Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dal punto di vista dell’intera produzione intellettuale, e di quella filosofica e teologica in particolare, il secolo XIII rappresenta lo snodo innovativo della creatività medievale. Come in passato, ancor oggi accade che il nome più rappresentativo di questa novità emergente e destinata a persistere nella storia successiva sia proprio quello di Tommaso d’Aquino. Nella sua opera sono recepite le testualità del passato che consentono di proporre una rielaborazione del pensiero di Aristotele, calandolo all’interno dell’impianto filosofico del neoplatonismo. Nello schema tripartito dell’Uno, dell’uscita dall’Uno e del ritorno all’Uno, Tommaso scopre una magnifica risorsa di intelligibilità per investigare le dinamiche strutturali della natura dell’universo, in particolare dell’immane potenza rinchiusa nell’intelligenza dell’uomo e nelle proiezioni dei suoi desideri più intimi.
Tommaso d’Aquino
L’epistemologia
Somma Teologica, I, 1, 8
Si deve dire che, come le altre scienze non costruiscono argomenti per provare i propri princìpi, bensì a partire dai princìpi costruiscono argomenti per provare altre verità nelle stesse scienze, così questa dottrina non costruisce argomenti per provare i propri princìpi, che sono costituiti dagli articoli di fede, bensì da questi procede per dimostrare qualche altra verità; come Paolo, che dalla resurrezione di Cristo costruisce l’argomento per provare la resurrezione di tutti.
Si deve tuttavia considerare che nelle scienze filosofiche, le scienze inferiori né provano i loro princìpi, né discutono contro chi li nega, ma demandano ciò a una scienza superiore: la più alta tra di esse, ossia la metafisica, confuta chi nega i propri princìpi, se l’avversario concede qualcosa; se invece non concede nulla, non può disputare con lui, mentre può confutare i suoi argomenti. Anche la sacra dottrina non ha altro sapere sopra di sé e discute con chi nega i suoi princìpi: lo fa costruendo argomenti, se l’avversario concede qualcosa dei contenuti della rivelazione, come quando mediante le autorità della sacra dottrina discutiamo contro gli eretici, e attraverso un articolo argomentiamo contro chi nega un altro articolo. Se invece l’avversario non crede in alcuno dei contenuti della rivelazione divina, non resta più alcun percorso per avvalorare gli articoli di fede mediante argomentazioni, ma si possono confutare gli argomenti contrari alla fede, se l’avversario ne adduce qualcuno.
Dal momento che la fede si appoggia su di un’autorità infallibile, e del resto è impossibile che si possa dimostrare il contrario della verità, è evidente che le prove che vengono addotte contro la fede non sono dimostrazioni, ma argomenti confutabili.
T. d’Aquino, Somma Teologica, trad. it. A. Ghisalberti
Tommaso d’Aquino
La prima via
Summa theologiae
Che Dio esista può essere provato con cinque vie. La prima e più manifesta via è quella ricavata dalla parte del movimento. Infatti è certo, e consta ai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Invero, tutto ciò che si muove, è mosso da un altro. Una cosa infatti si muove per il fatto che è in potenza rispetto a ciò verso cui si muove; inoltre, ciò che muove lo fa in quanto è in atto. Infatti muovere non consiste in altro che nel trarre qualcosa dalla potenza all’atto: per esempio, una cosa calda in atto, qual è il fuoco, fa essere caldo in atto un legno, che è caldo in potenza, e per questo lo muove e lo altera. Non è tuttavia possibile che una medesima cosa sia contemporaneamente in atto e in potenza dallo stesso punto di vista, ma solo da diversi punti di vista: infatti una cosa che è calda in atto non può contemporaneamente essere calda in potenza, bensì è contemporaneamente fredda in potenza. È perciò impossibile che, dallo stesso punto di vista e nello stesso modo, una cosa sia movente e mossa ossia che muova se stessa.
È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso a sua volta da un altro. Perciò, se ciò che muove a sua volta è mosso, occorre che anch’esso sia mosso da un altro, e quest’ultimo da un altro. Ma in questa successione non si può procedere all’infinito, poiché così facendo non ci sarebbe un primo motore e, di conseguenza, nessun altro motore, dal momento che i motori intermedi muovono solo in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non perché è mosso dalla mano.
È pertanto necessario pervenire a un primo motore che non sia mosso da altro: e tutti lo intendono come Dio.
T. d’Aquino, Somma Teologica, trad. it. A. Ghisalberti
Tommaso d’Aquino
Forma e Materia
Somma contro i Gentili
Ciò permette di considerare la mirabile connessione delle cose. Si riscontra sempre infatti che il soggetto più basso del genere superiore viene a toccare quello supremo del genere inferiore: per esempio, gli animali meno sviluppati, quali le ostriche che sono immobili e provviste solo di tatto, stando fisse alla terra come le piante, superano di poco la vita delle piante. Cosicché il beato Dionigi afferma che “la divina sapienza unisce le estremità degli esseri inferiori ai princìpi di quelli superiori”. Perciò si riscontra che il supremo nel genere dei corpi, ossia il corpo umano dalla complessione equilibrata, viene a toccare l’infimo nel genere delle sostanze intellettive, come si può scoprire dal modo di conoscere intellettualmente. Ecco perché si dice che l’anima intellettiva è come “orizzonte” e “confine” tra gli esseri corporei ed incorporei, in quanto è una sostanza incorporea, che però è forma del corpo. Tuttavia l’unità risultante di sostanza intellettiva e di materia corporea non è meno perfetta di quella esistente tra la forma del fuoco e la sua materia, anzi è superiore: poiché più una forma supera la sua materia, più è perfetta la sua unità con essa.
Sebbene però l’essere della forma e della materia sia unico, non è necessario che la materia raggiunga nella perfezione l’essere della forma. Anzi, quanto più una forma è superiore, tanto nell’essere sorpassa la materia. Il che risulta evidente a chi consideri l’operare delle varie forme, da cui si viene a conoscere la rispettiva natura: perché ogni causa opera in conformità col proprio essere. Perciò una forma, la cui operazione sorpassa le condizioni della materia, per la dignità del suo essere è essa stessa superiore alla materia.
T. d’Aquino, Somma contro i Gentili, trad it. a cura di T. S. Centi, Torino, Utet, 1978
Tommaso d’Aquino
Si deve considerare che, anche se tutti gli esseri stanno sotto la divina provvidenza e tutti ricevono da Dio la grandezza conforme alla loro condizione, tuttavia ciò accade in modo diversificato.
Dal momento che tutti i beni particolari presenti nell’universo risultano ordinati al bene comune dell’universo, come la parte al tutto e l’imperfetto al perfetto, le cose sono disposte dalla divina provvidenza secondo l’ordine che esse hanno con l’universo; inoltre si deve sapere che secondo il modo nel quale le cose partecipano alla perpetuità, esse spettano alla perfezione essenziale dell’universo, mentre secondo il modo nel quale si allontanano dalla perpetuità, esse spettano alla perfezione accidentale dell’universo, e non di per sé: pertanto, in quanto si tratta di cose perpetue, sono disposte da Dio in modo da essere fini a se stesse; in quanto invece sono corruttibili, sono disposte in ordine ad altro.
Dunque le cose che sono perpetue sia per la specie, sia per gli individui, sono governate da Dio come fini a se stesse; le cose corruttibili negli individui, e perpetue solo nella specie, sono disposte da Dio come fini a se stesse per quanto riguarda la specie, e come individui solo in ordine alla specie. Così il bene e il male che accadono agli animali bruti, come ad esempio accade che questa pecora sia uccisa da questo lupo o altri fatti simili, non vengono dispensati da Dio per il merito o il demerito di questo lupo o di questa pecora, ma a causa del bene delle specie, poiché a ciascuna specie è assegnato da Dio il proprio cibo.
T. d’Aquino, Commento a Giobbe, trad. it. A. Ghisalberti, Edizione Leonina
Tommaso, figlio di Landolfo dei conti d’Aquino, nasce a Roccasecca all’incirca nel 1221 e sin da piccolo soggiorna nella vicina abbazia di Montecassino, dove è accolto come oblato con voti non definitivi e riceve i primi gradi di istruzione. Nel 1239 Tommaso raggiunge Napoli, per studiare alla Facoltà delle Arti della locale università, fondata nel 1224 da Federico II, e può seguire un curriculum che prevede, accanto allo studio della logica, anche quello della filosofia naturale di Aristotele.
Mentre negli stessi anni a Parigi è in vigore un decreto che vieta di studiare la filosofia naturale e la metafisica di Aristotele, a Napoli l’accesso ad Aristotele è libero; la cultura presente alla corte palermitana di Federico II è da sempre aperta alle opere filosofiche e scientifiche dell’antichità, dando forte impulso alla realizzazione delle traduzioni in latino delle opere di Aristotele e dei filosofi greci ed arabi, e se ne cura la diffusione nello studio di Napoli. L’interesse per i testi del passato sino ad allora sconosciuti all’Occidente latino è sicuramente uno degli elementi decisivi nella formazione di Tommaso, che non smetterà mai nella sua vita di impegnarsi nella frequentazione diretta dei testi di Aristotele e dei pensatori antichi, pagani e cristiani, scrivendo commenti letterali a essi, e cercando di procurarsi traduzioni sempre più perfette sia per le opere scritte in greco, sia per quelle scritte in arabo. L’assimilazione della grande enciclopedia del sapere dei Greci e degli Arabi, in una fase di intenso confronto con culture diverse, è all’origine anche della scelta di Tommaso di applicare l’epistemologia aristotelica alla teologia cristiana, innovando così la tradizione filosofico-teologica dell’alto Medioevo, fortemente segnata dal neoplatonismo.
Ulteriore elemento decisivo per la vicenda biografica di Tommaso è l’incontro a Napoli con l’ordine dei Frati predicatori (Domenicani), cui segue la decisione di entrare a farne parte (primavera del 1244), nonostante l’opposizione dei familiari, che attivano un periodo di reclusione. Una volta liberato, si trasferisce nel convento domenicano di Parigi, dove frequenta le lezioni del maestro e confratello Alberto Magno; al seguito di quest’ultimo, nel quadriennio successivo completa la propria formazione a Colonia. Nel 1253 rientra a Parigi per iniziare la carriera accademica nello studio teologico della università, come baccelliere addetto al commento della Bibbia e della raccolta sistematica di Sentenze teologiche fatta da Pietro Lombardo; del Commento alle Sentenze redige una stesura definitiva, che ne fa la prima grande opera sistematica dell’Aquinate. Negli anni del suo insegnamento come baccelliere la situazione all’università parigina registra uno scontro tra i maestri appartenenti al clero secolare, capeggiati da Guglielmo di Saint-Amour, e i Maestri degli ordini mendicanti, Domenicani (in prima fila il nostro Tommaso) e Francescani (guidati da Bonaventura di Bagnoregio). Il conflitto, dovuto all’accusa di attentato all’autonomia dell’università rivolta dai secolari verso i mendicanti, a causa del loro voto di obbedienza alle gerarchie degli ordini, produce il ritardo di circa un anno nella nomina a maestro reggente di Tommaso, che inizia il suo primo magistero parigino nei primi mesi del 1257.
La docenza rimane la nota precipua dell’intera biografia di Tommaso: dopo il primo triennio di insegnamento a Parigi (1257-1259), nel decennio successivo egli insegna in diversi centri di studio in Italia, per riprendere poi l’insegnamento a Parigi (1269-1272) e infine all’Università di Napoli (1272-1274). Questa scelta ha influenzato in modo decisivo la sua vasta produzione scientifica, che può complessivamente essere fatta rientrare nelle tre attività comprese fra i compiti del maestro: leggere e commentare (legere); disputare, ossia tenere dispute dialettiche per approfondire in modo penetrante la dottrina (quaestiones disputatae); predicare, ossia costruire percorsi dottrinali, in sermoni rivolti alle varie componenti della comunità universitaria.
Gli scritti di Tommaso si distribuiscono all’interno di queste aree, a partire dalle lezioni sotto forma di commento a numerosi testi del passato: testi biblici (Antico e Nuovo Testamento), quasi tutte le opere filosofiche di Aristotele, gli scritti teologici di Boezio, dello Pseudo Dionigi Areopagita e del neoplatonico Proclo, il cui pensiero circola attraverso una silloge araba dal titolo Libro delle cause (Liber de causis). Cospicue le raccolte di Questioni disputate, risultato di un’intensa didattica universitaria sulle più scottanti dispute teologiche e filosofiche (Sulla verità, Sulla potenza, Sul male, Sull’anima), alle quali vanno collegate, poiché secondano la novità pedagogico-didattica della quaestio scolastica, le due più celebri opere sistematiche dell’Aquinate, la Somma teologica (in tre parti), e la Somma contro i Gentili, in quattro libri.
Se nel genere dei sermoni in senso stretto rientrano i commenti pubblici a testi biblici o liturgici, e le prediche in volgare, rivolte al popolo e a noi giunte solo in traduzione latina, è tuttavia possibile affiancare a questo genere le discussioni pubbliche confluite negli Opuscula: spiccano tra queste le opere polemiche, da quelle giovanili in difesa dei mendicanti, alle polemiche condotte negli anni intorno al 1270 nei confronti dei maestri della Facoltà delle Arti (celebri il Trattato sull’unità dell’intelletto contro gli averroisti e il Trattato sull’eternità del mondo). A Tommaso si devono anche diverse composizioni liturgiche, fra cui l’officiatura completa per la festa del Corpus Domini (letture e inni).
Tommaso si professa sempre teologo, o, nel linguaggio del tempo, “maestro della sacra dottrina”; lo specifico di questa dottrina è quello di essere sacra, e pertanto essa include un ambito di conoscenza che si rapporta al lume divino: ““La sacra dottrina, una in sé, si estende alle cose di spettanza delle diverse scienze filosofiche, per la ragione formale sotto la quale essa riguarda le cose nelle diverse scienze, in quanto cioè esse sono conoscibili mediante il lume divino”” (Somma Teologica, I, 1, 4).
La Rivelazione è un tramite conoscitivo (lumen), il quale si radica nella perfetta intelligibilità della conoscenza che Dio ha di se stesso; il lume totalmente trasparente proprio della conoscenza divina si partecipa, tramite la Rivelazione, a ciò che Dio ha di fatto rivelato, ossia agli articoli di fede; si espande poi, di riflesso, su tutto ciò che Dio può rivelare, sul “rivelabile”, che ricopre la totalità delle cose, la totalità dei saperi settoriali, perché tutti sono conoscibili mediante il lume divino, e perciò rivelabili.
Nel sapere teologico è ben presente la ragione nella sua valenza filosofica classica; Tommaso accoglie dagli Analitici secondi di Aristotele la portata scientifica dell’argomento sillogistico, che sorregge la natura dimostrativa del sapere, e, da premesse universali e necessarie, conclude a una scienza altrettanto universale e necessaria. Nella Somma teologica Tommaso mostra così di credere nella filosofia in senso ampio, ossia nella capacità della ragione umana di supportare un sapere che ha origine dalla Rivelazione, ma che si espande attraverso forme, analisi e percorsi validati dalla ragione.
La teologia ha tuttavia la peculiarità di non partire da premesse universali ed evidenti, ma dagli articoli di fede, accolti dalla Rivelazione; il suo rigore scientifico si esplica nel confutare il loro negatore: applicando quanto dice Aristotele nel quarto libro della Metafisica (IV, 4; 1006 a2- 1006 b12) a proposito del principio di non contraddizione, la confutazione è possibile se l’avversario della teologia concede qualche enunciazione ricavata dalla Rivelazione. È il caso degli eretici, che accolgono alcune verità rivelate e ne respingono altre: ciò rende possibile il processo di confutazione (élenchos), facendo ricorso a testi della Scrittura per mostrare l’incoerenza interna delle proposizioni eretiche. Se l’avversario della sacra dottrina non accetta nulla di quanto è contenuto nella Rivelazione, ci si concentrerà nel mostrare l’infondatezza delle procedure argomentative che giungono a conclusioni contrarie alle verità rivelate.
Secondo Tommaso, al maestro in sacra dottrina compete l’impegno di confutare le affermazioni contrarie alla Rivelazione, non essendo queste dimostrazioni rigorose, bensì argomenti sofistici. Per intendere correttamente questa tesi capitale dell’epistemologia teologica di Tommaso, va esclusa l’ipotesi che si cada in un circolo vizioso, come se l’Aquinate argomentasse in questo modo: il teologo sa dalla Rivelazione, accolta per fede, che gli argomenti di ragione contrari alla Rivelazione sono falsi. Questa posizione non rispetterebbe l’autonomia della ragione, poiché sarebbe la fede a decidere di possedere la verità, escludendo la ragione. In realtà Tommaso non si limita a dire che è sufficiente sapere che gli argomenti contrari alla Rivelazione sono falsi; egli afferma che alla ragione è data la possibilità di costruire argomenti razionali che concludano diversamente, e di individuare la mancanza di rigore formale intrinseco al procedimento argomentativo dell’avversario.
Il metodo ora illustrato, a proposito della scientificità del sapere teologico, trova applicazione anche nelle molte opere in cui Tommaso commenta la Sacra Scrittura: l’intento è quello di ricavare dalle affermazioni del testo sacro degli elementi dottrinali che servano ad avvalorare le verità della fede cattolica e a confutare le tesi contrarie. Il ricorso all’autorità dei testi sacri o profani deve seguire un ordine basato sul grado di autorevolezza degli autori: l’argomento di autorità fondato sulla rivelazione divina è totalmente efficace. La sacra dottrina usa invero anche il ragionamento umano, non già per dimostrare le verità di fede (poiché così facendo si abolirebbe il merito della fede), bensì per rendere manifesti alcuni contenuti della sacra dottrina. Delle autorità della Scrittura canonica invece fa uso appropriato costruendo argomenti necessari; delle autorità dei diversi Padri della Chiesa fa uso come procedendo da argomenti appropriati, ma considerati solo probabili (Somma teologica, I, 8, ad 2).
Esistono alcune verità che sono contenute nella Rivelazione, ma che contemporaneamente sono argomentabili anche per via di ragione: si tratta dell’esistenza di Dio, dei suoi attributi e della natura spirituale dell’anima intellettiva, capace di garantire l’immortalità. Tommaso chiama queste verità “preamboli agli articoli di fede”, per dire che si tratta di nuclei veritativi di base, cui la ragione umana può pervenire autonomamente, ma che, stante la difficoltà per il loro raggiungimento da parte di tutti e stante l’urgenza che tutti li conoscano da subito, Dio ha incluso anche nelle verità rivelate. Per Tommaso questi “preamboli” manifestano l’intrinseca accordabilità di fede e ragione.
All’inizio della Somma teologica, Tommaso si domanda se sia possibile provare con procedimento filosofico l’esistenza di Dio e risponde che la si può provare con cinque vie, cinque considerazioni non fra loro staccate, ma che propongono come cinque formulazioni di un medesimo procedimento razionale “a posteriori”, ossia che parte dall’analisi dei dati di esperienza e giunge all’affermazione dell’esistenza di un principio trascendente l’ordine empirico.
La prima via parte dalla constatazione sensibile del movimento o divenire, definito aristotelicamente come passaggio dalla potenza all’atto. Questo passaggio può avvenire solo a opera di un agente in atto: questo è un principio fondato sull’impossibilità che una cosa “muova” se stessa, causi cioè il proprio passaggio dalla potenza all’atto. Se nessuna cosa diveniente può passare da sé dalla potenza all’atto, ma ha bisogno di un agente o motore estrinseco, la successione delle cose divenienti si configura come una serie di cose mosse, che a loro volta fanno passare delle altre cose dalla potenza all’atto. Ora, questa serie non può andare all’infinito, perché ciò significherebbe non trovare un principio, un’origine, una spiegazione: senza un principio nessun moto potrebbe mai iniziare, e quindi si dovrebbe dire che non può esserci nemmeno quel movimento che noi constatiamo essere presente, qui e ora. Per evitare questa conclusione contraddittoria, occorre ammettere un primo motore non mosso, che è all’origine del divenire, e che tutti chiamano Dio.
Le altre quattro prove hanno una struttura sostanzialmente analoga alla prima, mentre cambia il dato di esperienza da cui muove la costruzione del percorso. L’affermazione secondo la quale non si può andare all’infinito, compare nella seconda e nella terza via e poggia sempre sul principio di non-contraddizione: se si va all’infinito nella ricerca della causa efficiente dell’essere delle cose che risultano causate (seconda via), o della ragione della loro contingenza ossia del loro non essere sempre (terza via), accade che le realtà causate e gli effetti contingenti non trovano una spiegazione e perciò non dovrebbero esserci.
La quarta via parte dall’osservazione della gradualità delle perfezioni possedute dagli enti finiti: si tratta di perfezioni come la bontà, la verità o la nobiltà ontologica, che sono dette perfezioni trascendentali perché sono coestese con l’essere. Ma l’essere finito, detentore di questi gradi di perfezione, non è intelligibile se non viene visto nella sua fonte e nel suo fondamento: perché esista questo essere qui, deve esistere l’essere in sé, l’essere assoluto, perché sia tolta la contraddizione che deriva dal porre l’essere partecipato, limitato, senza che sia posto l’essere impartecipato, infinito, sussistente, che ne è la causa.
La quinta via muove dalla constatazione del finalismo in rapporto agli enti privi di conoscenza: gli agenti naturali (sprovvisti di ragione), nelle loro operazioni, raggiungono sempre o quasi sempre un risultato, un bene che si configura come il loro fine, perché rappresenta l’ottimo per la loro natura. Trattandosi del tendere al fine da parte di enti privi di conoscenza e poiché questo finalismo non può essere spiegato con il caso, data la costanza del comportamento degli agenti naturali, si deve concludere a un essere intelligente, in grado di dirigerli al fine.
Le diverse dimostrazioni dell’esistenza di Dio trovano un necessario complemento nelle argomentazioni relative agli attributi più specifici di Dio, come l’unicità, l’infinità, la bontà; inoltre Tommaso ritiene che le prove dell’esistenza di Dio, pur offrendo delle conclusioni altamente probanti, non sono dimostrazioni apodittiche, tali da rendere manifesta alla ragione finita la trascendenza di Dio o da abolire il carattere misterioso della rivelazione e la gratuità dell’atto di fede.
Sul piano della filosofia della conoscenza, Tommaso propone una rielaborazione dell’empirismo moderato di Aristotele, secondo cui l’intelletto ricava i concetti solo astraendoli dalla realtà empirica colta attraverso i sensi; i concetti universali vengono sottoposti al giudizio a opera dell’intelletto, che si avvale del possesso congenito dei primi principi (principio di identità, di non contraddizione e del terzo escluso). La nozione più comprensiva cui perviene l’intelletto umano è quella di ente (ossia di ciò che ha l’essere), che pertanto costituisce l’oggetto specifico dell’ontologia e che consente, attraverso la formula dell’analogia, di elaborare il tracciato della metafisica circa l’essere, le sue proprietà trascendentali (uno, vero, buono, bello), la natura degli enti composti da materia e forma, le cause del divenire e dell’agire dell’uomo.
Tommaso assume la prospettiva antropologica e psicologica di Aristotele, secondo la quale l’anima intellettiva dell’uomo, che assicura la possibilità dell’operazione del pensare o ragionare, si rivela detentrice delle caratteristiche della forma sostanziale, capace cioè di costituire come esistente e operante l’uomo; tale forma sostanziale è unica e assolve anche le funzioni dell’anima vegetativa e sensitiva.
La dottrina dell’unicità della forma sostanziale offre un apporto decisivo alla soluzione del problema dell’unità intrinseca del soggetto, la quale invece è compromessa nelle antropologie dualiste di matrice platonica; resta tuttavia da risolvere il problema circa il come la recuperata unitarietà del soggetto non implichi complicazioni sul versante dell’immortalità dell’anima, decisiva per l’antropologia cristiana.
Tommaso giunge all’affermazione della prerogativa dell’anima umana di sopravvivere alla dissoluzione del corpo, che pure è l’organo deputato allo svolgimento delle sue attività formali, argomentando la non necessità per l’anima di servirsi del corpo come organo quanto all’attività intellettiva; instaura perciò un percorso volto a dimostrare che l’anima, oltre a essere forma sostanziale, è forma sussistente, possiede cioè un essere autonomo, come risulta dal fatto che essa compie delle operazioni indipendentemente dal corpo, quali la conoscenza che l’anima può avere di tutti i corpi, la conoscenza dell’universale e l’autocoscienza. Essendo forma pura, poiché nelle operazioni ricordate non resta vincolata agli organi corporei, se ne postula l’indipendenza ontologica, e pertanto si esclude che l’anima intellettiva debba corrompersi con la corruzione del corpo.
La tesi della “sussistenza” dell’anima dell’uomo, unica forma sostanziale del corpo, esplicita la valenza dell’anima non solo nella sua funzione di “mente”, di principio dell’intendere, ma altresì nella funzione metafisica dell’anima, come principio ontologico, sulla base di un isomorfismo tra l’operazione del conoscere e l’essere del soggetto conoscente, isomorfismo esplicitato dall’adagio scolastico: operari sequitur esse, ossia l’operare dipende dall’essere. La connessione tra ordine operativo e ordine ontologico poggia sia sulla concezione della forma come principio di trasmissione dell’essere, sia sull’assunzione dell’essere come principio di attività, come perfezione che consente di sviluppare il dinamismo dell’operazione.
Convinto dell’ortodossia in senso aristotelico di queste tesi, Tommaso contrasta energicamente, in tutte le sue opere, l’interpretazione materialista dell’anima di alcuni peripatetici greci, come Alessandro di Afrodisia, ma soprattutto quella del celebre commentatore arabo di Aristotele, Averroè, rilanciata a Parigi da Sigieri di Brabante: Averroè e Sigieri sostengono che l’intelletto attivo e passivo di cui parla Aristotele è una sostanza spirituale separata, unica per tutta la specie umana, mentre il singolo uomo dispone solo della conoscenza sensitiva che culmina nella fantasia o immaginazione potenziata. Secondo Tommaso, l’unicità dell’intelletto (o monopsichismo) preclude una attività conoscitiva autonoma degli individui, così come esclude la loro sopravvivenza alla dissoluzione del corpo.
L’approccio teologico all’antropologia, che si riscontra nelle opere di esegesi biblica di Tommaso, mantiene intrinseca sinergia con le prospettive filosofiche sopra esposte, e può essere così sintetizzato: dalla grande sollecitudine che il Dio della rivelazione ebraico-cristiana mostra per l’uomo si ricava che nell’uomo è nascosto “qualche cosa capace di perpetuità”; siccome Dio nel suo operare non può che occuparsi di cose che stiano in relazione appropriata con il proprio essere eterno, si deve concludere che l’essere dell’uomo, di cui Dio si cura, ha una destinazione all’eternità.
Tutti gli uomini convengono nel tendere all’ultimo fine, in quanto tutti desiderano la propria felicità o la propria perfezione: in queste nozioni, di felicità o di perfezione, è inclusa di diritto la nozione di ultimo fine come del bene pieno, capace di conferire la felicità o la perfezione, non esistendo il quale verrebbe meno la nozione stessa di felicità o perfezione nei gradi parziali. Questa ordinazione finalistica suprema determina tutte le scelte etiche dell’agire umano, partendo dall’area delle virtù morali, già individuate da Aristotele, e estendendosi sul piano delle virtù soprannaturali (fede, speranza e carità), sulle quali si fonda la morale cristiana.
Se in generale la felicità è in connessione con il fatto che il desiderio si acquieta con il raggiungimento del bene desiderato, che produce diletto o piacere, questa esperienza di diletto è massima quando si tratta del raggiungimento del fine ultimo, del bene sommo, capace di saziare totalmente e definitivamente il desiderio. Si prospettano perciò per l’uomo due distinte specie di felicità: quella terrena, conseguente al raggiungimento di beni finiti, e quella eterna, derivante dal bene sommo. La felicità terrena e imperfetta rientra sempre nella specie di felicità dell’uomo, dotato di intelletto e volontà; già Aristotele aveva fissato nell’aspirazione della mente dell’uomo alla conoscenza totale e perfetta delle realtà semplici il tratto caratteristico della felicità umana. Ma l’uomo non è solo intelletto e, dopo aver distinto tra l’azione transitiva, che passa nella materia esterna (facere), e l’azione immanente, che rimane nello stesso agente (agere), Tommaso prospetta l’apertura infinita che connota il campo dell’attività umana, poiché l’uomo si caratterizza per il plesso ragione mani: “l’anima intellettiva, capace com’è di comprendere gli universali, ha una potenza che si estende a infiniti oggetti”; possedendo per natura la ragione e le mani, “l’uomo può prepararsi strumenti di una varietà infinita, e in ordine a effetti infiniti” (Somma teologica, I, 76, 5, ad 4).
Rispetto alle linee di tendenza dei suoi predecessori, Tommaso rivaluta il rapporto uomo/natura: non c’è traccia del pessimismo di quanti vedevano nell’impegno lavorativo soltanto il risultato di una punizione, né della diffidenza nei confronti del mondo naturale, insita in ogni visione manichea e dualistica. Affiorano cioè pienamente tutti gli stimoli culturali che hanno portato a un rinnovamento della visione del contesto naturale in cui l’uomo opera, in consonanza con le novità fondamentali registrate sin dagli inizi del secolo XIII, quella che viene dalla celebrazione degli elementi presenti nel Cantico delle creature di Francesco d’Assisi, e quella derivante dalla visione scientifica del cosmo contenuta nei libri naturali (Fisica, Metafisica, Sull’anima) di Aristotele, che ha sostituito sia la cultura del simbolismo mistico, sia quella fantasiosa dei lapidari e dei bestiari dell’alto Medioevo.