DEL GARBO, Tommaso
Nacque a Firenze verso il 1305 dal famoso medico Dino, di nobile e antica famiglia. Studiò con Gentile da Foligno ma, a detta di F. Villani, "paterni acuminis imitator et scimia, paucis annis propinquissimis expeditus phisicus maximus in medicina famose claruit". Nel 1325-27 partecipò col padre a quella che venne definita una congiura di medici, frati minori, guelfi e professori contro F. Stabili, detto Cecco d'Ascoli.
In effetti alle radici dell'astio dei due Del Garbo verso lo Stabili era la convinzione di essere stati da lui scavalcati nelle grazie di Carlo duca di Calabria, che preferì quello come suo medico personale. Ma vi erano anche ragioni scientifiche, poiché essi avevano aspramente criticato i Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de Sacrobosco (Basileae 1485) di Cecco. Essi riuscirono a convincere. della colpevolezza dell'astrologo (in particolare per aver sostenuto che nella prima sfera esistono demoni per mezzo dei quali si possono operare incantesimi) l'inquisitore Accursio Bonfantini, frate minore, e il vescovo di Aversa; riuscirono anche a portare dalla loro parte la moglie del duca di Calabria, Margherita di Valois, a cui Cecco aveva fatto un oroscopo ritenuto oltraggioso (aveva predetto che lei e la figlia Giovanna sarebbero cadute in gravi dissolutezze). Nella ricerca dei responsabili della morte di Cecco, tra cui venivano indicati perfino Dante e Guido Cavalcanti, gli apologeti dell'astrologo commisero parecchie inesattezze, come rilevava già il Tiraboschi sottolineando diverse incongruenze cronologiche. Al D. in particolare si rimproverò d'esser stato concorrente di Cecco per ottenere la cattedra di medicina a Bologna nel 1322 e di averlo accusato davanti all'inquisitore Lamberto da Cingoli, domenicano, d'aver sostenuto le dottrine di Ermete Trismegisto. Se la seconda circostanza è ammissibile, alquanto improbabile pare invece la prima, dato che non risulta che il D. abbia insegnato a Bologna prima del 1345, nonostante la contraria affermazione dell'Appiani ("qui pariter in Gymnasio Bononiensi paulo ante praelegerat", p. 452), che si confonde al punto da far di Tommaso il frater germanus di Dino. L'inquisitore di Firenze, frate Accursio, dopo aver incarcerato Cecco, si convinse che egli era ricaduto nell'eresia, dopo la condanna di Bologna, e lo consegnò al vicario Iacopo da Brescia perché bruciasse l'eretico insieme ai suoi libri. Molti studiosi sono concordi nel ritenere che la vera causa di tale condanna non furono le sue posizioni astrologiche, ma l'odio dei suoi persecutori e nemici, tra cui Dino e Tommaso Del Garbo avrebbero avuto un ruolo di primo piano, anche per il disprezzo con cui Cecco aveva trattato tutti i Fiorentini, compreso Dante, e con cui aveva discusso la canzone Donna mi prega del Cavalcanti, commentata da Dino. È probabile che a certe dicerie si sia dato credito nell'intento di rivalutare Cecco e la sua opera scientifica e astrologica, facendone così una vittima dell'oscurantismo e dell'invidia. Comunque stiano le cose, e in assenza di documenti (anche i verbali del processo sono andati perduti), si può ritenere che il ruolo del D. sia stato abbastanza secondario, anche per la sua giovane età.
Piuttosto improbabile appare la sua presenza a Siena come studente intorno al 1327, al tempo del processo di Cecco (anche il padre nel 1325 era già ritornato a Firenze). È stato pure affermato, non si sa con quanta fondatezza, che intorno al 1339 era matricola all'università di Perugia, da un passo della Summa medicinalis, in cui accenna ad una polemica sulla presenza o meno dell'anima nel seme umano tra Francesco Zannelli, lettore a Perugia, e Giovanni della Penna.
È Certo che a Perugia il D. insegnò tra il 1343 e il 1345, guadagnandosi una certa fama: data da allora il lusinghiero appellativo di "redivivo Esculapio" (per la verità piuttosto comune negli elogi dei medici) per la sua abilità: a detta del Villani, i grandi signori d'Italia facevano a gara per averlo al proprio capezzale, sentendosi perduti se non fossero stati curati da lui. Con i loro favori divenne molto ricco, ed in conseguenza si portò a lungo dietro l'accusa di cadere nei vizi e nelle mollezze.
Nel 1344 si sposò con Antonia di Manno de' Medici e ne ebbe un figlio che chiamò col nome del padre, Dino (un figlio di questo, anch'egli di nome Dino, diventerà medico a sua volta). Nel 1345 lasciò Perugia, dove era stato uno dei primi medici di prestigio dello Studio, per trasferirsi a Bologna.
Della sua permanenza in questa università si sa ben poco; neppure è noto con sicurezza se fosse a Bologna o a Firenze quando, nel 1348, si abbatté sull'Europa il flagello della peste, e fiorì conseguentemente una vasta letteratura medica di consigli igienici ispirati al famoso Regimen sanitatis della scuola di Salerno. Il D. vi contribuì col suo Consiglio contro a pistolenza, Firenze 1522 (e poi 1523 e 1572), pubblicato con l'analogo testo del Ficino. Poiché il testo è dedicato ai Fiorentini ("massimamente per bene e salute degli uomini, che abitano nella città di Firenze"), qualcuno ha supposto la presenza del D. a Firenze, almeno per qualche tempo; ma il testo non offre alcuna prova a questo proposito. Il Ferrato che lo pubblica nella Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal sec. XIII al XVII, Bologna 1866, traendolo dal codice Farsetti CXXIdella Biblioteca Marciana, avverte che non è dato sapere se sia stato scritto in volgare dal D. o se si tratti di un volgarizzamento coevo; si tratta comunque di un esempio di buon toscano trecentesco, valido come testo di lingua più che come opera strettamente medica, per quanto sia un importante documento di storia della medicina, perché testimonia in che modo veniva affrontato il contagio nel XIV secolo. Prima di tutto il D. afferma la necessità di allontanarsi dai luoghi appestati, anche perché certi corpi (dei fanciulli, dei convalescenti, dei tipi collerici o di coloro che fanno vita disordinata) sono predisposti più di altri a subire la "corruzione": la peste è intesa infatti come un alito velenoso che, espulso dai malati, contagia i sani colpendoli al cuore. I consigli sono legati alla vita quotidiana e rivolti ai non medici: come accendere il fuoco per scaldarsi, a che ora è bene uscire di casa, come lavare il proprio corpo e la casa (con aceto), quando aprire le finestre, quali "suffumicazioni" sono più utili, perché bisogna tenersi lontano dalla gente, e come devono comportarsi coloro che sono costretti dalla loro professione a stare a contatto con gli altri (medici, notai, preti: a questi ultimi consiglia di far uscire tutti e di ascoltare da lontano le confessioni, dopo aver bevuto vino o mangiato confetti, e tenendo in mano una spugna intrisa d'aceto). Riguardo ai cibi consiglia di mangiar poco, ma non di stare a digiuno; sono migliori i cibi asciutti, le uova, i pesci, la verdura cotta; dannosi i frutti, i formaggi, le radici, i legumi. Si sofferma in particolare sui vini (vernaccia e malvasia sono i più efficaci), sugli esercizi fisici, sul modo di dormire, sui diletti della mente ("i pensieri sieno sopra cose dilettevoli e piacevoli"). Buona cosa è portare vestiti larghi, tenere in mano un pomo di laudano, bere il giulebbe, la triaca e il metridato, ma soprattutto prendere le "pillole groliose di Giovanni Damasceno", di cui riporta la ricetta.
Tra il 1358 e il 1367 è testimoniata la sua permanenza a Firenze, dove fu gonfaloniere di Giustizia e priore; nel 1358 presenziò alla elezione di un certo Iacopo da Forlì a docente di filosofia e dialettica, come lettore di medicina e arti; nel 1364 era lettore di fisica insieme a Iacopo da Montecalvo, e in tale veste presentò al vicario del vescovo di Firenze il laureando Piero di maestro Duccio da Montevarchi. Nel 1368 lo troviamo a Milano per curare Galeazzo II Visconti sofferente di podagra, e poco dopo a Pavia, dove incontrò il Petrarca.
È stata avanzata l'ipotesi che fosse il Petrarca a farlo chiamare a Pavia; ma è più probabile che sia stato lo stesso Galeazzo, deluso dall'opera di un medico d'Oltralpe. In una lettera delle Senili (XII, I), del 13 luglio 1370 indirizzata al medico Giovanni Dondi di Padova, il Petrarca ricorda l'incontro dell'anno precedente con il D., in casa di un amico (se però la lettera fosse del 1366, come propone il Fracassetti, bisognerebbe anticipare tale incontro al 1365; ma nel 1367 egli risulta ancora rivestire la carica di gonfaloniere a Firenze). In tale lettera il Petrarca afferma d'esser stato giudicato da lui in ottima salute; in un'altra lettera precedente (Senili, VIII, 3), del novembre 1366, afferma che in una sua lettera il D. gli aveva posto la questione se conti di più l'opinione o la fortuna, sostenendo per conto suo che molto forte è l'influenza dell'opinione sugli esseri umani. Il Petrarca coglie il pretesto per una dotta disquisizione sul tema, già da lui ampiamente trattato nel De remediis utriusque fortunae per affermare che la fortuna nulla può contro gli animi forti; e cita ad esempio Galeazzo Visconti, detto "caro ad entrambi", afflitto dalla podagra al punto da non potersi reggere in piedi, e tuttavia coraggioso nel sopportare il dolore. Lo stesso Petrarca in un'altra lettera (Senili, XII, 2) del 17 nov. 1370 ci lascia del D. un ritratto di grande evidenza: straricco, talmente famoso che di lui si diceva che fosse in grado di far resuscitare i morti, ancora d'età virile, forte come un toro, ghiotto di fichi, mele, ciliege, che egli amava mangiare non con parsimonia, ma a sazietà "come i cavalli fanno del fieno" (nonostante l'amicizia personale vi traspare l'avversione del poeta per i medici, tant'è vero che il D. è ricordato come prova che neppure i medici sanno curare se stessi, anzi predicano bene e poi razzolano male). Anche il Villani lo descrive grosso di corporatura, basso, rustico d'aspetto, buon conversatore ma anche uomo di profonda dottrina; "filosofo alto e dotto, / medico non fu pari a lui vivente" lo definisce il Sacchetti nella Canzone in morte di messer Giovanni Boccacci.
Quando il Petrarca scrisse la lettera del 17 nov. 1370, il D. era morto da poco, presumibilmente a Firenze; D. Manni afferma d'aver tratto dal diario del Monaldi, contemporaneo del D., la notizia della sua morte il 28 ag. 1370.
Il D. fu sepolto come il padre nella chiesa di S. Croce. Nel 1372 e nel 1381 risulta tra i Priori di Firenze un Morello o Torello Del Garbo, figlio di Dino e fratello di Tommaso. La famiglia venne continuata dai figli del D., Dino e Gentile, anch'essi noti, il primo come medico, il secondo come priore nel 1420. Una famiglia, quella Del Garbo, in cui la medicina era intesa come tradizione familiare: un altro Dino medico, come s'è detto, è segnalato fra i discendenti del D., la cui stirpe si estinse comunque nel 1471 con la morte di un suo omonimo.
Morendo il D. non poté completare l'opera sua più ampia e ambiziosa, la Summa medicinalis (Venetiis 1506 e poi 1512 e 1521, Lugduni 1529), di cui egli scrisse solo due libri. Si tratta di un'opera di patologia generale tratta dalle sue lezioni, in cui discorre "de rebus naturalibus et de eis annexis humani corporis pertinentibus; de rebus non naturalibus appellatis ab extra inevitabiliter humano corpori occurrentibus", mentre la terza parte, "de rebus praeter naturam humanam corpus accidentaliter corrumpentibus" non fu compiuta. Anche per i riferimenti a personaggi del tempo o a polemiche in atto, l'opera ha una certa vivacità. Il D. difende il padre Dino dall'accusa di plagio delle opere del Torrigiano, anche se lo critica come galenico troppo osservante; cita lo zio Taddeo Alderotti e altri personaggi e filosofi come Guglielmo da Brescia, Antonio da Parma, e perfino Egidio Colonna e Alberto Magno per la "quaestio" sull'anima, "an semen sit formaliter animatum vel non" (egli ritiene che l'anima sia animata "virtualiter"). Interessanti anche i riferimenti alle prescrizioni mediche e ai medicinali usati, anche se si sente nell'opera un certo piacere per la bella pagina e per la medicina intesa da un punto di vista letterario. All'opera sono uniti due brevi trattati: De restauratione humidi radicalis e De reductione medicinarum: ad actum (anche Patavii 1564). Riguardo al padre, se qui lo difende dalle accuse, altre volte sa anche contrapporsi a lui, come a proposito della questione se le membra amputate sentano o no dolore. Concorda invece con le dottrine paterne sulle malattie ereditarie e con la sua convinzione che un feto di otto mesi non può sopravvivere perché sotto il segno di Saturno divoratore di figli, in un'opera che si trova unita con gli analoghi scritti del padre Dino e di Iacopo Della Torre: Expositio super capitula de generatione embryonis tertii canonis Fen XXV Avicennae (Venetiis 1502), dove comunque si rivela un acuto anatomista, e sa rilevare gli errori dei medici arabi ricollegandosi a Galeno e Ippocrate. Un commento a Galeno molto stimato per secoli furono i Commentaria in libros Galeni de febrium differentiis, con il testo di Galeno e le annotazioni del Leoniceno (Lugduni 1514, Papiae 1519 e Venetiis 1521).
Ricordiamo ancora De dosibus, Patavii 1558 (poi 1579, Lugduni 1584); Summula de reductione medicinarum et gradibus in eis repertis, composto nel 1361, nel ms. 110 della Biblioteca comunale e dell'Accademia Etrusca di Cortona, ff. 131-36; Sermo quem fecit primo anno suae lecturae Florentinae, ms. Vat. lat. 2484, ff. 212-14. Con le sue opere e la sua azione di medico il D. seppe conquistarsi una sua posizione di rilievo fuori dall'ombra paterna nel campo della patologia generale (la sua Summa è uno specchio della scienza medica nel secolo XIV). La sua immagine di studioso fu però offuscata, oltre che dalla sua partecipazione al "caso" di Cecco, dalla sua ricchezza, dalla vita splendida che condusse, da un temperamento "tardo e negligente" (Villani), cosicché non stupisce di vederlo beffato da Bartolino farsettaio fiorentino, che insegna a lui e al maestro Dino da Olena a trarre il sangue da un peto (Sacchetti, Trecentonovelle, XXVI) o di vederlo offrire una cena di pace a base di trippa e starne (ibid., LXXXVII) o dare una cura a base di buon vino (ibid., CLXVII).
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