titolo di maestro in teologia, diploma che ottenne nel 1256. A questo periodo della sua vita si fanno risalire testi fondamentali come il De ente et essentia e lo Scriptum super libros Sententiarum. Per il successivo triennio, Tommaso insegnò regolarmente, partecipò attivamente alla polemica suscitata da Guglielmo di Saint-Amour e dai maestri secolari contro i docenti appartenenti agli ordini mendicanti componendo il Contra impugnantes Dei cultum et religionem e iniziò a scrivere alcune delle sue opere più importanti (le Quaestiones disputatae de veritate, la prima parte della Summa contra Gentiles, una parte delle Quaestiones quodlibetales e il Super Boetium De Trinitate).
Tornato in Italia, dal 1259 al 1268 fu predicatore generale presso la curia pontificia e svolse una proficua attività per promuovere gli studi sia nel suo ordine sia a favore della costituzione dello Studium Urbis, senza tralasciare la scrittura. Infatti, pose fine alla Summa contra Gentiles e dette inizio alla Summa theologiae, compilò vari opuscoli, le Quaestiones disputatae de potentia Dei, commenti ad Aristotele e alla Bibbia. Alla fine del 1268 tornò a Parigi su mandato del pontefice, perché intervenisse sia sulla nuova polemica scoppiata tra i maestri secolari, guidati da Nicola di Lisieux e Gerardo di Abbeville, e i regolari, sia per porre un argine alla crescente fortuna del commento averroistico presso i maestri della facoltà delle Arti, visto come un pericolo per la fede dai maestri della facoltà di Teologia, in prevalenza neoagostiniani. In questi anni (1269-1272) Tommaso svolse un’attività intellettuale che ha del prodigioso: la maggior parte dei suoi commenti ad Aristotele, le raccolte di questioni De spiritualibus creaturis, De anima, De malo, De virtutibus, la seconda parte della Summa theologiae, gli opuscoli sull’unità dell’intelletto, sull’eternità del mondo e contro i secolari.
Al rientro in Italia, nel 1272, fu inviato a Napoli per riorganizzare e dirigere lo Studium generale dell’ordine e scrisse, oltre a commenti biblici, la terza parte (incompiuta) della Summa theologiae, i commenti al Liber de causis e al De generatione et corruptione, per poi deporre la penna, nel dicembre 1273, e non scrivere più. Malgrado l’incerto stato di salute, obbedì all’ordine del papa, Gregorio X, di mettersi in viaggio per raggiungere Lione dove doveva svolgersi il Concilio indetto per il 1274, ma essendosi aggravate le sue condizioni si fermò al castello di Maenza e di lì si fece portare all’abbazia cistercense di Fossanova dove morì il 7 marzo 1274.
I filosofi e la facoltà delle Arti di Parigi, alla notizia della morte dell’Aquinate, indirizzarono all’ordine dei predicatori e ai partecipanti al Concilio di Lione questa lettera, più esplicita di ogni commento sui rapporti che legarono Tommaso al mondo intellettuale contemporaneo:
Siamo appena capaci di esprimere quel che abbiamo saputo: l’affetto infatti ci trattiene, ma il dolore e un’angoscia bruciante ci spingono ad annunciare che – come abbiamo appreso da voci diffuse e da fonti sicure – il venerabile dottore frate Tommaso d’Aquino è morto […]. Dal momento che non abbiamo potuto riaverlo tra noi da vivo, vi chiediamo umilmente, come ultimo dono, le sue spoglie. [...] Se infatti la Chiesa giustamente onora le ossa e le reliquie dei santi, a noi sembra a buon diritto onesto e santo che il corpo di un dottore così grande sia tenuto in perpetuo onore qui, affinché con le sue opere si mantenga eterna la sua fama presso di noi (Chartularium Universitatis Parisiensis, éd. H. Denifle, Ae. Chatelain, 1889-1897, 1° vol., 447, pp. 504-505).
Il 18 luglio 1323 Tommaso fu proclamato santo da papa Giovanni XXII e il 15 aprile 1567 papa san Pio V lo dichiarò dottore della Chiesa.
Nel complesso della vastissima produzione di Tommaso, l’interesse politico-civile si viene manifestando durante il secondo soggiorno parigino, nel quale si collocano, accanto alla seconda parte della Summa theologiae, i principali commenti ad Aristotele e, in particolare, alla Fisica, alla Metafisica, all’Etica Nicomachea e alla Politica (quest’ultimo interrotto al capitolo sesto del terzo libro), seguiti, a breve distanza di tempo, dal De regno ad regem Cypri, rimasto allo stato di frammento. L’assidua frequentazione di questi testi e, in parallelo, lo sforzo di ripercorrere e interpretare nella Summa il quadro complessivo dell’attività umana dal punto di vista del teologo, certamente indussero Tommaso a riflettere tanto sui presupposti ‘naturali’ di quest’ultima (secondo il dettato della ragione) quanto sul suo rapporto con il problema della salvezza: l’aristotelico animal sociale et politicum e il credente.
Fondamentale, a questo riguardo, può essere considerato l’avvio del commento all’Etica («come afferma il Filosofo all’inizio della Metafisica, è proprio del sapiente ordinare» [Sententia libri Ethicorum, I, I, 1]), dove sin dalle prime parole Tommaso sottolinea il compito della ragione, che è quello di porre ordine tra le cose relazionandole l’una all’altra a seconda che esse siano prodotte dalla natura o dalla ragione stessa. L’incipit del commento alla Metafisica, d’altra parte, recita:
Come insegna il Filosofo nella Politica, quando più cose sono ordinate all’unità, è necessario che una di esse funga da regola e guida e le altre siano regolate e guidate. Il che è evidente nell’unione dell’anima con il corpo: infatti l’anima per natura comanda e il corpo obbedisce. Lo stesso accade anche tra le potenze dell’anima, infatti la parte irascibile e quella concupiscibile per ordine naturale sono regolate dalla ragione. Così anche tutte le scienze e le arti sono ordinate verso l’unità, cioè alla pienezza di essere dell’uomo, che è la sua beatitudine. Per cui è necessario che una di esse sia la norma di tutte le altre, e giustamente rivendica a sé il nome di sapienza. Infatti è proprio del sapiente ordinare gli altri (Sententia libri Metaphysicorum, Prooemium, 1-2).
Il rinvio dall’Etica alla Metafisica e da questa alla Politica, cui la prima rimanda alla fine del X libro (Sententia libri Ethicorum, X, XV, 16), chiude il cerchio delle reciproche rispondenze fra queste opere e salda compiutamente il discorso dell’Aquinate relativo alla filosofia pratica e speculativa in un tutto organico e coerente. A questo ambito di riflessioni appartengono sia la logica, cioè l’ordine razionale delle parti del discorso, sia l’etica, concernente il susseguirsi delle azioni che procedono dalla volontà secondo un ordine di ragione indirizzato al conseguimento di un fine: infatti «il soggetto della filosofia morale è l’azione umana indirizzata a un fine o anche l’uomo in quanto ente che agisce volontariamente in vista del conseguimento di un fine» (I, I, 5). D’altra parte, essendo l’uomo un soggetto che per natura ha necessità di una molteplicità di cose che non può procurarsi da solo per vivere, ne consegue che egli è naturalmente parte di una più vasta comunità che gli consente non solo di vivere ma di vivere bene; da qui l’utilità/necessità di una scienza che concerna le modalità con cui progettare e consolidare il fine delle operazioni atte a realizzare una comunità, la più vasta possibile, per conseguire il fine proposto: questa è la politica.
A guidare il pensiero di Tommaso è pertanto da una parte una concezione teleologica dell’attività più specificamente umana, quella razionale, e dall’altra la libertà della volontà nella scelta dei mezzi più idonei a conseguire il fine propostosi, un fine che non viene imposto dall’esterno ma ha origine nel suo stesso essere. «Un desiderio naturale è impossibile che sia vano, “poiché la natura nulla compie inutilmente” [De coelo et mundo, II, 11]. […] Dio, il quale è l’istitutore della natura, non toglie alle cose quanto è proprio della loro natura» (Summa contra Gentiles, II, 55), ed esso consiste nella felicità in quanto realizzazione completa della sua essenza. Per gli uomini è il conseguimento del bene grazie a un libero atto di volontà che vuole il bene per il bene in sé. E ciò può attuarsi solo attraverso la legge, un concetto giuridico che Tommaso applica alla morale per analogia:
La legge non essendo altro che la norma dell’agire, la quale a sua volta si desume dal fine, ogni essere suscettibile di legge deve riceverla da colui che ha il compito di condurlo al suo fine: un artigiano inferiore, per esempio, deve riceverla dall’architetto, e il soldato dal comandante dell’esercito. Ora, la creatura ragionevole consegue il suo fine ultimo in Dio e da Dio, com’è evidente dalle spiegazioni date in precedenza. Dunque, era conveniente che da parte di Dio agli uomini fosse data una legge. Da qui le parole di Geremia 31, 33: “Imprimerò la mia legge nei loro cuori”, e quelle di Osea 8, 12: “Moltiplicherò per essi le mie leggi” (III, 114).
Alla definizione del concetto di legge nonché alle articolazioni in cui essa si differenzia a seconda del campo di applicazione, Tommaso dedica un nutrito gruppo di questioni della Summa theologiae (Ia IIae, qq. 90-108). I 96 articoli che le compongono costituiscono un vero e proprio trattato sulla legge, un fenomeno pressoché unico in ambito teologico per l’ampiezza e la distribuzione della materia, a testimonianza anche della sua capacità di comporre in un unico quadro la tradizione dell’esegesi biblica con la spinta razionalizzatrice della Politica aristotelica.
La definizione di partenza è assolutamente piana, anche se, confrontata con quella sopra riportata, sottolinea in maniera forte il suo legame con il comportamento pratico:
la legge è una certa regola e misura delle azioni, secondo la quale ciascuno è indotto ad agire o non agire: si dice infatti che lex deriva da ligando, poiché obbliga all’azione. La regola e misura degli atti umani è la ragione, primo loro principio, come è chiaro da quanto già detto: infatti è proprio della ragione ordinare le azioni in vista di un fine da conseguire, come dice il Filosofo. In qualsivoglia genere ciò che costituisce il principio è la misura e la regola di quel genere: così come l’unità nel genere del numero, e il primo moto in quello del movimento (Ia IIae, q. 90, a. 1 resp.).
La ragione pratica, sottolinea Tommaso, si comporta in maniera speculare rispetto alla ragione speculativa, e le conclusioni cui perviene, se sono rette da una loro interna e ferrea coerenza, hanno la stessa cogenza della conclusione di un sillogismo perfetto (cfr. q. 90, a. 1 ad 2um).
Ora, come ogni parte è ordinata al tutto e ciò che è parziale lo è rispetto all’insieme, così il singolo uomo è parte di una comunità complessa, ed è quindi necessario che la legge propriamente guardi alla realizzazione della felicità comune: coerentemente, quindi, Aristotele lega insieme nell’Etica la felicità umana e la comunità politica (cfr. q. 90, a. 2 resp.) e correttamente si può dire che la legge, che è un prodotto di ragione, deve guardare al bene comune il quale, a sua volta, è individuato o da una moltitudine di uomini (il termine che Tommaso usa in luogo di popolo che ancora non esiste in quanto non sorretto da un apposito apparato legislativo) o da una persona pubblica che la rappresenta e che si assume il compito di «fare» la legge (cfr. q. 90, a. 3 resp.) e di promulgarla. «Può così essere data una definizione precisa della legge, la quale non è altro che un certo ordinamento razionale finalizzato al bene comune, promulgato da chi ha la cura della comunità» (q. 90, a. 4 resp.). Rilevando altresì, con un richiamo al realismo della Politica («il principe deve essere dotato della stessa virtù che fa l’uomo buono; ma un cittadino qualsiasi non ha lo stesso dovere» [Politica, II, 6, 1277a20]), che lo scopo primo della legge non è quello di rendere buoni gli uomini ma di consentire alla comunità di perseguire il proprio fine e, in ogni caso, se è vero che il bene comune non è realizzabile se i cittadini, o almeno i governanti, non sono virtuosi, è tuttavia sufficiente a un buon conseguimento del fine propostosi che la loro virtù consista almeno nell’obbedienza nei confronti del governante.
Approfondendo poi questa definizione generalissima, Tommaso distingue quattro diversi tipi di legge, guardando al contesto in cui la normativa si applica e a chi ne ha il carico: la legge eterna, la legge naturale, la legge umana e la legge divina. Quanto alla legge eterna, con ciò deve intendersi l’ordinamento razionale che Dio (Bene e Sapienza assoluta) ha dato all’intero universo all’atto della creazione, in particolare dotando l’uomo dello strumento della ragione per poter liberamente perseguire quel fine di bene che ha presieduto alla sua decisione. Ne consegue che essa è partecipata, in misura maggiore o minore, da tutti gli enti creati e che ogni altra legge non può che fare riferimento a essa. E ciò vale in particolar modo per la legge naturale, che è come l’impronta, lontana se si vuole ma sempre presente, dei principi fondamentali che hanno ispirato la creazione e che consentono a ogni realtà esistente di rispondervi, grazie a un’inclinazione insita nella propria natura: perseguire ciò che è bene per ognuno è quello che tutti desiderano, e questo non può che condurre alla conservazione della vita, a sviluppare la ragione e a conseguire un rapporto di collaborazione e convivenza con gli altri per vivere bene. Da ciò consegue che gli atti virtuosi discendono da questi principi e fanno sì che la legge naturale, cioè i principi fondamentali, appartengano a ogni uomo e non possano essere né cancellati né modificati, proprio in quanto principi generali costitutivi della loro esistenza.
Ma, ovviamente, gli uomini non sono tutti eguali né lo sono le condizioni in cui essi esplicano le loro attività, per cui è necessaria l’istituzione di una legge umana, o positiva, che tenga conto di queste specificità e cerchi di adattare i principi generali e immutabili alla contingenza e alla mutabilità delle condizioni storiche. Ciò riguarda, in particolare, anche il rapporto della morale privata con il foro esterno e la vita associata: Tommaso richiama la lezione di Isidoro di Siviglia, secondo il quale «la legge deve essere “possibile, secondo natura e secondo la consuetudine della patria”» (Summa theologiae, Ia IIae, q. 96, a. 2 resp.), per cui la capacità di agire dipende dalla disposizione individuale: non è infatti possibile richiedere un atto virtuoso a chi virtuoso non è, proprio come non si può pensare che un fanciullo o un uomo maturo possano agire allo stesso modo. Ed è un fatto che la maggior parte degli uomini non appartiene al rango dei perfetti; quindi, la legge umana non può proibire tutti i vizi, ma solo quelli più gravi e che mettono a rischio la convivenza. E ciò vale anche per gli atti virtuosi che non possono essere imposti qualora riguardino non il bene comune, cui è destinata la legge, ma il bene privato.
Nel complesso Tommaso, affrontando il problema della legge – definizione, articolazione, applicabilità – mostra una grande sensibilità storica e pratica, intervenendo, per es., sulla necessità di chiarire il significato effettivo della portata delle disposizioni legislative. Esse infatti impongono o proibiscono determinate azioni e fissano le pene per la trasgressione, ma va notato che esiste una vasta gamma di atti che possono essere definiti indifferentes, che non rientrano tra le imposizioni o le proibizioni e che la legge consente in quanto si tratta di «atti che sono o parzialmente buoni o parzialmente cattivi» (q. 92, a. 2 resp.), su cui essa non ritiene di doversi esprimere perché troppo particolari o comunque tali da non recare gravi danni all’ordinamento sociale. Un altro esempio di questa sensibilità è offerto dalla questione 97 nella quale Tommaso, in quattro articoli, sostiene la necessità che la legge positiva debba adeguarsi al mutare delle condizioni storiche, per cui è opportuno che essa possa essere modificata sia in toto sia parzialmente; sta nella discrezionalità del governante decidere come poter meglio conseguire il fine del bene comune. E questo è il principio che non può e non deve essere soggetto a modifica: la semplice intenzione di promulgare una legge contraria al bene comune rende assolutamente nullo l’atto conseguente, perché non di legge si tratterebbe ma di una perversione della legge in quanto tale. Infine, come ultimo esempio, si può ricordare il grande valore che Tommaso attribuisce alla consuetudine: essa ha valore di legge in quanto espressione di una volontà popolare che si è manifestata e continua a manifestarsi nella ripetizione di atti e comportamenti, e che pertanto lega anche il governante al momento della delega a rappresentarla. «La consuetudine ha valore di legge, può rendere nulla una legge contraria e fornisce il criterio interpretativo della legge stessa» (q. 97, a. 3 resp.).
Per tutto questo insieme di considerazioni relative alla varietà dei tempi e degli uomini, Tommaso ritiene che Dio abbia giudicato indispensabile fornire direttamente una legge, quella consegnata al testo sacro, che supera le incertezze del giudizio umano, l’attenzione limitata al solo foro esteriore, predispone la punizione del peccato morale e non solo quella dell’azione esteriore e assicura all’umanità la possibilità della salvezza eterna entrando nel cuore e nella coscienza individuale; tutte cose che la legge umana non può fare. E dedica, quindi, un ampio spazio a un raffronto puntuale tra le disposizioni del Vecchio Testamento e quelle del Nuovo, esplicitando le motivazioni della duplicità dell’intervento divino e sostenendo la validità, parziale e temporanea, della prima parte della Bibbia:
Non vi è dubbio che la vecchia legge fosse una buona legge. Infatti, come ogni dottrina mostra la sua verità per il fatto che concorda con la retta ragione, così accadde anche con la vecchia legge […]. Ma si deve tener presente che il bene ha un’ampia gradualità, come afferma Dionigi nel quarto capitolo del De divinis nominibus: vi è infatti un bene perfetto e un bene imperfetto. Bene perfetto può essere definito ciò che si identifica con il fine cui è ordinato, allorché un qualcosa è tale che è sufficiente per sé a indurre al fine; imperfetto invece è quel bene che fa ricorso a un qualcosa per pervenire al fine, e che di per sé non è sufficiente a raggiungerlo. Come la medicina perfettamente buona è quella che sana l’uomo, mentre è imperfetta quella che lo fa stare meglio, ma tuttavia non è in grado di assicurargli la salute. Si deve inoltre sapere che altro è il fine della legge umana, altro quello della legge divina. Infatti, il fine della legge umana è la pace della comunità civile, al quale la legge perviene proibendo gli atti esteriori riguardo a quelle azioni criminali che possono turbarne lo stato pacifico. Il fine della legge divina è condurre l’uomo alla felicità eterna, fine che è impedito da qualsiasi peccato, e non soltanto per le azioni concrete ma anche per i moti interiori. E perciò, quello che è sufficiente alla perfezione della legge umana, affinché proibisca i peccati ed eroghi la pena, non lo è al soddisfacimento della legge divina: ma per essa è necessario che renda l’uomo, nella sua totalità di anima e di corpo, idoneo alla partecipazione della felicità eterna. Il che non può avvenire se non per la grazia dello Spirito santo, in virtù della quale “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori” [Rom. 5, 5], che riempie la legge: “la grazia di Dio” infatti “è la vita eterna”, come è scritto in Rom. 6, 23. E la vecchia legge non poteva conferire questa grazia, essendo essa riservata a Cristo, come è scritto in Ioan. 1, 17: “la legge fu data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”. Ne consegue che la vecchia legge è buona, ma di una bontà non perfetta; secondo quanto è scritto in Heb. 7, 19: “la legge non ha portato nulla alla perfezione” (q. 98, a. 1 resp.).
A partire dall’incarnazione e dalla passione e risurrezione di Cristo, il rapporto dell’umanità con Dio è mutato radicalmente: non vi è più un popolo eletto che doveva testimoniarne la presenza con leggi e norme precise concernenti gli aspetti storico-materiali della sua esistenza, con l’obbedienza e il timore di infrangerne le disposizioni (cfr. q. 98, aa. 4-6), ma piuttosto con l’adesione spirituale e l’amore per il prossimo e la carità. Non più un popolo particolare ma l’intera umanità era chiamata a sentirsi, come voleva l’apostolo Paolo, figlia prediletta di Dio; e tutto ciò era prefigurato non solo nei precetti della vecchia legge ma anche nei particolari delle cerimonie, liturgiche e non, cui il popolo ebraico doveva attenersi.
È necessario che la ragione di tutto ciò che è ordinato a un fine sia ricavata dal fine stesso. Il fine dei precetti cerimoniali [dell’Antico Testamento] è duplice: da una parte, essi erano coerenti con il culto divino del tempo e, dall’altra, prefiguravano la venuta di Cristo; così come anche le stesse parole dei profeti erano relative alla contemporaneità e, insieme, si rivolgevano al futuro, come afferma s. Girolamo, Super Osee [I, I, 3]. Analogamente, dunque, le ragioni dei precetti cerimoniali della vecchia legge possono essere interpretate in due modi. In un primo modo per le modalità con cui si celebrava a quel tempo il culto divino, e in questo caso le parole del testo vanno intese in senso letterale sia che concernano le pratiche atte a evitare un culto idolatrico, sia per ricordare alcuni benefici ricevuti da Dio, sia per sottolineare l’eccellenza divina o anche per indicare la disposizione mentale allora richiesta per adorare Dio. In un secondo modo quelle stesse ragioni precettistiche possono essere lette in quanto atte a prefigurare Cristo, e in questo caso esse assumono un significato allegorico e mistico, sia che traggano senso dallo stesso Cristo e dalla Chiesa, il che comporta un significato allegorico, sia che riguardino i costumi del popolo cristiano, e allora ciò concernerà l’etica, sia infine che si volgano allo stato di gloria futura, alla quale si accede attraverso Cristo, e allora il senso della lettura sarà anagogico (q. 102, a. 2 resp.).
Tutto ciò offre il destro, a Tommaso, per dare un’indicazione di metodo nella lettura del testo sacro nel suo insieme, che, da una parte, salva il nucleo centrale del messaggio divino e, dall’altra, lo libera da ogni particolarità in conseguenza del fatto che esso si è ormai compiutamente realizzato:
Il Nuovo Testamento è la legge insita nel cuore, e solo secondariamente è una legge scritta (q. 106, a. 1 resp.); l’Antico e il Nuovo Testamento possono essere distinti per il fatto che l’uno è più vicino e l’altro più lontano dal fine ultimo. Come per esempio in una comunità civile vi è una legge che riguarda gli uomini maturi, che possono subito dar seguito a ciò che concerne il bene comune, mentre un’altra legge riguarda l’educazione dei giovani che debbono essere istruiti in modo da compiere poi ciò che dovranno fare come adulti. Si deve dunque affermare che secondo il primo modo il Nuovo Testamento non stabilisce una legge diversa da quella del Vecchio, poiché entrambe hanno lo stesso fine che è la sottomissione dell’uomo a Dio, l’unico Dio del Vecchio e del Nuovo Testamento secondo quanto è scritto in Rom. 3[, 30]: “non c’è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi”. Secondo l’altro modo, il Nuovo Testamento è diverso dal Vecchio, poiché quest’ultimo è come il maestro dei fanciulli, come dice l’Apostolo, Gal. 3[, 24]: la legge del Nuovo Testamento è una legge di perfezione, poiché è la legge della carità, della quale l’Apostolo dice, Colos. 3[, 14], che è il “vincolo di perfezione” (q. 107, a. 1 resp.).
Tommaso riprende, in maniera ancor più dettagliata, il discorso relativo agli effetti della legge nella Secunda secundae della Summa dove, a seguito dell’analisi delle virtù, affronta il tema della giustizia. Nelle questioni in cui il problema è posto e analizzato rispetto ai più vari momenti della vita sociale, gli elementi di attenzione al giusto uso della giustizia emergono con forza ancora maggiore rispetto a quanto egli aveva scritto riguardo alla legge umana, a partire dalla definizione del diritto e della giustizia.
Il diritto, a suo avviso, è ciò che è giusto in quanto con quel termine si indica l’oggetto stesso della giustizia, e dal punto di vista operativo significa l’azione con cui ci si rapporta all’altro sulla base di un principio di eguaglianza; ed è proprio questo rapporto con l’altro che differenzia la virtù della giustizia da tutte le altre virtù, che sono invece rivolte al comportamento e al miglioramento dell’agente medesimo. D’altronde, il comportamento dell’uomo verso il suo simile è condizionato sia dalla natura umana in generale che dallo specifico modo di essere di ciascun popolo, per cui, in una realtà non più assolutamente «naturale» ma in cui l’animal che è l’uomo ha la caratteristica di essere dotato di ragione e, grazie a questa, di essere sociale et politicum, storicamente si è determinato un diritto delle genti che, a prescindere dalla loro naturale fisicità animale, valorizza tali caratteristiche e costituisce una sorta di collante generale e in qualche misura valido per tutti. Per dirla in altri termini, se
il diritto, ovvero ciò che è giusto, consiste in qualche operazione adeguata all’altro secondo un qualche modo di eguaglianza, [si deve tener conto del fatto che] tale operazione può essere adeguata all’altro in due modi. Il primo, a partire dalla stessa natura della cosa che è oggetto del rapporto: per esempio, laddove uno dà per ricevere altrettanto. E questo si chiama diritto naturale. Il secondo, quando il valore dell’oggetto di scambio è determinato da un contratto o da un accordo consensuale tra le parti […]. E questo si chiama diritto positivo (IIa IIae, q. 57, a. 2 resp.).
Il diritto delle genti è pertanto una creazione umana conseguente alla constatazione che la natura dell’uomo, per quanto immutabile nei suoi fondamenti essenziali, in virtù della ragione che ciascun uomo possiede e a suo modo usa liberamente copre un ampio spettro di posizioni. Come si può verificare nel caso del diritto di proprietà o all’interno di una famiglia allargata alla servitù, dove è possibile distinguere una serie di relazioni giuridiche diverse tra il capo famiglia e i servi (ius dominativum), i figli (ius paternum) e la moglie (ius oeconomicum) (cfr. q. 57, a. 4 resp.). L’accenno al diritto proprietario nei riguardi dei servi, o per meglio dire schiavi, la cui persistenza nella società occidentale supererà di secoli l’età dell’Aquinate, consente un minimo inciso rilevando che, di fronte alla posizione di Aristotele (Politica, II, 7, 1254a15 e II, 20, 1255b5) sulla servitù ‘naturale’ di alcuni uomini, Tommaso sostiene che essa non è affatto un dato di natura, ma una conseguenza storica dettata dall’esigenza di ‘educare’ gli uomini da parte dei più sapienti (cfr. IIa IIae, q. 57, a. 3 ad 2um).
Quanto alla giustizia, adattando la formula aristotelica dell’Etica (IV, 3, 1105a31), Tommaso fornisce sin dall’inizio della sua ricca presentazione del tema una precisa definizione magistrale: «la giustizia è un habitus secondo il quale con volontà costante e continua si attribuisce a ciascuno ciò che gli spetta ed è suo» (IIa IIae, q. 58, a 1 resp.), che lo impegna come filosofo e come teologo a mantenere un equilibrio costante tra l’esigenza di assicurare alla comunità civile uno stato di tranquillità nel rispetto dei diritti di ognuno e l’obbligo morale di non venir meno ai precetti del testo sacro. Vi è anzi, se è lecito usare una terminologia moderna, un preciso impegno ‘garantista’ nel precisare le modalità dell’esercizio della giustizia e dello svolgimento del processo. Nella questione 60, per es., si sottolinea che ogni processo deve svolgersi sempre sulla base di prove documentali e materiali certe e che non è lecito avviare un procedimento sulla base di semplici sospetti (a. 3), che di fronte al dubbio è opportuno cercare di dare un’interpretazione positiva (a. 4) e che comunque il giudizio si deve sempre fondare sul testo scritto della legge (a. 5).
Un caso particolare, e di notevole rilevanza per un credente, concerne la pena di morte, dal momento che il decalogo sembra vietarla espressamente. Ebbene, Tommaso dichiara esplicitamente che vi sono casi in cui una decisione di tal genere è necessaria e va praticata, trovando una precisa rispondenza nel parallelo che sempre accompagna l’ordine naturale con l’operatività umana:
È lecito uccidere gli animali bruti in quanto rientra nell’ordine naturale delle cose che essi servano all’uomo per vivere, così come ciò che è imperfetto è subordinato a ciò che è perfetto. Ma ogni parte è ordinata al tutto come imperfetto a perfetto, e perciò tutto ciò che è parte, per natura, esiste in funzione del tutto. E per questo vediamo che se per la salute di tutto il corpo dell’uomo è necessaria l’asportazione di un qualche membro, per esempio se è infetto e capace di propagare l’infezione agli altri membri, allora è opportuno e giusto procedere con un taglio chirurgico. Ora qualsivoglia persona singola ha, con il resto della comunità, lo stesso rapporto che ha la parte con il tutto. E perciò se un individuo è pericoloso per la comunità e capace di corromperla per qualche suo peccato, allora la sua uccisione è lodevole e salutare, al fine di conservare il bene comune: come scrive l’apostolo Paolo, I ad Cor. 5 [, 6] “un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta” (IIa IIae, q. 64, a. 2 resp.).
E per questo, «quantunque uccidere un uomo che mantiene la sua dignità umana sia di per sé un male, tuttavia dare la morte a un peccatore può essere un bene, come uccidere un animale: infatti l’uomo malvagio è peggiore di una bestia e nuoce maggiormente, come insegna il Filosofo nel I libro della Politica (I, 12, 1253a32) e nel VII dell’Etica (VI, 7, 1150a7)» (IIa IIae, q. 64, a. 2 ad 3um); fermo restando che tale compito può essere svolto esclusivamente da una persona pubblica, governante o magistrato che sia, e mai da un privato ancorché offeso (q. 64, a. 3) e solo nei casi in cui si ritenga che la punizione del carcere non sia sufficiente per la gravità della colpa o del peccato commesso (q. 65, a. 3).
A proposito della funzione giudicante e delle caratteristiche dello svolgimento del processo Tommaso aggiunge un considerevole numero di questioni che, spesso, colpiscono non soltanto per la chiarezza dell’esposizione ma anche per l’estrema padronanza – e modernità, verrebbe da dire – di linguaggio nella presentazione degli strumenti legali.
Qui è sufficiente richiamare come rilevi la necessità che a giudicare sia sempre il giudice ‘proprio’ (q. 67, a. 1), che questi ha l’obbligo di emettere il suo giudizio fondandosi esclusivamente sulle prove addotte nel corso del procedimento non tenendo conto di quanto può essere portato a sua conoscenza come privato cittadino (a. 2) e, infine, che
il giudice è interprete della giustizia: per cui, come dice il Filosofo nel V libro dell’Etica (IV, 7, 1132a20) “si rivolgono al giudice come a una legge animata”. La giustizia, come già si è detto, non riguarda se stessi ma gli altri, e perciò è necessario che il giudice si interponga tra due contendenti: il che avviene essendo uno l’attore e l’altro il colpevole. Quindi verificandosi un crimine, il giudice non può condannare nessuno in giudizio se non c’è l’accusatore: secondo quanto è scritto in Act. 25[, 16]: “i Romani non usano consegnare una persona, prima che l’accusato sia stato messo a confronto con i suoi accusatori e possa aver modo di difendersi dall’accusa” che gli è rivolta (IIa IIae, q. 67, a. 3 resp.).
Altre questioni riguardano poi, in dettaglio, l’esercizio dell’avvocatura, vari tipi di crimini, problemi relativi al commercio e all’usura: sempre nell’ottica di delineare una condizione umana comunitaria per quanto attiene alla vita terrena e capace di porre le migliori condizioni per acquisire la felicità eterna.
E proprio in quest’ottica delle condizioni di vita Tommaso fa anche un accenno al problema che, ai suoi tempi e non solo, si poneva come uno dei maggiori pericoli per la convivenza umana, quello della guerra, proponendo una soluzione che somiglia in qualche modo a quella relativa alla pena di morte.
La questione 40 della Secunda secundae affronta appunto il tema della guerra, o meglio si pone il seguente problema: il Nuovo Testamento condanna la guerra e l’uso delle armi, come troviamo in Matteo 26, 52: «tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada», 5, 39: «Io vi dico di non opporvi al malvagio» e Romani 12, 19: «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina», e altrettanto insegna la Chiesa quando contrappone, come peccato, la guerra alla pace e proibisce la sepoltura in terra consacrata a coloro che muoiono in duello; ma sant’Agostino, nell’epistola 138 a Marcellino accolta nel Decretum di Graziano (P. II, c. XXIII, q. I, can. 2 Paratus), non vieta né l’uso delle armi né il servizio militare e Agostino è forse il più grande Padre della Chiesa. La risposta di Tommaso è che le guerre non sono tutte eguali, ed esiste una forma di guerra che può essere definita giusta, purché risponda a precisi requisiti: in primo luogo, che essa sia bandita da chi ne ha l’autorità, cioè il governante; in secondo luogo, la causa per cui si combatte deve essere giusta e, infine, è necessario che l’intenzione dei combattenti sia retta. Ma lasciamo la parola all’Aquinate:
Perché una guerra si possa definire giusta essa deve rispondere a tre quesiti. Innanzitutto è necessaria l’autorità del principe, per ordine del quale la guerra viene combattuta; infatti non è compito di una persona privata muovere guerra, visto che può promuovere i suoi diritti di fronte a un’autorità superiore. Inoltre, anche perché radunare un esercito, come è necessario fare per guerreggiare, non spetta a un privato. Dal momento che la cura dello Stato è affidata ai principi, spetta a loro difendere la comunità della città, del regno o della provincia soggetta al loro governo. E come giustamente la difendono con la spada materiale contro coloro che ne turbano la tranquillità all’interno, punendo i malfattori, secondo il detto dell’Apostolo, Rom. 13, 4: “non senza ragione porta la spada; infatti è il ministro di Dio che vendica con la pena chi agisce male”, così spetta loro, con la spada di guerra, difendere lo stato dai nemici esterni. Per cui ai principi è detto nel libro dei Salmi [81, 4]: “date sollievo al povero, liberate colui che è debole dalle mani del peccatore”, e s. Agostino scrive nel Contra Faustum [22, 75]: “l’ordine naturale, che tende alla pace tra gli uomini, richiede questo: l’autorità e la decisione di iniziare una guerra spetta ai principi”.
Inoltre, si richiede che vi sia una causa giusta, cioè che la guerra deve essere combattuta contro coloro che hanno commesso una colpa tale da renderla necessaria. Perciò s. Agostino scrive nel libro delle Quaestiones in Heptateuchon [VI, q. 10, super Iosue, 8, 2]: “si è soliti definire giuste le guerre che vendicano le offese; cioè quando è necessario punire un popolo o uno stato che si è rifiutato di porre riparo alle ingiustizie compiute dai suoi sudditi o di restituire quanto ingiustamente è stato sottratto”.
Infine, è necessario che l’intenzione dei combattenti rimanga retta, cioè tesa a promuovere il bene o a evitare il male. Per questo s. Agostino scrive nel libro De verbis Domini [ma De civitate Dei, XIX, 12, e cfr. Graziano, Decretum, P. II, c. XXIII, q. I, can. 6 Apud veros]: “presso i veri credenti in Dio, sono pacifiche anche le guerre condotte non per sete di conquista o crudeltà, ma per cercare la pace, per soggiogare i cattivi e innalzare i buoni”. Può comunque accadere che una guerra diventi illegittima perché, anche se è bandita da un’autorità legittima e vi sia una giusta causa, non è guidata da una retta intenzione. Per questo ancora s. Agostino afferma: “il desiderio di fare il male, la crudeltà della vendetta, un animo senza pace e implacabile, la ferocia della ribellione, la libidine del potere, e tutto ciò che assomiglia a questi impulsi: sono queste le cose che si condannano in una guerra” (q. 40, a. 1 resp.).
Non sempre quindi la guerra è condannabile, è male, dal momento che è l’intenzione a costituire il significato e il valore dell’azione che l’uomo compie, e se questa è retta, e quindi tesa ad affermare oppure ripristinare la giustizia, si giustifica agli occhi degli uomini e di Dio.
Dell’importanza dell’introduzione in Occidente, a partire dalla fine del 12° sec., del corpus aristotelico non è certamente il caso di parlare, ma per quel che riguarda la traduzione della Politica si può forse fare una sintetica eccezione. Tradotto intorno agli anni Sessanta del Duecento dal domenicano Guglielmo di Moerbecke, il testo dedicato specificamente allo Stato era atteso con grande curiosità da filosofi e teologi: dagli uni perché si aspettavano di trovarvi i principi normativi della scientia civitatis e un’indicazione precisa circa la costruzione dello Stato perfetto, dagli altri perché immaginavano di trovarvi argomenti utili a rafforzare le loro posizioni in rapporto alla secolare questione del contrasto tra potere spirituale e potere temporale. Una fiduciosa attesa e una speranza che andarono presto incontro alla delusione di fronte a un testo pieno di riferimenti storici a un mondo sconosciuto, anche se ricco di concetti politici che dovevano però essere rapportati al mondo medievale per essere utilizzati. Tanto che, a differenza della Fisica o dell’Etica, furono in pochi ad avventurarsi in una esposizione particolareggiata e, dopo il commento di Pietro d’Alvernia (continuazione di quello tommasiano), la maggior parte dei commentatori preferì enucleare singoli aspetti e concetti e commentarli separatamente. D’altronde, proprio perché la Politica non era in grado di fornire lo statuto, né tanto meno l’esemplificazione storica dello Stato perfetto, la sua lettura posta a complemento finale dell’Etica costrinse i maestri a rimodularne le nozioni fondamentali, alla ricerca di una sintesi con la tradizione politica precedente e dando così spazio a sviluppi tanto interessanti quanto eterogenei.
In altri termini, mentre la Fisica fece giustizia delle incerte formulazioni cosmologiche elaborate sino al 12° sec. sulla base del Timeo platonico tradotto e commentato da Calcidio, dei testi dello pseudo Dionigi Areopagita e dell’ampio commento agostiniano della Genesi, e l’Etica spostò l’accento dello studio dei comportamenti umani in un ambito sostanzialmente diverso da quello, esclusivo, delle virtù cristiane, la Politica non raggiunse lo stesso risultato.
In primo luogo, resa disponibile dopo la formulazione dei curricula universitari, la Politica non venne inserita tra le opere obbligatorie dei corsi magistrali e la sua lettura fu affidata a lezioni facoltative, una sorta di appendice ai corsi sull’Etica. In secondo luogo, si può notare che la scienza giuridica e la tradizione dei testi ciceroniani avevano già fornito una serie di spunti atti a indirizzare la riflessione politico-istituzionale. Si può quindi constatare che la Politica viene per lo più utilizzata non tanto perché fornisce indicazioni sulla forma di governo, quanto piuttosto come mezzo per porre l’esigenza di una necessaria riflessione sulla ‘scienza’ della politica, intesa come scienza pratica per eccellenza, in grado di condurre all’individuazione delle regole che debbono essere poste per strutturare secondo natura i rapporti tra gli uomini, e tra loro e le istituzioni che si sono date e si potrebbero dare.
Da questo punto di vista Tommaso rappresenta un caso emblematico. Pur essendo sin dagli inizi un lettore acuto e puntuale dell’opera aristotelica e un attento difensore del suo significato filosofico, sino al suo secondo soggiorno parigino egli mostra un interesse piuttosto scarso per la riflessione politica in senso proprio. Prima degli anni Settanta troviamo soltanto un rapido cenno nel suo commento alle Sententiae di Pietro Lombardo relativamente ai rapporti tra potere spirituale e potere temporale. In quella sede, per altro, e malgrado una certa ambiguità nella dichiarazione finale che potrebbe anche essere riferita al dominio temporale del pontefice nelle terre del Patrimonio di san Pietro, sembra di poter ricavare una posizione in cui, fatta salva la superiorità del potere spirituale in vista della beatitudine eterna, l’accento batta sull’autonomia reciproca tra i due poteri, senza sostenere la subordinazione, nel fatto e nel diritto, del potere temporale.
Sia il potere spirituale che il potere temporale derivano dal potere divino. Perciò il potere temporale è sottomesso a quello spirituale nella misura in cui gli è sottoposto da Dio, cioè nelle questioni che riguardano la salvezza dell’anima. Pertanto, nelle questioni che riguardano il bene civile, si deve ubbidire di più al potere temporale che al potere spirituale secondo quanto è scritto in Matteo 22, 21: «Date a Cesare quello che è di Cesare» (In II Sententiarum, d. 44, q. 2, a. 3 ex. ad 4um).
Un interesse specifico per la riflessione politica emerge con la lettura diretta della Politica, a cui Tommaso dedica un commento, interrotto alla sesta lezione del terzo libro, preceduto da un importante e programmatico proemio. In questo infatti egli definisce il ruolo e il significato della politica come scienza all’interno di ciò che essenzialmente designa l’uomo come tale, vale a dire la capacità di tradurre nella realtà concreta quanto può acquisire con la sua dote più alta, cioè la ragione che da speculativa si fa pratica, secondo un processo che si modella su quello della natura. Sino a giungere alla costituzione di una «comunità civile ordinata all’autosufficienza per provvedere a una vita veramente umana. […] E poiché tutto ciò che serve all’uomo a lui si ordina come al fine ultimo, ne consegue che questo tutto che è la comunità civile è il fine supremo che la ragione umana possa conoscere e costituire» (Sententia libri Politicorum, Prooemium). Si tratta quindi di una scienza necessaria, che rientra nell’ambito delle scienze morali in quanto riguarda l’agire e si pone come la più importante, «architectonica», dal momento che considera come proprio scopo il bene ultimo e perfetto dell’uomo.
Nel suo commento al primo libro Tommaso, secondo l’uso e il genere dell’opera, analizza minutamente il testo aristotelico, sottolineando la naturalità di ogni formazione politica a partire dalla famiglia sino alla formazione dello Stato, e funge da premessa all’ampia disamina delle costituzioni delle città greche, argomento del secondo libro in cui la parte più interessante è costituita dalla critica che Aristotele rivolge nella prima parte, alla proposta politica formulata da Platone nella
L’Aquinate non conosceva le opere platoniche, per cui le sue osservazioni si basano esclusivamente sul testo dello Stagirita, sottolineando polemicamente le incongruenze, politiche e morali, conseguenti a uno Stato fondato sul principio astratto dell’assoluta monoliticità statuale, a partire dall’abolizione dell’istituto familiare, con la conseguente promiscuità di donne e figli, sino alla scomparsa della proprietà privata, per concludere che l’unità dello Stato non dipende da una forzata identità tra tutte le componenti, ma anzi dalla loro necessaria varietà. È infatti la compresenza di varie specificità, idonee a risolvere problemi e a rispondere a necessità diverse, che rende una la comunità, perché a suo fondamento sta una sorta di contratto basato sulla condivisione di fini e mezzi stabiliti di comune accordo. Aristotele osserva – scrive e concorda Tommaso – che Socrate, il quale pure sosteneva che compito del legislatore è quello di rendere felice la comunità, sia grazie alla virtù dei componenti sia per i beni materiali, con il suo progetto di costituzione la toglieva loro, «poiché voleva che non avessero niente di personale, né proprietà, né mogli, né figli, tutte cose che tuttavia costituiscono proprio gli elementi indispensabili e strutturali della felicità, come si ricava dal primo libro dell’Etica» (II, lect. 5).
Dalla critica alle costituzioni antiche Aristotele passa, nel terzo libro, all’esame dei principi fondamentali della convivenza politica: le forme dell’organizzazione statuale (il governo di uno, di pochi e di molti) nel loro stato ottimale e in quello peggiore, la definizione della comunità civile, il riconoscimento dello status di cittadino e la distinzione tra il buon cittadino e l’uomo buono (o virtuoso). Ed è proprio dopo aver esposto e commentato questi concetti del suo autore che Tommaso interrompe il suo commento: come se, arrivato a questo punto, e constatato che quanto aveva da dire l’aveva già detto o lo stava dicendo nella Summa theologiae, gli si imponesse una riflessione autonoma, svincolata dalla traccia del Filosofo e tale da consentirgli un passo in avanti rispetto allo status della questione. Del resto, il suo commento resta programmaticamente al livello di esposizione e offre pochi spunti originali, che sono invece ben presenti, ad es., nel testo di Pietro d’Alvernia che sarà utilizzato come continuazione del suo o negli interventi che prenderanno spunto da un tema o da una definizione di Aristotele per indagare su questioni di attualità.
È in questo contesto storico, dottrinale e biografico che Tommaso scrive il De regno ad regem Cypri, dedicato a Ugo III di Lusignano, un trattato rimasto anch’esso frammentario ma che comunque nella «prima parte, ossia quella portata a termine, rende possibile una ricostruzione delle concezioni politiche di Tommaso d’Aquino: in essa infatti è tentata una nuova via teorica per una considerazione della politica e della costituzione politica degli uomini. Per la prima volta nel 13° secolo la Politica aristotelica è qui applicata direttamente al mondo medievale coevo» (Miethke 2000; trad. it. 2005, pp. 32-33), ed egli ne era consapevole come si può capire dalla dedicatoria.
Pensando a un omaggio che fosse degno dell’altezza reale e confacente al mio stato di religioso e al mio ufficio, ho deciso che il miglior dono da offrire a un re consiste nello scrivere un libro sul regno, arricchito da una scrupolosa ricerca per quanto è concesso al mio ingegno, sulla sua origine e sui compiti del sovrano, tenendo presente l’autorità della sacra Scrittura, l’insegnamento dei filosofi e gli esempi dei più celebri uomini di Stato, confidando – per iniziare, proseguire, concludere – nell’aiuto di colui che è il re dei re e il signore dei signori e grazie al quale i re regnano, Dio, grande signore e grande re su tutti gli dei (De regno, Prooemium).
La letteratura tradizionale degli specula principum avrebbe consigliato un approccio diverso: un’esaltazione delle virtù cristiane necessarie al regnante e un richiamo all’umiltà dello scrivente. Qui, invece, si parla di un dono degno, di per sé, dell’autorità regale (laica) e della capacità intellettuale di un religioso, maestro in arti e in teologia, che tra l’altro tra i suoi doveri ha anche quello di insegnare. E intende insegnare, utilizzando non solo la rivelazione (il testo sacro) ma anche la ragione (i filosofi) e, ed è forse la maggiore novità, la storia, una storia reale e concreta, fatta di uomini e non di santi. Tommaso, quindi, sposta il fuoco del suo obiettivo che non è quello di comporre un manuale di comportamento etico per il principe, né una mera presa d’atto delle componenti sociali dello Stato, né un elenco di situazioni di fatto. Il suo intento è quello di comprendere, e spiegare, scientificamente come si forma la società politica e, sulla base di questo fondamento, dedurre quali siano i doveri della funzione regale, non tanto come imperativi morali, ma come logiche conseguenze dell’ordinamento politico di cui si trova a capo.
Leggendo il De regno (che, ricordiamolo, è solo una parte di quanto aveva progettato di scrivere), è evidente che il suo modello è la Politica aristotelica, il testo che aveva l’ambizione di illustrare l’articolazione di una scienza posta al vertice di tutte le scienze pratiche: non inanella citazioni su citazioni o exempla edificanti, ma apre alla riflessione politica uno spazio nuovo nella misura in cui il suo trattato sulla regalità parte dalla concezione dell’uomo comune che è, antropologicamente, «re a se stesso» e nello stesso tempo naturalmente «sociale e politico». È la stessa natura umana, dotata di ragione e dello strumento del linguaggio, il mezzo indispensabile per comunicare con l’altro, a indirizzare ciascuno verso il soddisfacimento del fine immediato della sopravvivenza prima e di una vita «conveniente a sé» poi: il che può verificarsi soltanto in una comunità di simili che, nelle loro singole diversità, riconoscono l’esistenza di un fondamento comune. Lo Stato nasce quindi da questa convergenza di natura e ragione, e riconosce nel processo dell’ordine naturale, ove ogni cosa è parte di un tutto e in esso si completa, il modello della stessa convivenza civile: «È necessario che in ogni comunità vi sia uno che la regga e governi» (De regno, I, 1).
E non è detto che questo «uno» sia obbligatoriamente un re. Tommaso conosceva la tripartizione delle forme di governo postulata da Aristotele, le buone, indirizzate al bene comune: monarchia, aristocrazia e governo popolare, così come le loro degenerazioni, caratterizzate dal prevalere dell’egoismo o bene proprio dei governanti, in tirannide, oligarchia e democrazia; tuttavia, e qui naturalmente giocava a favore il modello divino di governo dell’universo, la sua simpatia non poteva che andare al modello monarchico, senza che ciò però facesse velo alla sua consapevolezza che i governi debbono essere adatti ai popoli e alle circostanze, e tenendo conto che:
dovendo scegliere tra due forme di governo dalle quali possono insorgere pericoli, è opportuno scegliere il male minore. Dalla monarchia, qualora essa inclini alla tirannide, consegue un male minore rispetto al governo degli ottimati quando esso si corrompe. La discordia infatti che nasce tra un regime di più persone va contro al bene della pace, che è sommo in una comunità sociale e che non è abolito dal governo di un tiranno, il quale va a toccare i beni privati dei singoli, a meno che non si imbarbarisca a tal punto da colpire tutta la cittadinanza (I, 6).
D’altra parte, un governo «ingiusto» come la democrazia è pur sempre preferibile a quello tirannico, perché la scala di valori si capovolge nel trasferimento della somma del potere dal bene al male:
E non c’è da meravigliarsi, poiché un uomo che abdica al primato della ragione e dà sfogo alla supremazia della passione che lo anima, quella del potere, non differisce in niente da un animale bruto, come dice Salomone nei Proverbi [28, 15]: “Un re empio è come un leone che ruggisce e un orso affamato verso un popolo impoverito”; e perciò gli uomini rifuggono dai tiranni come da bestie crudeli (I, 4).
Il problema della tirannia, e di come liberarsi da una forma di governo oppressiva e lesiva dei diritti fondamentali, era già stato affrontato incidentalmente da Tommaso allorché, nella Summa theologiae, aveva affrontato la questione della rivolta contro un potere costituito. Nella q. 62 della Secunda secundae aveva affermato che la «sedizione» è da considerarsi un peccato mortale, confortato dal parere di sant’Agostino nel De civitate Dei [II, 21], e tuttavia nella risposta al terzo argomento in contrario aggiungeva una postilla:
il regime tirannico non è un regime giusto, poiché non è finalizzato al bene comune ma piuttosto a quello privato del governante, come risulta da quanto affermato dal Filosofo nel terzo libro della Politica [ma V, 4, 1279b6] e nell’ottavo dell’Etica [ma X, 2, 1160b8]. E perciò la rivolta contro questo regime non ha il carattere della sedizione; a meno che la rivolta non degeneri in una tale violenza che il popolo non ne ricavi un danno maggiore di quello arrecato dal regime precedente (Summa theologiae, IIa IIae, q. 62, a. 2 ad 3um).
Nel De regno l’analisi più ravvicinata delle forme di governo induce l’Aquinate a determinare le precauzioni istituzionali per prevenire l’insorgere della tirannide:
Stabilito che si deve preferire il governo di uno solo, che rappresenta l’ottima forma di governo, e visto il pericolo che esso si trasformi in tirannide, che è la peggiore, è necessario operare con il massimo impegno perché il corpo sociale che desidera darsi un re non cada in mano a un tiranno. In primo luogo è necessario che coloro, a cui spetta l’elezione regale, scelgano una persona tale da non far prevedere alcuna sua inclinazione alla tirannide. […] Inoltre, la funzione di governo deve essere disposta in modo tale da sottrarre l’occasione di trasformare la monarchia in tirannia e contemporaneamente il potere regale deve avere dei limiti, perché di per sé non scivoli nel governo personale, e i criteri con cui ciò può essere fatto saranno considerati in seguito. Infine, qualora malgrado tutto il re si trasformi in tiranno, è necessario cercare i rimedi opportuni (De regno, I, 7).
I rimedi, per altro, consistono nella sopportazione, se la tirannide non è eccessiva: infatti talvolta il rimedio, violento come una rivolta, può comportare o l’insuccesso con relativo inasprimento della tirannia o la presa di potere da parte di un nemico del tiranno che però, a quel punto, è peggiore del precedente, essendo ammaestrato dalle sue stesse azioni; oppure nel tirannicidio, che però è proibito dalla legge sacra e dal diritto, configurandosi come un atto criminoso perpetrato da un singolo privo di pubblica autorità. La soluzione migliore, quindi, per Tommaso è la via istituzionale, che consiste nell’appello all’autorità superiore: il popolo stesso, che può destituire legittimamente un re che non tiene fede al patto elettorale stipulato con il popolo all’atto dell’elezione, oppure, se il governo non è stato affidato dal popolo ma da un’autorità superiore, il ricorso a questa perché provveda alla destituzione. Oltre a ciò, vi è solo il ricorso a Dio, con la preghiera e con una condotta di vita pura, perché, come fonte di ogni potere, provveda a modificare il cuore del tiranno o a eliminarlo.
Solo dopo aver esaminato le questioni fondamentali attinenti alla nascita e alla formazione di un tipo di governo, e averne fatto emergere le eventuali degenerazioni, Tommaso si richiama alla letteratura tradizionale dei trattati destinati ai re, ma anche in questa seconda parte del testo ogni sua valutazione ha come base l’origine naturale dello Stato e, conseguentemente, le funzioni regali, anche se coronate da virtù, debbono tener conto che il fine del governo è quello di assicurare il bene comune dei soggetti. Questa conclusione, d’altronde, se concerne il fine dell’uomo nella sua dimensione terrena, lo obbliga anche ad affrontare il problema del rapporto che questo fine ha con quello ultraterreno; in altre parole, che tipo di rapporto esista tra il potere temporale e quello spirituale a cui aveva già accennato nel commento alle Sententiae che abbiamo riportato sopra.
Nella Summa theologiae alla questione 60, articolo sesto, della Secunda secundae troviamo che «il potere secolare è soggetto a quello spirituale come il corpo all’anima. E pertanto non si tratta di una intromissione indebita se un ecclesiastico interviene in questioni attinenti al potere temporale se esse appartengono all’ambito che gli è proprio o che a lui sono demandate dal potere secolare» (ad 3um), confermando quindi, pur nella vaghezza dei termini, la precedente opinione. Ed è quanto, nella sostanza, si può ricavare dalla lettura dell’ultimo capitolo del primo libro De regno:
il re, come deve essere soggetto all’autorità e al governo regolati dalle mansioni sacerdotali, per la stessa ragione deve avere l’autorità su tutte le mansioni umane, ordinandole con il suo potere sovrano. Colui che ha il compito di condurre qualcosa che è ordinato ad altro come al suo fine, deve preoccuparsi che il suo operato sia congruo al fine da perseguire. […] Poiché dunque il fine ultimo della vita che conduciamo in Terra è la beatitudine celeste, all’ufficio regale spetta organizzare una buona esistenza sociale, secondo quanto è necessario per conseguire la beatitudine celeste, imponendo ciò che serve a conseguirla e proibendo, per quanto possibile, ciò che la impedisce.
Affermazioni, queste, che si prestarono a letture opposte da parte degli stessi allievi e auditori di Tommaso: per fare due nomi, Giovanni Quidort da Parigi fu uno dei più acuti sostenitori dell’autonomia del potere temporale da quello spirituale, mentre Tolomeo da Lucca sostenne la tesi diametralmente opposta. Ma questa è forse la dimostrazione più chiara della ricchezza e della novità dell’insegnamento dell’Aquinate di cui scrisse il suo primo biografo, Guglielmo di Tocco, riportando il giudizio dato da Egidio Romano nei confronti di coloro che, con lui, avrebbero voluto portare in giudizio la dottrina del maestro:
Indizio manifesto della sottigliezza dell’ingegno e della certezza del giudizio di frate Tommaso, dottore mirabile e degno di essere ricordato, è il fatto che le opinioni inconsuete e gli argomenti che sostenne da baccelliere non ritenne di dover mutare, salvo che in pochi casi, una volta divenuto maestro, né nell’insegnamento né nei suoi scritti. Noi moderni, invece, adusi a una facoltà di giudizio incerta e dubbiosa, siamo soliti mutare nel loro contrario, con poca fatica, le opinioni che talvolta sosteniamo. E per questo motivo anche costoro, i quali esaminano i suoi scritti, non essendo capaci di comprendere quanto dovrebbero giudicare, sono guidati soltanto dallo stimolo dell’invidia, riuscendo soprattutto importuni allorché condannano ciò che non conoscono (Hystoria beati Thomae de Aquino, 1968, pp. 85-86).
Sancti Thomae Aquinatis Doctoris Angelici ordinis praedicatorum Opera omnia ad fidem optimarum editionum accurate recognita, 25 voll., Parmae 1852-1873.
Doctoris Angelici Divi Thomae Aquinatis sacri Ordinis F.F. Praedicatorum... Opera omnia, studio ac labore S.E. Fretté, P. Maré, 34 voll., Paris 1871-1872 (rist. New York 1948-1950).
Sancti Thomae Aquinatis Doctoris Angelici Opera omnia iussu Leonis XIII. P. M. edita, cura et studio Fratrum Praedicatorum, Romae 1882-.
Chartularium Universitatis Parisiensis, éd. H. Denifle, Ae. Chatelain, Paris 1889-1897 (rist. anast. Paris 1964).
Si v. inoltre:
Guglielmo di Tocco, Hystoria beati Thomae de Aquino, in Thomae Aquinatis vitae fontes praecipuae, ed. P.A. Ferrua, O.P., Alba 1968.
Processus canonizationis Thomae de Aquino, in Thomae Aquinatis vitae fontes praecipuae, ed. P.A. Ferrua, O.P., Alba 1968.
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